L'anno di Annie Ernaux
Strana dolcezza della consolazione retrospettiva di un immaginario che viene a dare conforto alla memoria, a infrangere la singolarità e la solitudine di ciò che si è vissuto grazie alla somiglianza, più o meno attendibile, con ciò che è stato vissuto da altri nello stesso momento. (Memoria di ragazza, 2016)
L’elenco delle espressioni idiomatiche, dei modi di dire, delle metafore abusate, delle costruzioni sintattiche di chi ne sapeva di più, senza dimenticare poi tutte quelle «parole da uomo che non ci piacevano», che si avvicendano nelle prime pagine de Gli Anni (2008), benché destinate ad un oblio collettivo inevitabile, si segnalano fin dalle prime opere di Annie Ernaux come la traccia più emblematica di una letteratura che punta già sempre al di là di ogni dizionario costruito, vale a dire al di là di ogni rappresentazione tipica, accettabile, pacificata.
Il percorso di scrittura di Ernaux può dunque leggersi, in questo senso, come un percorso di perdita e di riacquisizione – nonché di risignificazione – del proprio immaginario originario, inizialmente rifiutato e infine quanto mai riassorbito all’interno di una scrittura che ne diventa voce limpida, finalmente aperta. Scrivere, per Ernaux, significa ripartire dalla vergogna della propria condizione di proletaria e di donna non tanto per arrivare a liberarsene, bensì per rivelare – a se stessa, alle donne, a tutti – che non c’era niente di cui vergognarsi.
Nata Annie Duchesne a Lillebonne (Seine-Maritime), il 1° settembre 1940, Annie Ernaux trascorre l’infanzia a contatto con la clientela che frequenta l’alimentari dei genitori, ex operai, insieme ai quali vive nella cittadina di Yvetot. Figlia di proletari, un padre modesto, lavoratore instancabile che sempre «Cercava di tenere il suo posto», (Il posto) e una madre cattolica praticante, lettrice appassionata e fortemente persuasa della necessità di una formazione scolastica come via all’avanzamento sociale, Annie lascerà presto Yvetot per frequentare la Scuola normale di magistero di Rouen, per poi proseguire i suoi studi in lettere e in filosofia. Supererà l’esame pratico del concorso per il Capes appena due mesi prima della morte di suo padre: guardando a ritroso questo tratto della sua vita, i due momenti le parranno coincidere con un’esattezza dolorosa, simbolica. Accedere all’insegnamento significa lasciarsi alle spalle un intero mondo, fino ad allora ossessivamente infestato dall’ombra dell’indegnità, della continua «vergogna di ignorare ciò che avremmo di certo saputo se non fossimo stati ciò che eravamo»; la vita di suo padre. Così, di ritorno dal suo funerale, il pensiero fulmineo: «D’un tratto, con stupore, ora, sono davvero una borghese e è troppo tardi»; avviene così il passaggio definitivo dalla classe dei dominati alla classe dominante. Annie Ernaux si dice «transfuga» di classe e all’altezza del 1966 questa fuga è appena agli inizi.
Il posto (1983), che Ernaux dedica alla vita di suo padre, scritto per la sua memoria e come tentativo di espellere il sentimento d’aver tradito le proprie origini (in epigrafe, la citazione di Jean Genet: «scrivere è l’ultima risorsa quando abbiamo tradito»), è il libro che segna un reale punto di svolta nell’esperienza di scrittura di Ernaux. Accantonata la forma del romanzo autobiografico, sperimentata nei suoi primi tre libri – fra i quali si segnala La donna gelata (1981), recentemente tradotto in italiano, all’inizio del 2021 – e mentre in Ce qu’ils disent ou rien (1977), l’autrice rievocava l’afflato ancora confuso che circondava il suo giovanile desiderio di scrivere («je sentais qu’il y avait quelque chose à écrire, contenu dans cette chambre, lié à ce décor, à ma vie conne, et les oiseaux qui fêtaient la pluie, et ces désirs»), Il posto è il primo libro di Ernaux in cui comincia ad emergere la formulazione di una vera e propria scelta di poetica.
