Ascoltare la rabbia. Letture dal 2020 al 2025
Questa non è una classifica. Questa non è una top 10, un best of, una cernita delle migliori uscite. Questo è un tentativo di rispondere alla domanda: quali sono i libri più rappresentativi del 2020-2025? Per individuarli, ho dovuto prima di tutto scegliere quale elemento, a mio avviso, possa definire la nostra epoca: quale tema, quale evento, quale colore, emozione, sentimento…? A mio parere, la rabbia.
Secondo Treccani, la rabbia è una “irritazione violenta prodotta dal senso della propria impotenza o da un’improvvisa delusione o contrarietà”; aggiungerei che la rabbia comprende, tra le mille e più sfaccettature, un senso di frustrazione scaturito proprio da suddetta impotenza, nonché ingenerato dal tradimento delle aspettative che riponevamo nel futuro.
Quando è morto Silvio Berlusconi, l’ho scoperto sui social. Un’ondata di meme ha invaso il mio feed: alcuni erano ironici, sarcastici, pungenti; altri nostalgici; altri furibondi e/o livorosi; altri ancora un mix di queste cose. Berlusconi ha smesso di essere un politico, una persona reale, per trasformarsi nel simbolo di un mondo che, nel bene e nel male, non tornerà. Il mio meme preferito della wave è quello che vedete, perché ha tanti layer (livelli di significato):

credits: Giovanni Lindo Memetti
A vederlo, sembra vagamente critico e nulla di più. Sembra dire: ammettiamolo, il passato ci manca. Ci conforta pensare ai “bei vecchi tempi”; ma erano davvero tali?

Questo meme è il secondo layer della creazione di Giovanni Lindo Memetti, ma è anche parte fondante della sua lore, ossia dell’immaginario a cui attinge. Nessuno conosce l'origine della foto. Circola in rete con didascalie diverse, tra cui quella ripresa da Giovanni Lindo Memetti. C’è chi dice che sia un fotomontaggio, c’è chi sostiene che sia un ricordo di famiglia; quello che è certo è che ha ispirato una wave che dura ancora oggi, perché “i bei vecchi tempi” non passano mai di moda: oltre ai meme, ci sono video su TikTok, post su Facebook, conversazioni su Reddit che intonano il leitmotiv del “si stava meglio prima”. Prima la frutta aveva un sapore genuino; prima i libri erano vera letteratura; prima la musica era più bella; prima, prima, prima…
Eppure, il mito del sogno americano (leggi: del capitalismo come sistema economico migliore possibile) si era già indebolito per altri motivi: alcuni erano (anch’essi) simbolici, e andavano a minare il divismo mediatico ingenuamente ottimista che aveva stregato le masse (si pensi al suicidio di Marilyn Monroe e di Kurt Cobain, l’autoeliminazione di un agognato quanto illusorio ideale di benessere); altri erano fattuali, come la Guerra Fredda o la crisi economica del 1973, e dimostravano come, nella prassi, il capitalismo e, più in generale, il modello iper-consumistico occidentale, potessero fallire.
Sia chiaro: non voglio sminuire la portata di una tragedia come l’11 settembre. Mi sto solo chiedendo: gli americani rimpiangono il passato, o una sua versione idealizzata che non è mai esistita? E noi, che cosa rimpiangiamo? Perché quando guardiamo il meme di Giovanni Lindo Memetti, con un giovane Berlusconi che ci sorride, proviamo un’istintiva fitta di nostalgia?
Il fu leader di Forza Italia si descriveva come un uomo ottimista, la promessa incarnata di un futuro migliore per tutti, fatto di solide certezze: soldi facili, lavori ben pagati, una bella famiglia… in una parola: successo. Piovuto dal cielo, per giunta. Significativo è, a questo proposito, un vecchio video in cui l’allora premier diceva: “Voglio fare un augurio a voi ragazzi, che possiate trovare sotto l’albero di Natale la certezza di un lavoro, di una professione che vi faccia sentire realizzati, che vi consenta di mettere su casa con la ragazza o il ragazzo che amate”. Trovare un lavoro sotto l’albero: per chi credeva nel sogno, era davvero così semplice.
