A che serve scrivere?
Un libro non deve fare tutto
L’estate scorsa, alla presentazione di un romanzo, una persona fece all’autrice la fatidica domanda: a che serve scrivere? La signora che l’aveva posta non voleva essere polemica. Era sinceramente interessata a capire cosa avesse spinto l’autrice a chiudersi in casa eclissandosi nelle sue fantasie quando, a due centimetri dal suo naso, si stavano verificando una serie di catastrofi di portata mondiale: conflitti bellici di rara ferocia; equilibri tra Stati sovrani prossimi al punto di rottura; crisi economica; climate change; mercati al collasso; povertà e disoccupazione sempre più diffuse… a che serve scrivere in uno scenario del genere, si chiedeva la signora? Qual è il senso di pubblicare un libro, seppure inerente a problematiche odierne, quando c’è tanto altro che si potrebbe fare per il nostro presente?
La domanda mi accompagna ancora oggi come un rumore bianco, un macinio di rotelle che sfrigolano in background. Quando mi siedo davanti al pc, mi chiedo: cui prodest? Non credo che la letteratura debba necessariamente essere utilitaristica – che il bene, insomma, debba coincidere con l’utile; non credo che scrivere sia un dovere morale, una missione, una medaglia da appuntarsi al petto; non credo che un libro debba incontrare il sentire di tutti, né che possa cambiare le sorti del mondo. Come disse George Saunders: “Un libro non deve fare tutto […]; deve solo fare qualcosa”.
Ciò che vorrei delineare nelle prossime righe è il perimetro di quel qualcosa, e vorrei farlo contestualizzando il tema nel 2024, in questa società malata di neoliberismo, capitalismo etico, iper-consumismo. Vorrei individuare il qualcosa saundersiano ripercorrendo sinteticamente l’evoluzione della società, di conseguenza dell’arte e della cultura, nel corso dei secoli, e facendo riferimento, tra gli altri, ai testi di David Foster Wallace: il mio scrittore preferito, l’emblema del maschio bianco etero cis di estrazione alto-borghese, che, in ragione dei suoi privilegi, avrebbe potuto non chiedersi mai: cui prodest?
E invece.
I titoli in cui Wallace si è speso più esplicitamente riguardo all’annosa quaestio sono La scopa del sistema, Infinite Jest e la raccolta di interviste e conversazioni Un antidoto contro la solitudine. Facendo riferimento alle parole di Wallace, vorrei che muovessimo insieme i primi passi per sanare lo strappo tra intellettuali e moderna working class, tra dimensione letteraria e dimensione reale; in ultima istanza, tra chi i libri li scrive e chi sarebbe chiamato a leggerli, se quei libri fossero accessibili, fruibili e, soprattutto, rilevanti.
Capitalismo onnivoro e massificazione dell’arte
Wallace disse: “Ci sono artisti autentici che arrivano e si mettono a divedere per zero affrontando tsunami di scandalo e scherno pur di diffondere idee veramente importanti. Una volta che trionfano, però, e che le loro idee diventano legittime e accettate, i giramanovella e gli aspiranti geni accorrono al macchinario e cominciano a sfornare le loro pallette grigie, ed ecco che tutta la baracca diventa solo una forma vuota, l’ennesima istituzione creata alla moda […]. È un’inversione surreale della fine che un tempo toccava all’arte in anticipo sui tempi: morire perché ignorata. Adesso l’arte in anticipo sui tempi muore perché accettata. Adesso amiamo le cose tanto da farle morire. E poi ci ritiriamo negli Hamptons”.
Wallace ci racconta che il capitalismo, lungi da essere solo un sistema economico, è anche una sovrastruttura culturale, una zavorra di pensiero capace di portare a fondo con sé qualsiasi cosa, antagonisti compresi. Non è stato l’unico ad avvisarci. Anni dopo l’intervista di Wallace, il brano dei Radiohead How to Disappear Completely avrebbe espresso lo stesso disagio – quello di chi, avendo avuto largo successo di pubblico, si trova nella scomoda e contraddittoria posizione di foraggiare il nemico: la band si sente fagocitata dal sistema capitalistico di massificazione dell’arte contro cui sono rivolti molti testi del leader Thom Yorke. “That there, that’s not me/I’m not here, this isn’t happening” canta Yorke, annichilito da quello che sta accadendo alla sua musica, dolorosamente consapevole che il rock, come ogni altra forma d’arte, è l’ennesimo, più o meno accondiscendente ingranaggio di quella grande macchina di controllo mediatico alla quale sembrerebbe impossibile sottrarsi, perlomeno se si esce dalla proverbiale nicchia. Il filosofo Mark Fisher, nell’opera Realismo capitalista, giungerà alle stesse conclusioni parlando del suicidio di Kurt Cobain e della cosiddetta “MTV generation”.