È nel Posto, infatti, che Ernaux comprende che il romanzo rappresenta per lei un genere ormai impraticabile, lontano dalla sua ambizione di scostare la letteratura di lato per fare spazio alla vita, alle cose e ai corpi, per dare loro un’immagine che non sia restituita, ma trasparente. Così, nel Posto, indulgendo in una riflessione meta-letteraria e chiarificatrice per i suoi lettori presenti e futuri:
Per riferire di una vita sottomessa alla necessità non ho il diritto di prendere il partito dell’arte, né di provare a far qualcosa di “appassionante” o “commovente”. […] Nessuna poesia del ricordo, nessuna gongolante derisione. La scrittura piatta mi viene naturale, la stessa che utilizzavo un tempo scrivendo ai miei per dare le notizie essenziali.
È dunque attraverso il racconto dell’altro, attraverso l’assunzione di responsabilità e il gesto etico che questo tipo di racconto richiede, che Ernaux rinuncia definitivamente a quella possibilità di divenire “altro da sé”, che è garanzia esclusiva della forma romanzesca. Su richiesta dell’autrice, a partire da Il posto, nessuna indicazione circa il genere letterario d’appartenenza comparirà più sulle copertine dei suoi libri.
Scongiurata la via del romanzo, diffidata quella forse troppo semplicistica dell’autobiografia, di fatto Ernaux esce dallo schema dell’appartenenza ai generi, e si inoltra in una scrittura capace di combinare in sé la memoria personale, l’attenzione per il contesto storico-sociale e un profondo sentimento di politicità che funzionerà sempre, nella sua opera, come forte garanzia di veridicità. È questa la formula da cui prende vita l’«auto-socio-biografia», un tipo di “autobiografia collettiva”, sociologica, elaborata anche grazie ad una curata lettura dei saggi di Pierre Bourdieu, e che andrà a consolidarsi ancora nel libro seguente di Ernaux, Una donna (1987). Pubblicato appena qualche anno dopo Il posto, Una donna viene a costituire con il primo una sorta di dittico, in quanto mette al centro la vita e il ricordo della madre dell’autrice, in uno sforzo tuttavia teso a ricostruire la «donna reale», esistita al di là della figura materna. È in questo libro che leggiamo quella definizione della scrittura di Ernaux destinata a diventare assolutamente celebre:
Ciò che spero di scrivere di più esatto si situa probabilmente all'intersezione tra famigliare e sociale, tra mito e storia. Il mio progetto è di natura letteraria, poiché si tratta di cercare una verità su mia madre che può essere raggiunta solo attraverso le parole. (Una verità, dunque, che non mi può essere data né dalle foto, né dai ricordi, né dalle testimonianze dei parenti.) Ma, in un certo senso, spero di restare al di sotto della letteratura.
Così la letteratura viene scossa; sospinta altrove, là dove sedimentano gli aneddoti di vite comuni, quei dettagli del reale rimasti impigliati nella memoria pur senza vantare nessuna eccezionalità, la constatazione di spazi, usanze, credenze, modi di dire e di fare che connotano un intero gruppo sociale, la cui vita si consuma, come in un determinismo inarrestabile, fra la fabbrica, le messe domenicali e le costrizioni di una provincia dell’Alta Normandia. I filtri sono caduti, erosi, e le immagini finalmente vicine, nella loro crudezza e nella loro banalità, come «mozzare la testa alle galline con un colpo secco alla base del collo», come «voltarsi e battersi il culo con una manata».