Quella stessa epoca è stata ritratta in tutt’altro modo da Aldo Nove in Superwoobinda, iconica raccolta di racconti che ha saputo mettere a nudo le caratteristiche più crude, oscure, morbosamente diffuse negli anni ‘90, legate a doppio filo a condizioni economiche drammatiche per talune fasce della popolazione, alla diffusione di uno stacanovismo ottuso e spersonalizzante, al consumismo sfrenato che è il vero oppio dei popoli, nonché a un rapporto malsano instauratosi tra pubblico e tv: alienazione, abulia, depressione, egoismo, disprezzo per l’altro, cieco individualismo, assenza di empatia, crudeltà immotivata verso il prossimo… vi fischiano le orecchie, leggendo queste cose? Ovvio. Ci appartengono ancora. E come potrebbe essere altrimenti?
Dal 2020 in poi, si sono susseguiti una serie di eventi devastanti (pandemia; conflitti bellici di rara ferocia; equilibri politici prossimi al punto di rottura; ennesima crisi economica; collasso del mercato del lavoro; climate change…) e l’insicurezza generata dalla tecnologia (fake news che proliferano web, AI capaci di creare contenuti falsi, narrazione straniante e straniata dei social…) A causa di questi (e altri) elementi, il nostro presente è lacerato da una forbice che si allarga tra chi ha tutto e chi non ha niente; questa crescente disuguaglianza non si è arrestata all’ambito del benessere materiale, ma ha travolto anche quello dei diritti, rispetto a cui la ventata autoritaria che soffia ci ha riportato anni luce indietro: alla delusione per la morte del sogno capitalista/neoliberale, che ci aveva promesso un mondo migliore, è subentrata, allo stato degli atti, una rabbia diffusa ed esplosiva. Del resto, come ci si può sentire sicuri, sereni, pieni di speranze, in uno scenario simile? E, davanti a un sistema che non ci ascolta, ma ci opprime, come possiamo rimanere coi nervi saldi?
Forse, allora, quello che ci manca non è il passato; forse ci manca l’ingenuo ottimismo che potevamo permetterci, il “troverai un lavoro sotto l’albero” a cui, un tempo, si poteva credere. Oggi nessuno, tranne i super-ricchi e gli ingenui, può permettersi il lusso dell’ottimismo.
Sulla scia di queste riflessioni e di quella che è l’eredità di Aldo Nove, ho scelto di presentarvi alcuni libri che, dando dignità alla rabbia, a questo sentimento sempre troppo svilito, rifiutato, schernito, schifato dalle élite che hanno il privilegio di non averlo mai provato, rappresentano egregiamente il nostro tempo. Con questa selezione voglio ricordarvi una cosa importante: quando ci arrabbiamo tra pari, facendoci del male a vicenda, diamo ragione (e ulteriore potere) ai padroni; arrabbiarsi con i padroni, invece, rivolgere contro di loro il fuoco di cui la rabbia è fatta, è l’unico modo per farsi ascoltare. Per non farsi schiacciare.

Works: Edizione ampliata
«Perché trovo sempre un lavoro?, mi dicevo, Perché non mi lasciano andare alla deriva in pace? Diventare un barbone. Una delle possibilità che contemplavo. Che contemplo tuttora. Poi non ho coraggio. Mi viene in mente mio padre, il poliziotto Arturo, e la sua divisa, sempre impeccabile; e mio nonno, la dignità con cui indossava il suo vestito da festa. Assurdità che sempre mi ritornano. L'origine è un vestito che uno non smette mai».
Visualizza eBookQuesto libro è la Bibbia degli anti-capitalisti e degli anti-lavoristi arrabbiati, nonché una potente testimonianza di quanto i vari “se vuoi, puoi”, “impegnati e otterrai qualunque cosa”, “ognuno ha quello che si merita” siano solo bugie.
La tirannia istituzionalizzata che è il lavoro stende la sua longa manus su Trevisan quando era appena quindicenne. Trevisan chiede al padre una bicicletta nuova; non navigando esattamente nell’oro, il padre porta il figlio nell’officina di un amico per insegnargli come guadagnarsi la pagnotta e comprare la bici da sé. Inizia così per l’autore un lento, faticoso, logorante percorso atto a trovare un’occupazione che gli permetta di campare senza immolare totalmente tempo e libertà sull’altare dello stacanovismo: Trevisan farà il manovale, il cameriere, il costruttore di barche a vela, il geometra, il magazziniere, il pusher, il ladro e, ovviamente, lo scrittore, scoprendo sulla sua pelle che qualunque professione (spaccio compreso) “obbedisce alle stesse fottute regole di mercato”.