Tutta l’arte, anche quella ribelle e avanguardistica, può essere ingurgitata dal capitalismo e vomitata fuori in una forma addomesticata, innocua, indolore. Per quanto riguarda la scrittura, ciò vale sia per chi scrive, che viene spinto dal mercato a preferire linguaggi e messaggi facili, epidermici, gratuiti, sia per chi legge, che viene orientato verso un consumo veloce, meglio ancora istantaneo, che non lasci traccia di sé e prepari il terreno alla prossima abbuffata di pagine prêt-à-porter. C’è una via d’uscita da questo circolo vizioso?
Hoi polloi, hoi oligoi: se la cultura è figlia del privilegio
Probabilmente la via d’uscita non sta nel prodotto, ma nella persona: se il capitalismo porta la bandiera della progressiva disumanizzazione dell’umano, allora è proprio dall’umano che bisogna ripartire. Bisogna chiedersi: chi è l’intellettuale, il membro-tipo dell’élite che produce cultura, oggi?
L’intellettuale (per definizione: persona colta, che si dedica attivamente alla produzione letteraria e artistica) è stato posizionato (e si è posizionato) in contrapposizione con il popolo sin dai tempi dell’antica Grecia. L’espressione hoi polloi, in greco antico, significava “la moltitudine”, da leggersi in senso dispregiativo come “la massa volgare, il popolino, la plebe”; essa era usata in contrapposizione a hoi oligoi, ossia “i pochi”, ma anche “gli eletti” (da qui il termine “oligarchia” e il relativo istituto politico). Chi anelava a produrre pensiero critico era troppo impegnato a combattere la volgarità della folla tramite il suo acuto ingegno per sporcarsi le mani con fatiche comuni – il lavoro, per citarne una –, e interpretava l’arte come un mero lasciapassare per l’Olimpo; non a caso, spesso viveva trovando un mecenate disposto a mantenerlo, mettendo la pecunia al primo posto nella scala dei valori materiali e morali: se diventare ricchi era considerata la principale ambizione, la povertà diventava “il peggiore dei mali” (Esiodo).
Si potrebbe parlare di aporofobia, sebbene il termine sia stato coniato solo nel 1995 dalla filosofa Adela Cortina Orts. Esso deriva da á-poros (senza ricchezze) e fóbos: paura (ma anche: repulsione, ostilità, odio) per il povero. Secondo il filosofo e sociologo Gilles Lipovetsky, l’aporofobia caratterizza tanto le classi agiate, quanto coloro che versano in condizioni economiche sfavorevoli: “Mentre alcuni nuotano in un mare di sfrenata consumatività, altri vedono degradarsi il loro livello di vita, conoscono la necessità di tagli continui alle voci più essenziali del loro budget, hanno le tasche piene della vitaccia quotidiana, provano l’umiliazione dell’essere aiutati dall’assistenza sociale […]. L’inferno non è l’interminabile spirale della consumatività, è l’ipoconsumismo di popolazioni fragili in senso a una società d’iperconsumi”.
I poveri odiano i ricchi perché i ricchi non conoscono “la vitaccia quotidiana”, perché possono permettersi di consumare come, quanto e quando vogliono; i poveri odiano anche e soprattutto sé stessi, perché si ritengono vergognosamente, colpevolmente prigionieri di una condizione di miseria per cui la vita non è più vita, e l’esistenza fine a sé stessa non ha ragione di perpetuarsi.
Chi sono i poveri, in Italia? Secondo un’interessante ricerca di SWG (2017), caduta la vecchia articolazione delle classi sociali (borghesia, piccola borghesia, proletariato e sottoproletariato), in Europa si è provato a proporre nuove classificazioni che peccano tutte della stessa miopia: sono tarate su una logica strutturalistico-determinista per cui la condizione lavorativa determina la condizione sociale. La realtà è più complessa di così. Oggi, a differenza che in passato, inferire un dato livello di benessere da una data professione è un’operazione azzardata: non è detto che un avvocato sia ricco in quanto tale. Potrebbe essere un libero professionista slegato da qualsiasi grande studio associato, con pochi clienti, tasse elevate ed entrate ridotte. Di conseguenza, secondo SWG, bisogna teorizzare classificazioni meno ancorate ai ruoli socio-professionali, più calate sul percepito delle persone e sulle loro abitudini quotidiane.