Passione semplice (1992) è il primo testo di Ernaux in cui l’autrice attinge esclusivamente ad un’esperienza intima, autobiografica: è forse questo il libro in cui la rimozione dei filtri narrativi raggiunge il suo apice, riuscendo ad accordare alla perfezione la forma del racconto – diretto, quasi pornografico – con il suo contenuto. Così recita l’incipit: «Quest’estate, ho visto per la prima volta un film classificato X alla televisione, su Canale +. […] M’è parso che la scrittura dovesse tendere a questo, l’impressione che provoca la scena dell’atto sessuale, l’angoscia e lo stupore, una sospensione di giudizio morale». E subito dopo: «Sin dal mese di settembre dello scorso anno non ho fatto nient’altro che aspettare un uomo: che mi telefonasse e che venisse da me». La grande forza di Passione semplice, così, non consiste nel far irrompere sulla pagina il tema del sesso, quanto piuttosto nel farne un alibi, un pretesto formale per rivendicare la legittimità assoluta del desiderio di una donna, per esprimerlo con nettezza, al di là di qualunque valutazione morale o moralistica di sorta.
Con questo testo, Ernaux intraprende il cammino più impervio della sua scrittura, ovvero quello che riguarda la riformulazione dello spazio e della rappresentazione della donna, del suo desiderio e della sua volontà; della sua esistenza contro le umiliazioni e soprattutto contro quella vergogna specifica che le viene inflitta dagli uomini; della sua liberazione da quelle «frasi terribili che si sarebbero dovute dimenticare, più persistenti di altre proprio in virtù dello sforzo compiuto per rimuoverle, sembri una puttana avvizzita» (Gli Anni).
Di questi temi, Ernaux si occuperà ancora in L’Evento (2000), libro testimonianza di un aborto clandestino voluto dall’autrice nel 1963, e poi in Memoria di ragazza (2016), che ricostruisce il momento “osceno” di una scoperta troppo ingenua, e assolutamente passiva, della promiscuità che organizza e riunisce il mondo di una colonia estiva del 1958.
Con una penna tanto misurata quanto incisiva, incapace di indulgere in sacche di autocommiserazione, così come restia a cedere a rabbiose attribuzioni di colpe, Ernaux ripercorre le vie di quella vergogna sociale che continuamente minaccia i corpi delle donne; non esiste soluzione di continuità fra «la ragazza del ‘58» e quella del ‘63, entrambe alle prese con la scoperta di una sessualità disobbediente, che batte sul tempo il motto sessantottino «il corpo è mio» (Memoria di ragazza), e che per questo merita di essere trattata con disprezzo e violenza, punita.
Pensato a più riprese in un periodo di tempo lungo circa trent’anni, Memoria di ragazza è forse il vero libro della maturità di Ernaux, in cui una scrittura come sempre acuminata («écriture plate») non impedisce al lettore di percepire un tremore della penna: la voce della «donna del 2014», che orienta la memoria e lo sguardo di questo testo, mira a ri-accogliere nel «je», ovvero ad accettare e a ri-assumere su di sé, la vecchia ragazza del ’58, «elle», con il suo modo di pensare e di vivere, nonché col suo fardello di soprusi continuamente esperiti in quanto ragazza povera in cerca d’emancipazione, in quanto ragazza. La via per appianare questo divario è quella della razionalizzazione della vergogna: nelle pagine del Secondo sesso di Simone de Beauvoir, Annie Duchesne coglie per la prima volta il senso della sua umiliazione, ovvero quello di essere stata usata, a propria insaputa, come «oggetto sessuale», in qualche modo circuito e privato di consenso e, dunque, di desiderio e di soggettività. In questa scoperta risiede l’auto-assoluzione e la liberazione definitiva, e preziosa, di Annie Duchesne, così come di tutte le altre «figlie scandalose», che abitano e che hanno abitato in ogni tempo.
Con Memoria di ragazza, Ernaux supera eccezionalmente la prova del ritorno all’intimismo, dal quale si era fortemente allontanata durante la stesura del suo libro precedente, Gli Anni (2008); un testo sulla memoria e sul tempo, che guarda da vicino l’evolversi di una società che ha attraversato le guerre mondiali e che ora si muove, fra gli entusiasmi e le ansie, in una Francia abbacinata dall’avanzare della società di massa, fino alle soglie del nuovo millennio.
