Formiche xenofemministe e altri animali
Ho da sempre una passione per i libri che parlano di animali, è arrivato il momento di uscire allo scoperto. Spesso si tratta di libri bellissimi, sia che prendano gli animali come prisma per raccontare l’umano, come pure quando sono opera di scienziati appassionati che si sforzano di decifrare la grammatica del pensiero e dell’azione animale provando per quanto possibile a sfuggire alla trappola dell’antropocentrismo – installata di default (e mi verrebbe da dire per forza di cose) nella scatola nera della nostra mente. Di recente mi è capitato di leggere tre libri notevolissimi, pensate un po’, sulle formiche. Ora di formiche ne so più di quanto mai avessi sperato, e forse quasi anche di quanto avrei voluto ma questo in fondo mica è vero, ogni pagina letta è tempo strappato al vuoto, pura coltivazione interiore, e il gusto di conoscere nei minimi dettagli le peculiari abitudini di una specie dominatrice del mondo da milioni di anni prima di noi è pienamente da ascrivere al piacere della scoperta, una scoperta tassonomica e minuta, bella nella sua precisione enciclopedica (e nella meraviglia capace di dischiudere).
Come è successo che mi sia imbattuto in ben tre libri sulle formiche? È successo perché sono usciti quasi in contemporanea, i primi due sono di Bert Hölldobler e di Edward O. Wilson: Formiche e Le formiche tagliafoglie – il primo è una riedizione del classico immortale della mirmecologia, che valse agli autori il Premio Pulitzer nel 1991 (in questo libro fanno un po’ con le formiche ciò che Merlin Sheldrake ha fatto quest’anno coi funghi); mentre il secondo la quinta uscita della sontuosa collana Animalia di Adelphi (un editore che ha certificato il suo amore e la sua consuetudine per i libri sugli animali dedicandogli, appunto, un’intera collana). Il terzo libro di cui parlavo è uscito invece per Aboca, firmato ancora una volta da una coppia di mirmecologi, Susanne Foitzik e Olaf Fritsche, e si chiama Minimi giganti. La vita segreta delle formiche.
Da queste letture ho appreso molte cose, non mi serve neanche aprire i libri per proporvi una bella carrellata di curiosità. Forse saprete che le formiche sono in buona sostanza tutte femmine, e che costituiscono dunque la forma di dittatura militare xeno-femminista più avanzata che si possa concepire. I maschi sono tenuti in vita (brevemente) solo per partecipare al volo nuziale, in cui forniranno lo sperma che le regine conserveranno in una apposita sacca e che poi useranno anche nel corso di vent’anni per dar vita ai loro sterminati stuoli di operaie (nel corso dei decenni una regina può produrre anche 150 milioni di figli, o meglio: di figlie). La regina ha un controllo totale e binario del sesso dei nascituri: se feconda le uova con lo sperma darà vita a delle femmine, se non lo fa avrà dei maschi. Generalmente, come avrete capito, non lo fa. Ma anche quando lo fa le operaie addette all’accudimento del nido – quindi delle larve e poi delle pupe – possono decidere di usare i bozzoli di formiche maschio per sfamare le altre larve, un surplus nutrizionale in più non guasta. Perché lo fanno? Perché la dittatura xeno-femminista non ha molto posto per i maschi ma anche per via del gene egoista: le sorelle tra loro sono più imparentate che con la madre (avendo in comune anche i cromosomi paterni) e lo sono anche più che con i fuchi, che hanno solo i geni della regina. Questa distanza genetica si riflette nell’odore che emanano, importantissimo per le formiche (è così che distinguono i membri della loro colonia dagli altri, anche della stessa specie), e dunque individuando nelle larve dei fuchi un odore differente li considerano più sacrificabili. Ancora: le formiche discendono dalle vespe, alcune hanno ancora il pungiglione. La loro biomassa è di gran lunga la più grande del pianeta, il loro lavoro di pulizia è indispensabile negli ecosistemi in cui sono presenti (quasi tutti), o disastroso dove arrivano per caso, come per esempio sull’Isola di Natale, dove lo sbarco fortuito della formica argentina sta mettendo di fatto a rischio l’esistenza del granchio rosso che caratterizza le foreste di quell’isola, di cui di fatto hanno distrutto l’habitat. Il meccanismo del riconoscimento dovuto all’odore mantiene in competizione anche gruppi di formiche della stessa razza, come dicevo poc’anzi, ma questo può non accadere quando una colonia viene spostata per caso da un posto all’altro. Se dopo un viaggio per nave (magari a bordo di un vaso) una colonia arriva in un luogo dove prima non era presente, e si diffonde semplicemente ampliando la colonia – che può estendersi anche per migrazione di una parte del gruppo originale (dal momento in cui nascesse una seconda regina) senza dunque mischiare il patrimonio genetico nei voli nuziali con fuchi provenienti da altre famiglie – non si innescherà alcuna rivalità, e quindi il meccanismo di controllo causato da quella che di fatto è una guerra che qualunque colonia di formiche è pronta a muovere contro qualunque altra non avrà luogo. In questo scenario nel nuovo sito di nidificazione la specie aliena tenderà a invadere il nuovo territorio senza entrare in competizione con tutti gli altri gruppi che di fatto riconosce come fraterni, causando impatti sulla fauna locale a volte disastrosi, è successo ad esempio nel sud est asiatico, ancora una volta con la formica argentina.