Utilizzando il metodo del sondaggio CATI-CAMI-CAWI su un campione rappresentativo nazionale, SWG racconta che l’1% della popolazione italiana si dichiara parte del ceto alto e il 5% di quello medio-alto, ossia: solo il 6% degli italiani gode di una effettiva tranquillità economica. Il ceto medio puro si è ridotto in maniera drastica: dal 60% nel 2002 al 33% nel 2017. Quello medio-basso, ossia la fetta che ha un reddito con cui riesce a provvedere allo stretto necessario, è cresciuto fino al 42%. Il ceto fragile (persone che avvertono diverse e pervasive difficoltà economiche) è pari al 13%; la quota di quanti si sentono ai margini della società è del 6%. I ceti medio-basso, fragile e ai margini della società, insieme, formano il 56% della popolazione italiana. A ciò si aggiunga che il potere d’acquisto decresce costantemente in ragione della crisi che serra la sua morsa, tant’è che persino il ceto medio (33% della popolazione italiana) dichiara di avvertire maggiori difficoltà nell’arrivare a fine mese. Insomma: la maggioranza degli italiani non ha risorse sufficienti a vivere in modo sereno e dignitoso in questa “società d’iperconsumi”. La situazione è simile, con sfumature più o meno calcate, nel resto d’Europa, fatta eccezione per alcuni Paesi dei Nord.
Tornando all’aporofobia, essa miete vittime in campo sociale, politico, economico e, per quel che qui interessa, culturale: i “poveri 2.0” e la moderna working class (ricordiamolo: il 56% della popolazione italiana, tenendo fuori dal calcolo il ceto medio, che pure è in sofferenza) sono esclusi da tutto, cultura compresa; non possono produrla, né possono fruirne, perché non sono in condizione di farlo. Aristotele scrisse che la filosofia nasce quando l'uomo ha soddisfatto i suoi bisogni primari e, tenendo conto del divario sempre più grave tra classi sociali (agiate e non) di tutto il mondo, si potrebbe aggiungere che anche fruire della filosofia è un privilegio che ci si può permettere solo se si ha la pancia piena.
Quindi: essere intellettuali significa essere privilegiati. Era così nell’antica Grecia ed è così anche oggi. Se gli intellettuali sono figli del privilegio, non potranno che rivelarsi scollati dalla realtà che le persone comuni vivono, a meno che non mettano in discussione quel privilegio e, in ultima istanza, sé stessi; peccato che ciò, in troppi casi, non accada. Ha ragione il nostro Umberto Eco quando afferma che, spesso e volentieri, i colti assumono un atteggiamento paternalistico nei confronti di chi è fuori dall’élite, autoincensandosi del ruolo di custodi e tutori degli “ignoranti”; ha ragione il filosofo e sociologo Zygmunt Bauman nel momento in cui scrive: “Quando si lamentano della decadenza culturale, i teorici e i professionisti della cultura deplorano il ridimensionamento della propria missione di proselitismo”.
Ecco chi sono gli intellettuali, nel 2024: missionari, santoni, idoli; soggetti che mirano ad accumulare consensi (ergo: potere e denaro) tramite l’arte a cui si dichiarano fedeli. Scriviamo per ingrassare “e poi ci ritiriamo negli Hamptons”, come ha detto lucidamente David Foster Wallace.
Dunque: il problema non è solo la massificazione dell’arte di cui al paragrafo 2. Il problema è anche il proselitismo degli artisti, la loro incapacità di mettersi in discussione. Ragionando in questi termini, non stupisce che gli intellettuali predichino di sovente la parabola dell’ignoranza come colpa, quando essa si configura, all’opposto, come una condizione derivante dall’impossibilità pratica di accedere al sapere; coerentemente, la presunta superiorità che deriverebbe dal leggere e dallo scrivere, tanto cara ai soggetti interessati a tutelare la loro posizione di privilegio, mira a trasformare gli intellettuali in una casta chiusa, non a rendere il sapere accessibile a tutti: gli intellettuali e solo loro devono essere votati alla conoscenza, separati dal volgo, troppo affaccendati nelle “cose sacre” per preoccuparsi di quel che accade nel mondo. Uso l’aggettivo “sacro” con cognizione di causa. La parola deriva dal latino sacer -cra -crum e si riferisce a tutto ciò che è connesso all’esperienza di una realtà altra rispetto a quella dell’uomo comune.