Un sistema in cui si lavora (se va bene) otto ore al giorno, spesso e volentieri sottopagati, spesso e volentieri con contrattini-fuffa, facendo mestieri usuranti sul piano fisico e mentale è, senza mezzi termini, marcio: l’economia al collasso ci dimostra che il capitalismo e il neoliberismo, entrambi fondati sullo sfruttamento sistemico dei lavoratori, ingrassano dieci persone e lasciano il resto del mondo a patire la fame. Trevisan è una delle più grandi penne della letteratura italiana, nonché una delle menti più illuminate di quest’epoca tumultuosa: oggi più che mai leggerlo è di fondamentale importanza.

Vanishing World
Il sesso è ormai escluso dal matrimonio e relegato ai rapporti extra-coniugali. Ma Amane è cresciuta con una madre che le racconta favole sull’amore e il sesso nella coppia sposata, un concetto ormai obsoleto e considerato incestuoso. Per questa ragione, la ragazza viene schernita dai compagni e comincia a nutrire un certo astio verso la madre...
Visualizza eBookMurata Sayaka è una delle autrici che hanno meglio descritto le strutture socio-economiche asfissianti di cui siamo prigionieri, nonché la loro costante tensione al sistematico soffocamento di ogni anelito di dissenso – tra cui, ovviamente, la rabbia, vista come un pericoloso germe di ribellione. “Vanishing World” è l’ennesima opera che va a inanellarsi in una carriera fatta, a mio avviso, solamente di alti.
Il romanzo riprende un tema già affrontato nella raccolta di racconti “Parti e omicidi” e lo approfondisce verticalmente: il lettore viene posto di fronte alle conseguenze della completa dissoluzione dei rapporti umani in seno al tardo capitalismo, in quale mira, neanche troppo velatamente, alla castrazione (fisica e mentale) dell’essere umano in quanto macchina desiderante (uso consapevolmente quest’espressione, mutuata da “L’anti-Edipo” di Gilles Deleuze e Félix Guattari, perché dialoga alla perfezione con le opere di Murata Sayaka: secondo l’analisi dei due filosofi, il capitale ha sfruttato per anni la psicanalisi, soprattutto quella di matrice freudiana, allo scopo di imbrigliare e rimuovere il desiderio, avendo esso carattere rivoluzionario e sovversivo).
Giappone: grazie agli strabilianti progressi della scienza e della tecnica, le persone si riproducono tramite inseminazione artificiale. Il sesso non esiste più, così come l’amore, entrambi ritenuti superflui in quanto inutili orpelli di ciò che conta davvero – la riproduzione, la perpetuazione della specie fine a sé stessa; se, da un lato, il tasso di natalità beneficia di queste dinamiche, dall’altro le relazioni interpersonali si inaridiscono al punto di diventare qualcosa di estraneo alla quotidianità perché improduttive.
A tal proposito, non posso non citare il saggio “Amore liquido” del filosofo e sociologo Zygmunt Bauman, in cui l’amore viene definito come “un prestito ipotecario fatto su un futuro incerto e imperscrutabile” – ciò a sottolineare quanto il pensiero di matrice capitalista/neoliberista abbia intaccato, annichilendolo, persino il sentimento: l’amore richiede troppi sacrifici ed espone a rischi troppo elevati per un mondo in cui vale la regola del minimo sforzo per il massimo risultato.
Murata Sayaka aveva già fotografato la nostra epoca alienante e alienata con “La ragazza del convenience store”, surreale romanzo in cui la protagonista, Keiko, viene derisa ed emarginata per la sua stranezza; le angherie continuano finché Keiko non trova un lavoro che la rende capace di mimetizzarsi con gli altri. Facendo la commessa part time in un piccolo supermercato, il c.d. “konbini”, Keiko riesce a funzionare come un normale essere umano: adatta il suo corpo e la sua mente alle regole del konbini per essere il più efficiente possibile, e, dedicandosi con tutta sé stessa alle sue mansioni, si vede finalmente accettata da chi la circonda, che non fiuta più la puzza del diverso.