Le formiche superano di gran lunga gli esseri umani, quanto a cattiveria organizzata; al confronto la nostra specie è gentile e mite. Il programma di politica estera delle formiche può essere riassunto così: aggressione ininterrotta, conquista territoriale e genocidio fino all’annientamento delle colonie limitrofe ogni qualvolta sia possibile. Se le formiche possedessero armi nucleari, probabilmente distruggerebbero il mondo nel giro di una settimana.
Le superstar tra le formiche sono le tagliafoglie, che vivono in comunità di milioni di esemplari e che – come dice il nome – puliscono estese zone di sottobosco tagliando e trasportando (su piccole autostrade pulitissime – che liberano da ogni ostacolo proprio per viaggiare più agevolmente) foglie molto più grandi e pesanti delle singole operaie – divise in caste di dimensione diversa a seconda delle mansioni da svolgere – per usarle come sostrato nutrizionale per il fungo di cui si nutrono, che costituisce il centro della vita di ogni colonia, anche in senso spaziale, essendo coltivato in apposite stanze costruite all’interno dei nidi. Il fungo costituisce il nutrimento di tutta la comunità, e – dettaglio forse incredibile – quel particolare tipo di fungo coltivato dalle formiche tagliafoglie non è mai stato trovato in natura al di fuori delle loro tane. Avete capito bene, ci sono specie di formiche che vivono di agricoltura, da milioni e milioni di anni prima dell’avvento della razza umana. Altrettanto affascinante è il lavoro delle formiche tessitrici, che usano la seta tessuta dalle larve dei loro bozzoli come strumento per costruire nidi appesi sugli alberi. Anche qui assistiamo a dinamiche straordinarie per esseri così piccoli: le formiche usano uno strumento – le larve, che le operaie sostengono come macchine da cucire tra le mandibole – per tessere strutture complicate e resistentissime. Alcune formiche guerriere vivono come nomadi, e data la loro voracia si devono spostare di frequente perché dove passano non resta nulla (possono mettere in fuga interi villaggi).
Spero di avervi incuriosito abbastanza, per quanto riguarda il resto della ferrea organizzazione di questi piccoli universi in miniatura costituiti da super-organismi – la formica ragiona e funziona come gruppo, molto più che come individuo – vi rimando alla lettura di questi sorprendenti volumi (ai quali a questo punto mi corre l’obbligo di aggiungere Il superorganismo. Bellezza, eleganza e stranezza delle società degli insetti – ancora una volta della coppia Bert Hölldobler e di Edward O. Wilson).
Se da un lato la bellezza dei libri sugli animali risiede nella scoperta delle loro consuetudini evolutive, dunque nel loro rapporto col mondo, cesellato in milioni di anni di evoluzione, da tutt’altra prospettiva li trovo perfetti come liquido di contrasto per gettare luce sull’animo umano. Capolavori del tutto diversi ci portano in questo territorio, in cui nascono dei rapporti di filiazione e dialogo tra testi esattamente come avviene nelle più grandi tradizioni letterarie (e i due esempi che sto per citare ne fanno parte).