Come può la produzione culturale di questa casta elitaria essere interessante per i potenziali lettori, se la maggior parte dei potenziali lettori non appartiene alla stessa classe sociale, dunque non ha gli stessi problemi, non gode di alcuna tranquillità, non vive allo stesso modo? Ecco perché sempre meno persone leggono: sempre meno persone hanno tempo da dedicare alla lettura, soldi da spendere in libri e interesse ad approcciarsi a testi che non le riguardano, che non sono scritti pensando a loro, anzi, che le escludono scientemente dal discorso e dalla produzione culturale.
Bisogna fare un passo in più, a questo punto. Uno ancora.
A livello politico, auspichiamo una riforma economico-sociale e una ristrutturazione del mercato del lavoro che stabiliscano condizioni di benessere diffuso, permettendo a tutti, tra le altre cose, l’accesso all’istruzione e alla fruizione/produzione di sapere. Chiediamolo a gran voce alla classe dirigente; protestiamo; non restiamo con le mani in mano. E a livello culturale, che cosa possiamo fare?
Smettere di scrivere, se ci riconosciamo privilegiati? Bruciare i libri degli intellettuali d’élite? Chiediamoci: è possibile produrre pensiero che, seppure figlio del privilegio, riesca a parlare a tutti, configurandosi come trasversale alle classi? È possibile reinventare il ruolo dell’intellettuale, epurarlo dall’ideologia neoliberista che lo ha reso idolo spurio, riconducendolo a una dimensione più vicina al sentire comune – meno ubermensch, insomma, e più umano?
La scopa del sistema: l’amore è rivoluzione
Sentire: parola obliterata, nel 2024. Secondo il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman, i sentimenti, oggi, sono antieconomici, demonizzati dal potere costituito. Nel saggio Amore liquido, Bauman dimostra come l’ottica capitalista/neoliberista abbia permeato di sé persino l’amore: le relazioni a lungo termine sono viste come un investimento a perdere, dal momento che il risultato è incerto e l’energia da spendere è tanta; ecco perché è preferibile affidarsi a esperienze di consumo emotivo brevi, che richiedono meno sacrificio ed espongono a un rischio minore. Ecco perché siamo sempre più soli. Dice Bauman: “Finché dura, l’amore è in bilico sull’orlo della sconfitta. Man mano che avanza dissolve il proprio passato; non si lascia alle spalle trincee fortificate in cui potersi ritrarre e cercare rifugio in caso di guai. E non sa cosa lo attende, cosa può serbargli il futuro. Non acquisterà mai fiducia sufficiente a disperdere le nubi e debellare l’ansia. L’amore è un prestito ipotecario fatto su un futuro incerto e imperscrutabile”.
Ragionando in questo senso, potremmo dire che Wallace ha lanciato un messaggio antieconomico in La scopa del sistema – ciò nella misura in cui ha rimesso al centro del discorso culturale l’amore e l’empatia, assenti, anzi, del tutto annichiliti nella retorica capitalista e neoliberista. Attraverso le sofferenze della protagonista Lenore, l’autore ci indica quello che, a suo avviso, è il problema più grande della nostra epoca: l’orrore per l’intimità. Abbiamo paura di aprirci con qualcuno, di rivelarci senza maschere o filtri; abbiamo paura di farci vedere fragili, imperfetti, fallibili; abbiamo paura di lasciarci conoscere, poi di sentirci rifiutati, prevaricati, abusati in ragione di ciò che siamo. In sintesi: abbiamo paura di farci male, perché significherebbe perdere.
Del resto, il multimiliardario Elon Musk, braccio esecutivo di Donald Trump, ha insegnato ai suoi accoliti: “So essere uno stronzo e faccio sbagli come chiunque altro, ma ho la scorza dura perché ho accumulato molte cicatrici. L’importante per me è vincere, anzi: stracciare gli avversari”. Nella frenesia squalesca della nostra quotidianità non c’è spazio per l’altro – a meno che non lo si consideri un ostacolo da superare; qualunque contatto umano (l’amore in primis, ma anche l’amicizia o il semplice confronto costruttivo) diventa difficile per la sua imponderabilità, dunque indesiderabile.