Di ciò che il mondo ha impresso in lei e nei suoi contemporanei se ne servirà per ricostituire un tempo comune, quello che è trascorso da un’epoca lontana sino a oggi – per restituire, ritrovando la memoria della memoria collettiva in una memoria individuale, la dimensione vissuta della Storia.
Al centro di questo testo è ancora la società proletaria del nord della Francia, della Normandia, che educa i figli e i nipoti coi racconti delle guerre («Nei tempi andati di cui si narrava c’erano soltanto guerre e fame»), nonché il desiderio dell’autrice di far rivivere ancora una volta – prima del definitivo oblio – questa cultura che l’ha cresciuta. Così Ernaux, a partire dai propri ricordi personali, stavolta investiti dal respiro ampio del noi («on»), compone Gli Anni per farsi portavoce di un tentativo collettivo di recupero di quel senso del tempo storico che si è perduto e mescolato con l’andirivieni delle generazioni (dall’«inverno del ‘42, glaciale» a «cosa stavi facendo l’11 settembre 2001?»); in particolare, negli Anni, Ernaux mira a rintracciare quei momenti – come il maggio ’68 – in cui la classe dei dominati ha potuto abbandonare il proprio posto di spettatrice per partecipare al cambiamento, per toccare da vicino la Storia, per esservi lasciata entrare.
La focalizzazione di questo testo, lungi dall’essere un puro dettaglio di ricognizione storica, possiede una sua grande politicità; la stessa che imprime alla poetica di Ernaux quel tratto essenziale che è stato, e continua a essere, uno dei più toccanti nella ricezione collettiva della sua opera. Così questo carattere è stato descritto, il 6 ottobre 2022, dall’Accademia di Svezia, al momento dell’assegnazione del Premio Nobel all’autrice francese: «Per il coraggio e l'acume clinico con cui ha svelato le radici, le rimozioni e i limiti collettivi della memoria personale».
Il posto
La storia di un uomo – prima contadino, poi operaio, infine gestore di un bar-drogheria in una città della provincia normanna – raccontata con precisione chirurgica, senza compatimenti né miserabilismi, dalla figlia scrittrice.La storia di una donna che si affranca con dolorosa tenerezza dalle proprie origini e scrive dei suoi genitori alla ricerca di un ormai impossibile linguaggio comune.
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Come accade che il tempo che abbiamo vissuto diviene la nostra vita? È questo il nodo affrontato da Gli anni, romanzo autobiografico e al contempo cronaca collettiva del nostro mondo dal dopoguerra a oggi, nodo sciolto in un canto indissolubile attraverso la magistrale fusione della voce individuale con il coro della Storia. Annie Ernaux convoca la Liberazione, l’Algeria, la maternità, de Gaulle, il ’68, l’emancipazione femminile, Mitterrand; e ancora l’avanzata della merce, le tentazioni del conformismo, l’avvento di internet, l’undici settembre, la riscoperta del desiderio.
Visualizza eBookUna donna
Pochi giorni dopo la morte della madre, Annie Ernaux traccia su un foglio la frase che diventerà l’incipit di questo libro. Le vicende personali emergono allora dalla memoria incandescente del lutto e si fanno ritratto esemplare di una donna del Novecento. La miseria contadina, il lavoro da operaia, il riscatto come piccola commerciante, lo sprofondare nel buio della malattia, e tutt’attorno la talvolta incomprensibile evoluzione del mondo, degli orizzonti, dei desideri.
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Visualizza eBookGiulia Scialpi, già allieva della Scuola Normale Superiore di Pisa, è ora dottoranda di ricerca in Italianistica presso l'Université Paris Nanterre. Vive e lavora a Parigi.