Il rapporto che c’è tra L’astore di T.H. White e Io e Mabel di Helen Macdonald è di fatto lo stesso che intercorre tra La Divina Commedia e i grandi libri italiani che l’hanno usata come palinsesto: il Decameron di Boccaccio e il Rerum vulgarium fragmenta (ovvero il Canzoniere) di Petrarca. Nel primo, lo scrittore – noto per essere l’autore di La spada nella roccia – racconta il suo duro periodo di addestramento di un astore, un tipo di falco che vola nel sottobosco, folle e audace, difficilissimo da “condizionare”, addestramento che il protagonista compie seguendo le indicazioni (sbagliatissime, diremmo oggi) di un trattato di falconeria seicentesco. Il volume si presenta così quasi come uno strampalato (ma commovente) e struggente manuale, in cui il rapporto tra l’umano e l’animale – “una persona non umana”, con un carattere fortissimo – si articola lungo sei settimane di fuoco, per concludersi con una prima e unica caccia riuscita prima della dolorosissima scomparsa dell’astore.
“Quando lo vidi per la prima volta era una cosa rotonda che assomigliava a un cestino per i panni sporchi coperto da una tela di sacco. Ma era esagitato e spaventoso a vedersi, repellente così come appaiono orribili i serpenti a chi non li conosce, o pericoloso come l’improvviso movimento di un rospo sulla soglia di casa quando si esce di notte nella rugiada alla luce di una lanterna. La tela era stata cucita con uno spago, e sotto lui balzava verso l’alto: bum bum bum, incessantemente, suggerendo più di un pizzico di follia. Il cestino pulsava come un grosso cuore che battesse all’impazzata. Ne uscivano agghiaccianti grida di protesta, isteriche, terrorizzate, ma furibonde e perentorie. Avrebbe mangiato vivo chiunque.”
Io e Mabel, ripercorre lo stesso percorso con L’astore sempre sul comodino, in questo romanzo il rapporto con il falco si duplica con quello ancor più traumatico con la morte improvvisa del padre della narratrice, di modo che il condizionamento dell’animale si fa simbolo e immagine di una vita da accudire (e ricostruire, nell’elaborazione del lutto), entrandoci di fatto in simbiosi. Mabel – il nome del falco – è così il vettore curativo che consente all’autrice di attraversare l’inferno del lutto, in costante e oppositivo dialogo con la natura dell’addestramento selvaggio operata a suo tempo da T.H. White, uno scrittore complesso, un uomo difficile e discutibile (il dialogo col quale contiene chiare le tracce di un confronto con una figura paterna – e non è in fondo così importante sapere quanto White fosse simile al padre dell’autrice). L’addestramento diventa in questo modo un’occasione di rapporto concreto col mondo, una vera e propria ancora di salvezza, nonché l’opportunità per ridefinire la stessa identità della protagonista.
“Astore doveva essere. E quel che successe dopo fu: i miei occhi iniziarono a evitare un libro sullo scaffale di fianco alla mia scrivania. Da principio fu solo un punto cieco, un tic, un battito delle palpebre; poi una specie di cispa nell’angolo dell’occhio. Il mio sguardo correva oltre il libro in questione con un piccolo guizzo di fastidio che non riuscivo tanto a spiegarmi. Ben presto mi fu impossibile sedere alla scrivania senza percepirne costantemente la presenza. Secondo ripiano dal basso. Copertina di tela rossa. Scritta argentata sul dorso. The Goshawk, di T. H. White. L’astore.”
Mi pare di aver già scritto troppo ma è proprio impossibile non citare almeno un altro paio di testi che hanno costituito per me delle imprescindibili letture di formazione. Il primo è L’anello di Re Salomone, il capolavoro divulgativo di Konrad Lorenz, forse l’etologo più noto di sempre. In questo libro l’autore ci racconta l’altro volto delle scoperte che l’avrebbero reso celebre, il lato umano, incidentale e buffo del trovarsi a fare da padre a un’oca il cui uovo aveva “covato”; la furia passionale dei pesci; la ferocia delle tortore o la mancanza di furbizia delle volpi (meno astute dei cani, secondo lui). Il rapporto tra l’autore e gli animali – che avviene soprattutto nello scenario di fatto incantato dell’Alta Baviera della prima metà del Novecento – spesso si fa psicologico (e la scoperta dell’etologia è infatti anche pervasa dal riconoscimento delle psicologie animali), e talvolta sfiora tratti quasi romanzeschi, naturale conseguenza dell’osservazione degli animali in libertà, foriera di sorprese e avventure, spesso buffe ma sempre ricche: è osservandoli in questa condizione che Lorenz mette a fuoco i suoi pensieri circa il comportamento animale, a partire dai loro rituali, fino ad arrivare ai codici comportamentali, alla definizione e difesa del territorio e a riconoscere la grana dei loro istinti.