All’inizio di La scopa del sistema, Lenore rifugge l’amore, atterrita all’idea di farsi conoscere in modo così intimo da qualcuno; dopo mille peripezie, sarà proprio l’amore a guarirla dalle sue ferite, aiutandola a uscire dal ginepraio chiamato “sé”. Solo alla fine del viaggio dentro sé stessi può incominciare il viaggio verso l’altro, il più impervio che ci sia – il più bello, scoprirà Lenore, e, attraverso la sua voce, Wallace cercherà di comunicarlo anche a noi: amare è un rischio, può rivelarsi una perdita di risorse emotive, materiali e psicologiche; dunque, in un’epoca in cui gli imperativi categorici neoliberisti che opprimono il nostro agire sono “azzera i rischi”, “riduci le perdite”, “il tempo è denaro”, amare è un gesto rivoluzionario.
Ed è dalla parte della rivoluzione, che, secondo Wallace, deve stare chi scrive: “Il compito della letteratura alta consiste in gran parte nel dare al lettore, che come tutti noi è un po' impantanato dentro la propria testa, nel dargli accesso, dicevo, tramite l'immaginazione, alla vita interiore di altri individui. Dato che una parte ineluttabile dell'essere umano è la sofferenza, ciò che noi esseri umani cerchiamo nell'arte è anche un’esperienza di sofferenza: che sarà necessariamente un'esperienza mediata, o per meglio dire una generalizzazione della sofferenza. Capisci cosa intendo? Nel mondo reale tutti soffriamo da soli; la vera empatia è impossibile. Ma se un’opera letteraria ci permette, grazie all'immaginazione, di identificarci con il dolore dei personaggi, allora forse ci verrà più facile pensare che altri possano identificarsi con il nostro. Questo è un pensiero che nutre, che redime: ci fa sentire meno soli dentro”.
Infinite Jest: un antidoto alla solitudine
La letteratura che voglia dirsi rilevante, oggi, deve parlare d’amore, di relazione con il prossimo, di che significhi essere umani nel 2024; ma non basta. Per opporsi alla grande macchina di controllo mediatico capitalista, la letteratura deve contribuire a distruggere la condizione di solitudine patologica in cui versiamo – che, è bene specificarlo, non afferisce solo all’inaridirsi dei rapporti umani, ma anche alla nostra incapacità di stare nel sociale, di pensare in modo collettivo, plurale. Come afferma la filosofa Sayak Valencia: “Il sociale contemporaneo può essere inteso come un agglomerato di individui incapsulati in sé stessi che condividono un tempo e uno spazio determinati e partecipano attivamente o passivamente (in modo radicale o più sfumato) a una cultura di iperconsumo”.
Siamo endemicamente involuti, patologicamente incistati in noi stessi, definiti da ciò che possediamo, non più da ciò che sentiamo; siamo monadi senza porte né finestre, ossessionate da ciò che si può consumare, terrorizzate da tutto ciò che attraversa i confini della nostra conoscenza ombelicale. Come siamo arrivati a questo punto? Scomodo ancora una volta Bauman, che riassume secoli di storia in un passaggio particolarmente efficace: “In tutte le società, la solidarietà o, piuttosto, la fitta rete di solidarietà (grandi o piccole, sovrapposte o incrociate) è servita da protezione e garanzia di certezza (per quanto imperfette), instillando la fiducia, la sicurezza di sé e il coraggio indispensabili all’esercizio della libertà e alla sperimentazione. La vittima principale della teoria e della pratica neoliberista è stata proprio quella solidarietà. ‘Non esiste una cosa come la società’, fu l’infelice dichiarazione con cui Margaret Thatcher riassunse il credo neoliberista. ‘Esistono’, disse, ‘singoli uomini e singole donne’".