In sostanza: trasformaci in automi, privi di qualsiasi desiderio e/o ambizione che non siano sottomettersi al ruolo di macchine riproduttrici e produttive, intrinsecamente docili, imbrigliabili, scevri del peccato originale della rabbia, è il sogno della società capitalista. Il mio sogno, invece, è continuare a peccare fino alla fine dei miei giorni.

Giorno della liberazione
“Nove storie, di volta in volta esilaranti, tristi, curiose e perfidamente divertenti. Tutte portano l’impronta della sensibilità bizzarra di Saunders e della sua furia nei confronti della repressione e della coercizione.” (The Sunday Times)
Visualizza eBookNon so nemmeno come introdurre quella che è senza dubbio una delle voci più importanti della letteratura americana contemporanea. Forse, partire dai temi affrontati da questa raccolta di racconti può aiutare me a superare il blocco della pagina bianca e voi a capire l’approccio di Saunders alla letteratura, oltre ad apprezzare la preziosità del suo sguardo sul presente. “Giorno della Liberazione” esplora argomenti diversi e correlati: la perdita della libertà a causa di lavori degradanti, nonché attraverso piccole, sistematiche concessioni, apparentemente innocue, fatte al potere, il tutto nella speranza di ricevere chissà quale ricompensa in cambio; il controllo sociale a opera di pochi privilegiati, che impongono il proprio dominio socio-economico sulle fasce più fragili della popolazione; la manipolazione dell'informazione atta a sostenere quello stesso controllo; la pericolosità del consumismo in quanto spaventosa macchina di soggiogazione; l’incapacità degli oppressi di spezzare le catene perché stregati dalla promessa di un risarcimento individuale, illusione egoistica che va a erodere qualsiasi tentativo di presa di coscienza collettiva/di classe.
Il racconto che dà il titolo alla raccolta, “Giorno della Liberazione”, descrive una situazione che sembra surreale ma, a guardare meglio, è un’inquietante fotografia del nostro tempo: un uomo ricco, potente e annoiato ha ridotto in schiavitù un gruppo di persone cancellando ogni ricordo dal loro cervello per trasformarle in marionette umane che mettano in scena le rappresentazioni teatrali da lui scritte; gli attori, privi di memoria e quindi di autoconsapevolezza, credono di fare qualcosa di importante, anche perché i copioni che devono studiare hanno spesso e volentieri natura politica; la verità è che sono miserabili strumenti che il padrone utilizza per divertire i suoi ospiti, potenzialmente sostituibili (o meglio: radicalmente eliminabili) qualora dovessero rivelarsi difettosi…
Anche la raccolta di racconti che più amo di Saunders si muove nello stesso solco: mi riferisco a “Bengodi”, tragicomica sfilata di personaggi che rappresentano un moderno Ciclo dei Vinti (Verga insegna). I protagonisti di questa raccolta hanno ambizioni di riscatto, esattamente come quelli di Verga; eppure, per impossibilità materiale, squilibri economici, dinamiche oppressive inscalfibili, abulia, arrendevolezza, depressione, mancanza di alternative praticabili o semplice, imponderabile sfiga, falliscono. In breve: chiunque provi a cambiare la propria sorte finisce, inevitabilmente, per capitolare.
Se Verga ci ricorda quanto sia difficile per i vinti trasformarsi in vincitori, concludendo che ogni vincitore sia destinato, in ogni caso, a diventare vinto, presto o tardi, Saunders sembra dirci che l’attuale sistema capitalista/neoliberista ha già individuato i vincitori, un manipolo di privilegiati a cui spetta il compito di abusare dei vinti allo scopo di perpetrare le disuguaglianze su cui il sistema stesso si fonda. Dunque: i vincitori saranno sempre vincitori e vinti saranno sempre vinti, ciò a meno che non intervenga uno stravolgimento di natura socio-economica a sparigliare le carte.