Questa è la storia dei cinque anni che ho trascorso da ragazzo, con la mia famiglia, nell’isola greca di Corfù. In origine doveva essere un resoconto blandamente nostalgico della storia naturale dell’isola, ma ho commesso il grave errore di infilare la mia famiglia nel primo capitolo del libro. Non appena si sono trovati sulla pagina non ne hanno più voluto sapere di levarsi di torno, e hanno persino invitato i vari amici a dividere i capitoli con loro.
Chiudo questa carrellata (vi garantisco molto molto molto più breve di quanto potrebbe) con un libro non lontanissimo per concezione rispetto a quello di Konrad Lorenz ma più coeso e dal passo più compiutamente romanzesco: La mia famiglia e altri animali di Gerald Durrell, anche in questo caso l’opera più nota di un grande narratore che nella vita avrebbe fatto altro: il naturalista. È questo uno dei libri che mi sono da sempre più cari, non lo leggo forse da vent’anni ma sono ancora sicurissimo che si tratta di un capolavoro fulgido capace di sprizzare brillantezza descrittiva, acutezza dell’osservazione, e uno dei piaceri della scoperta più puri che possano trovarsi nella letteratura di tutti i tempi. Nel libro è raccontata la scoperta di Corfù da parte di un bambino inglese di 10 anni – negli anni 30 del Novecento – che si trova a esplorare da solo un vero paradiso mediterraneo stracolmo di brulicanti curiosità da inseguire, mentre la combriccola della sua famiglia – composta da una madre vedova e da quattro fratelli eccentrici e in preda alle pulsioni adolescenziali – ne combina di tutti i colori lungo i cinque anni e le tre ville che costituiranno il tempo e i luoghi della loro permanenza. Un libro che racchiude il concetto stesso di felicità e che, ne sono certo, non ha perso un’oncia del suo smalto dal giorno in cui è uscito, nel lontano 1956.
Formiche
«Le formiche continuano a prosperare nel bel mezzo delle rovine prodotte senza sosta dall’umanità, apparentemente incuranti della presenza, o assenza, degli uomini, purché venga lasciata loro una piccola porzione di ambiente poco disturbata ... La loro abbondanza è leggendaria».
Visualizza eBookIo e Mabel ovvero L'arte della falconeria
Nelle prime pagine del libro Helen Macdonald riceve una telefonata: il padre, celebre fotoreporter, è morto all'improvviso d'infarto. Priva di legami e di un lavoro stabile (è ricercatrice associata part-time all'università di Cambridge), Helen si accorge bruscamente di non avere nulla che possa distrarla dal lutto e sprofonda in una violenta depressione. Passano i mesi: instaura una relazione sentimentale e poi la sabota, legge testi sul lutto, si isola, si trascina. Poi, d'improvviso, un sogno ricorrente sui falchi fa scattare in lei una sorta di epifania...
Visualizza eBookLa mia famiglia e altri animali
«Questa è la storia dei cinque anni che ho trascorso da ragazzo, con la mia famiglia, nell’isola greca di Corfù. In origine doveva essere un resoconto blandamente nostalgico della storia naturale dell’isola, ma ho commesso il grave errore di infilare la mia famiglia nel primo capitolo del libro. Non appena si sono trovati sulla pagina non ne hanno più voluto sapere di levarsi di torno, e hanno persino invitato i vari amici a dividere i capitoli con loro»
Visualizza eBookFederico di Vita è nato a Roma e vive a Firenze. Ha curato il saggio collettivo La scommessa psichedelica (Quodlibet, 2020). È autore di Pazzi scatenati. Usi e abusi dell’editoria (effequ 2011, poi Tic, 2012) – Premio Speciale nell’ambito del Premio Fiesole 2013; e di I treni non esplodono. Storie dalla strage di Viareggio (Piano B, 2016). Scrive su diverse testate tra cui Il Foglio, L’Indiscreto, Esquire, Elle Decor e Dissapore.