Nonostante la libertà individuale sia aumentata esponenzialmente, come auspicato da Thatcher, la condizione umana non è affatto migliorata. Al contrario: si è verificato un aumento vertiginoso dell’insicurezza esistenziale, personale e collettiva. Bauman usa il termine tedesco unsicherheit per esprimere tutte e tre le dimensioni sopra citate; esse, agendo insieme, hanno determinato il consolidarsi di quella condizione diffusa di sfiducia tormentosa in cui siamo abituati a districarci: sfiducia nella propria capacità di fare la scelta giusta, essendo lievitato a dismisura il numero delle possibilità e, di conseguenza, il rischio di sbagliare; sfiducia nel sistema lavorativo, che non è più in grado di assicurare un’occupazione durevole e soddisfacente; sfiducia nell’altro, perché le relazioni sono un investimento a perdere; sfiducia nella politica, che non sa dialogare con i cittadini e soddisfarne i bisogni; sfiducia in sé stessi, perché la difficoltà nella costruzione dell’identità personale sembrerebbe aumentata per gli infiniti ruoli che gli individui sono costretti a ricoprire per guadagnarsi da vivere. A ciò si aggiunga l’incertezza provocata dalle catastrofi di portata mondiale di cui al paragrafo 1 e da secoli di evoluzione del pensiero umano, che ha abbattuto qualsiasi ideale – Dio, la patria, l’anima, la Nazione, la famiglia… – ma non è riuscito a costruire un’alternativa attorno a cui riunire teste e cuori orfani di ogni certezza.
In Infinite Jest, Wallace si scaglia contro la retorica del successo a ogni costo e del consumo/godimento rigorosamente iper-individualisti che, partendo dall’America, hanno infestato anche l’Europa: non è casuale che uno dei filoni narrativi principali di questo pantagruelico romanzo si sviluppi intorno a James Incandenza, pater familias ex campione di tennis e fondatore di una prestigiosa accademia dedicata proprio a quella disciplina. Il tennis rappresenta tanto le differenze di classe (costa molto, dunque possono permetterselo solo le persone abbienti), quanto il pensiero distorto di matrice neoliberista: è lo sport individuale per eccellenza, l’agonismo nella sua più pura essenza; il successo e, di conseguenza, il fallimento, sono ineluttabilmente, spietatamente personali.
La letteratura, secondo Wallace, deve porsi come un antidoto alla solitudine ingenerata da questo egoismo feroce e ferale; per farlo, non può (solamente) distruggere, ma deve anche costruire, porre un argine all’incertezza e alla sfiducia rilevate da Bauman: “Abbiamo tanta narrativa di qualità che si limita a ripetere con voce monotona che stiamo perdendo sempre più la nostra umanità, e che presenta personaggi senz’anima e senza amore, personaggi la cui descrizione si può esaurire nell’elenco delle marche di abbigliamento che indossano, e noi leggiamo questi libri e diciamo: ‘Wow, che ritratto tagliente ed efficace del materialismo contemporaneo!’ Ma che la nostra cultura sia materialista lo sappiamo già. È una diagnosi che si può fare in due righe. Non è stimolante. Ciò che è stimolante e ha una vera consistenza artistica è, dando per assodato che il presente sia grottescamente materialistico, cercare di capire questo: come mai noi esseri umani abbiamo ancora la capacità di provare gioia, carità, sentimenti di autentico legame per cose che non hanno un prezzo? E queste capacità si possono far crescere? Se sì, perché? Se no, perché?".
Un invito a costruire
L’autrice dell’inizio ero io. La fatidica domanda: “A che serve scrivere?” mi è stata posta durante la presentazione del mio romanzo d’esordio. Ricordo di aver dato una risposta balbettante e incerta, come balbettanti e incerte, necessariamente incomplete, sono queste righe. Spero che, seppure nella loro limitatezza, possano essere uno sprone per chi, come me, voglia decostruire il proprio privilegio, mettersi in discussione, scrivere sempre, ostinatamente contro.
Contro il potere costituito.
Contro chi ha tutto e crede che quel tutto gli sia dovuto.
Contro la messa bianca dell’opulenza da cui Jean Baudrillard ci aveva messo in guardia.
Contro il capitalismo in ogni sua forma, il neoliberismo, le differenze di classe.
Contro tutto ciò che può dirsi unicamente, sterilmente economico, contro tutto ciò che sistematicamente opprime e soffoca l’umano.
Qualche giorno fa, nell’ambito di una presentazione letteraria, la scrittrice e attivista Sara Mazzini ha espresso un concetto estremamente interessante, che potrebbe aiutarci a visualizzare cosa vogliamo costruire: scrivere significa immaginare qualcosa di diverso, che abbia il coraggio di prescindere da ciò a cui siamo abituati. Mark Fisher parlava di realismo capitalista per definire la nostra mancanza d’immaginazione, ossia “la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l'unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginare un'alternativa coerente”.
Qual è l’alternativa?