Tutto questo rende la vita dei vinti una grottesca, straziante, desolante tragedia umana. A loro (a noi?) resta solo la possibilità di “comportarsi con dignità”, accettando a capo chino la sofferenza senza indulgere in oltraggiose manifestazioni di dissenso – o, peggio ancora, di rabbia. Per dirla con le parole di Saunders: “Ho come l’impressione che Dio sia ingiusto, che preferisca punire i suoi figli più deboli, tonti, grassi e pelandroni. Mi sa che trae più soddisfazione dalle sue creature più perfette, incitandole come un padre scriteriato quando ci calpestano. Ci dona questo bisogno d’amore, ma non ci dà i mezzi per soddisfarlo. Ci dona la voglia di piacere, e un campionario di attributi che ci rendono assolutamente spiacevoli. E, una volta messi i suoi figli imperfetti e bisognosi in un mondo pieno di pretese, sottrae la differenza fra ciò che abbiamo, ciò che desideriamo con tutta l’anima e la nostra autostima e la nostra salute mentale. Ecco come mi sento. Ecco qual è la verità, secondo me. Ma uno che può fare, se non comportarsi con dignità?”

Sono un mostro che vi parla
Nel novembre 2019, durante le giornate internazionali dell'École de la Cause Freudienne a Parigi, Paul B. Preciado tiene una conferenza sconvolgente davanti a 3500 psicoanalisti. Psicoanalisti che gli hanno ripetutamente diagnosticato una "malattia mentale" e una "disforia di genere".
Visualizza eBookDurante le giornate internazionali dell’École de la Cause Freudienne (Parigi, 2019), il filosofo Paul B. Preciado tiene un complesso discorso davanti a 3500 psicoanalisti, volto a smantellare le pratiche dominanti nell’ambito della psicoanalisi, ossia quelle che trattano la transessualità come una malattia mentale. Preciado intende abbattere le norme sociali della nostra società bianca, imperialista, suprematista, capitalista e patriarcale e le rigide categorie binarie di genere che tali norme sostanziano e sorreggono, invitando, tra l’altro, a un ripensamento del concetto di “normalità”.
Preciado smaschera il finto perbenismo degli psicanalisti, complici (più o meno consapevolmente) di un sistema che reprime e soffoca ciò che non riesce a categorizzare: non vuole la loro compassione, né vuole essere “accettato”, “autorizzato a esistere”; vuole, con rabbia e con sapere, dimostrare quanto l’ideologia della differenza sessuale di matrice coloniale sia da considerarsi obsoleta – quindi, auspicabilmente superabile, anche grazie ai mezzi di cui disponiamo per modificare i nostri corpi.
Il titolo di questa potente opera è dichiaratamente ispirato alla “Relazione per un’Accademia” di Franz Kafka: protagonista di questo testo è la scimmia parlante Pietro il Rosso, la quale, di fronte a un’assemblea di assennati dottori, racconta il suo apprendistato per diventare un “normale essere umano”. L’approdo alla supposta normalità non l’ha condotta, tuttavia, all’emancipazione, ma si è rivelato un inutile transito da una gabbia (quella di scimmia) all’altra (quella di uomo). Ed è proprio dalla sua gabbia di “mostro” o “mutante”, come egli stesso si definisce, che Preciado parla, in definitiva, a noi lettori: siamo pronti ad ascoltare o, di fronte al mostro, vogliamo ancora fuggire spaventati?

Lo schifo che ha visto Cassandra
In questa esplosiva raccolta di storie selvagge troverete di tutto, davvero di tutto. C'è Cassandra che ha visto il futuro, ma che non si sogna nemmeno di dire ai Troiani tutto quello che sa. Ci sono vergini che sfuggono al sacrificio, streghe che rifiutano di essere bruciate, puttane che non si vergognano...
Visualizza eBookUn uomo ci prova con una donna incrociata per strada, suggerendole di sorridere, se vuole apparire più desiderabile; la donna lo accontenta. Sorride. Peccato che la sua bocca sia piena di zanne: la donna stacca una mano all’uomo e la divora, ruttando per liberarsi dal fastidioso peso della fede nuziale – che sta disturbando la digestione.
Questo è uno dei racconti che ho più amato, perché sintetizza lo spirito della raccolta: Kirby parla della condizione femminile nella nostra società patriarcale, e non lo fa rappresentando le donne come vittime, ma dando loro la dignità delle protagoniste arrabbiate. Le storie pirotecniche che Kirby crea attingono a piene mani al fantastico, generando una rappresentazione letteraria grottesca e colorata del mostruoso femminile: il lettore incontra guerriere-scarafaggio radioattive che tormentano i molestatori seriali; streghe che si rifiutano di farsi bruciare sul rogo e vergini che non hanno nessuna intenzione di farsi sacrificare; puttane fiere di esserlo, totalmente prive della vergogna che i puritani e i moralisti vorrebbero imporre loro di provare; Cassandre che vedono il futuro, ma scelgono di non rivelarlo ai Troiani per godersi serenamente la loro disfatta: quest’opera è un canto di ribellione che mi ha ricordato il femminismo selvatico, punk e spietato di Virginie Despentes.
Consiglio la lettura a chi ne ha piene le scatole dei femminismi pop, patinati, perbenisti, a misura di social o best seller prêt-à-porter.

Rifqa
Poeta, scrittore e giornalista, Mohammed El-Kurd attraverso i suoi articoli e post online ha fornito al mondo una finestra sulla vita sotto occupazione a Gerusalemme Est, aiutando a stimolare un cambiamento internazionale nella retorica riguardo al conflitto israelo-palestinese.
Visualizza eBookHo poco da dire su questa raccolta di poesie perché la potenza e bellezza dei versi parlano da sé. Poeta, scrittore e giornalista, Mohammed El Kurd vuole ribaltare (e lo fa egregiamente) la retorica filosionista (che ha, tuttora, un seguito scandalosamente largo in Occidente) riguardo al conflitto israelo-palestinese.
Il filo rosso che unisce le poesie è Rifqa, la nonna dell’autore: il libro ripercorre l’esilio di questa donna, icona della resistenza palestinese, fino all’espropriazione della sua famiglia a Sheikh Jarrah, quartiere di Gerusalemme Est, oltre a esplicitare la disumana e sanguinosa ciclicità della Nakba. Attraverso parole adamantine, Mohammed El Kurd testimonia che cosa significhi vivere sulla propria pelle, ogni giorno, un conflitto di tale portata.
A conclusione di questo articolo, riporto un estratto di una delle poesie che ho più amato per il messaggio che ne è il perno: manifestare il proprio dissenso, protestare, arrabbiarsi, è un lusso – ecco perché noi, che ancora possiamo permettercelo, abbiamo il diritto e il dovere di alzare la voce. Essere arrabbiati nel mondo di oggi, rivolgere questa rabbia contro chi ha il potere di cambiare le cose e non lo fa, non è un comportamento da condannare o deprecare, come vogliono farci credere. Quando ci rimproverano per i modi e i toni con cui parliamo, scriviamo o protestiamo, non lo fanno perché sono moralmente superiori a noi, migliori di noi; lo fanno perché sono spaventati di perdere i loro privilegi: se hanno paura della nostra rabbia, significa che stiamo camminando sulla strada giusta.
Se mi domandate di dove sono, non risponderò con una sola parola.
Preparatevi, sedetevi, siate composti, pronti.
Se sentir parlare di un mondo diverso dal vostro
vi mette a disagio,
bevetevi il mare,
tagliatevi le orecchie,
fate un’altra bolla per chiudere in una bolla la vostra bolla e il pretesto.
Fate saltare in aria un’altra città di corpi in nome della paura.
È per questo che balliamo: Mio padre mi diceva: “La rabbia è un lusso che non possiamo permetterci”.
Sii posato, calmo, tranquillo – ridi quando ti fanno domande,
sorridi quando parlano, rispondigli,
istruiscili.
È per questo che balliamo:
Se parlo, sono un pericolo.
Voi restate a bocca aperta,
alzate le sopracciglia.
Puntate il dito.
È per questo che balliamo:
Noi abbiamo i piedi feriti, ma il ritmo rimane,
non importa che aggettivi mi porto sulle spalle.
È per questo che balliamo:
Perché gridare non è gratuito.
Spiegatemelo per favore:
Perché la rabbia – persino la rabbia – è un lusso
per me?

Claudia Grande (Chieti, 1990) lavora in Rai Pubblicità come copywriter e content creator. I suoi racconti sono stati pubblicati sulle riviste Frankenstein Magazine e L’Inquieto. Bim Bum Bam Ketamina è il suo primo romanzo.