Quali nuovi valori vogliamo abbracciare, in cosa vogliamo credere, oggi?
Wallace non dà una risposta; lascia solo un indizio, un luogo in cui cercare. Il luogo è nel dialogo tratto da Infinite Jest che riporto a conclusione del testo, ringraziandovi per essere stati insieme a me fino a qui.
Marathe lo ignorò.
‘Non siamo tutti fanatici? Dico solamente quello che voi degli Usa fingete di non sapere. Gli attaccamenti sono una faccenda molto seria. Scegli con cautela i tuoi attaccamenti. Scegli il tuo tempio di fanatismo con grande cura. Quello che vuoi cantare come amore tragico è un attaccamento scelto male. Morire per una persona? Questa è follia. Le persone cambiano, partono, muoiono, si ammalano. Ti lasciano, mentono, si arrabbiano, si ammalano, ti tradiscono, muoiono. La tua nazione ti sopravvive. Una causa ti sopravvive’.
‘A proposito, come stanno tua moglie e i tuoi ragazzi, lassù in Canada?’
‘Voi degli Usa non sembrate credere di poter scegliere, ognuno di voi, la cosa per cui morire. L'amore di una donna, l'attrazione sessuale, ti rinchiude in te stesso, ti rende meschino, forse anche pazzo. Scegli con cura. L'amore per la tua nazione, il tuo paese e la tua gente, quello dilata il cuore. Una cosa più grande del sé’.
Steeply si mise una mano fra i seni mal orientati: ‘Ohh... Canada...’
Marathe si sporse di nuovo in avanti sui moncherini.
‘Fai tutto lo spirito che desideri. Ma scegli con cura. Si è ciò che si ama. No? Si è, solo ed esclusivamente e completamente, ciò per cui si morirebbe senza pensarci due volte, come dici tu. Tu, M. Hugh Steeply: per cosa moriresti senza pensarci due volte?’
(tratto da Infinite Jest)
Una cosa divertente che non farò mai più
Un capolavoro di comicità e virtuosismo stilistico con cui i lettori italiani hanno conosciuto il genio letterario di David Foster Wallace. Commissionatogli inizialmente come articolo per la prestigiosa rivista Harper's, questo reportage narrativo da una crociera extralusso ai Caraibi - iniziato sulla stessa nave che lo ospitava e cresciuto a dismisura dopo innumerevoli revisioni - è ormai diventato un classico dell'umorismo postmoderno e al tempo stesso una satira spietata sull'opulenza e il divertimento di massa della società americana contemporanea.
Visualizza eBookInfinite Jest
In un futuro non troppo remoto e che somiglia in modo preoccupante al nostro presente, la merce, l'intrattenimento e la pubblicità hanno ormai occupato anche gli interstizi della vita quotidiana. Le droghe sono diffuse ovunque, come una panacea alla noia e alla disperazione. Finché sulla scena irrompe un misterioso film, Infinite Jest, cosí appassionante e ipnotico da cancellare in un istante ogni desiderio se non quello di guardarne le immagini all'infinito, fino alla morte.
Visualizza eBookLa scopa del sistema
La scopa del sistema è una grandissima sorpresa, che emerge direttamente dalla tradizione dell'eccesso praticata da Thomas Pynchon in V o da John Irving ne Il mondo secondo Garp. La principale qualità di Wallace è la sua esuberanza - personaggi che sembrano cartoni animati, storie a incastro, coincidenze impossibili, un amore sincero per la cultura pop e soprattutto quello spirito giocoso e quell'umorismo che sembravano scomparsi dalla maggior parte della narrativa piú recente.
Visualizza eBookBrevi interviste con uomini schifosi
Come una creatura posseduta Wallace sentiva le voci e, da autentico sciamano, per esorcizzarle le ha risputate, ciascuna con il suo timbro inconfondibile, sulla pagina, usando la formula sarcastica dell'intervista. Sono le voci di un'America allucinata, che per non crepare si vomita addosso tutto il veleno possibile. Questi «uomini schifosi» sono iene che - vittime o carnefici - divorano il proprio fianco lacerato. Una galleria di tipi intimamente odiosi, laidi.
Visualizza eBookClaudia Grande (Chieti, 1990) lavora in Rai Pubblicità come copywriter e content creator. I suoi racconti sono stati pubblicati sulle riviste Frankenstein Magazine e L’Inquieto. Bim Bum Bam Ketamina è il suo primo romanzo.