La fisica ci insegna a ripensare tutto. Intervista a Carlo Rovelli
Nelle prime pagine Helgoland, l’ultimo libro di Carlo Rovelli, si presenta come un’affascinante biografia. A essere ritratto è Werner Heisenberg, il genio che appena ventenne – rifugiatosi dopo il consiglio di un medico in un’oscura isola del Mare del Nord dove non sarebbe stato irritato dai pollini (Helgoland, appunto) – scoprì la meccanica quantistica. Ad aprire la strada al giovane fisico erano stati qualche anno prima Einstein, le cui teorie sulla relatività sollevavano questioni sul funzionamento intrinseco dell’intera meccanica, e Max Planck, che sperimentalmente aveva calcolato la “costante di proporzionalità fra l’energia di un pacchetto (di elettroni) e la frequenza della sua onda” – serviva però un passo in più, e il coraggio di guardare al funzionamento della struttura profonda dell’universo in modo rivoluzionario. Il fatto che Goethe avesse scritto di quell’Isola Sacra, battuta dal mare e dal vento – un posto che “esemplifica il fascino senza fine della Natura” – che in quel luogo era possibile esperire il Weltgeist, lo spirito del mondo, è per Rovelli profondo motivo di suggestione. In questa prima parte il fascino della vicenda e la densa oscurità della materia fanno correre la mente alla Scomparsa di Majorana, di Leonardo Sciascia.
Qualche pagina dopo si capisce meglio cosa sia questo Helgoland, non la biografia di un genio ma quella di tutta la meccanica quantistica. Il libro di Rovelli è così un modo per rendere questa materia misteriosa, contraddittoria e paradossale – tanto da essere definita da Richard Feynman, uno dei più importanti fisici del ‘900, sostanzialmente incomprensibile, ossia radicalmente estranea alla nostra esperienza fenomenica del mondo e quindi in qualche misura inafferrabile – più chiara, presentandola al dibattito pubblico col talento divulgativo per cui il fisico veronese è divenuto noto a livello internazionale. La cosa buffa, si fa per dire, è che la teoria dei quanti aggiunge alla vecchia fisica classica un’equazione elegante e sintetica, di appena 8 caratteri – capaci però di rivoluzionare ciò che sappiamo del mondo, offrendoci una cascata di possibilità e una serie ancora fitta di misteri.
Appena svolti i calcoli decisivi, alle tre di notte e in preda a una comprensibile ebrezza, Heisenberg appunta:
“Ero profondamente allarmato. Avevo la sensazione che attraverso la superficie dei fenomeni stessi guardando verso un interno di strana bellezza; mi sentivo stordito al pensiero che ora dovevo investigare questa nuova ricchezza di struttura matematica che la Natura così generosamente dispiegava davanti a me”.
A mettere a punto la nuova teoria lavorarono inizialmente oltre ad Heisenberg altri tre ventenni: Pascual Jordan, Paul Dirac e Wolfgang Pauli – la loro non per niente sarà nota come “la fisica dei ragazzi” – e un quarantenne, Max Born. “La costruzione della teoria – scrive Rovelli – è premiata da una pioggia di premi Nobel senza eguale nella storia” (Einstein nel 1921, Bohr nel 1922, De Broglie nel 1929, Heisenberg nel 1932, Schrödinger e Dirac nel 1933, Pauli nel 1945, e Born nel 1954). Ma non mancarono dubbi e dispute destinate a durare in qualche caso fino a oggi. Einstein per esempio si domandava, in relazione ai principi probabilistici introdotti in modo tanto fondamentale nel cuore del meccanismo della fisica, se davvero Dio giocasse a dadi.
Il funzionamento della teoria, rivelatasi semplicemente infallibile sul piano del calcolo da ormai un secolo, ha dato adito a una ricca serie di interpretazioni, talvolta apparentemente assurde ma comunque teoricamente sostenibili partendo dalla teoria stessa. La più affascinante è probabilmente quella “a Molti Mondi”, che prevede il gemmare di interi universi a ogni più minuta scelta compiuta nell’infinita casualità del fenomenico. Al di là di queste stranezze (che offrono un gran materiale anche alla fantascienza, sia letteraria che cinematografica), per Rovelli la più convincente delle interpretazioni della teoria dei quanti è quella “relazionale”, che descrivendo come qualunque oggetto fisico si manifesti a qualunque altro oggetto fisico, mostra come le proprietà di ogni cosa non sono altro che il modo in cui questa agisca sulle altre:
“La teoria dei quanti è la teoria di come le cose si influenzano e questa è la migliore descrizione della natura di cui disponiamo oggi”.
Rappresentare la realtà come una sottilissima e infinita rete di relazioni, fatta di eventi puntiformi, discontinui, probabilistici e relativi, di grana psichedelica, suggerisce a Rovelli di stabilire una relazione simbolica con alcuni spunti delle filosofie orientali, in particolare con gli scritti del monaco e filosofo buddista Nāgārjuna. Nel suo Mūlamadhyamakakārikā, tradotto a volte come Le stanze del cammino di mezzo, più di diciotto secoli fa, il pensatore indiano traeva conclusioni che risuonano efficacemente messe a confronto con quelle della meccanica quantistica. Per Nāgārjuna infatti ogni cosa esiste esclusivamente in relazione a qualcosa d’altro, e al di là della rete di relazioni non c’è altro che il vuoto. Sfruttando l’opportunità offertaci dall’essere immersi in questo comune tessuto di incontri ho contattato Carlo Rovelli per rivolgergli qualche domanda.
Helgoland di Carlo Rovelli
A Helgoland, spoglia isola nel Mare del Nord, luogo adatto alle idee estreme, nel giugno 1925 il ventitreenne Werner Heisenberg ha avviato quella che, secondo non pochi, è stata la più radicale rivoluzione scientifica di ogni tempo: la fisica quantistica.
Visualizza eBookNel 2014 con l’uscita di Sette brevi lezioni di fisica, un libro partito rimettendo insieme e ampliando una serie di articoli precedentemente pubblicati sul «Sole 24 Ore», lei ha raggiunto un impressionante successo editoriale. Sette lezioni di fisica è diventato il libro più venduto nella storia di Adelphi e lei uno dei più noti divulgatori scientifici, non solo italiani. Si aspettava un successo del genere?
Non me lo aspettavo, né se lo aspettava Adelphi. È stata una sorpresa molto bella. Soprattutto per la sensazione di vicinanza e di risposta che ho sentito dal pubblico. Voglio dire: non solo è stata una sorpresa il successo del libro, ma soprattutto lo è stata accorgermi come idee e modi di sentire che avevo fossero in realtà condivisi con tanti e risuonassero per tante persone.
Come è cambiata la sua vita, e che ripercussioni ci sono state sul suo lavoro di ricerca?
La mia vita non è cambiata molto. Più che altro ora sono un po’ troppo sotto pressione per il numero di persone che mi scrivono, o, quando esce un nuovo libro… per le interviste, come questa. La ricerca va avanti, anche se un pochino di tempo gliel’ho rubato.
Niels Bohr conservava nel suo studio il disegno della “scatola piena di luce”, uno degli esperimenti mentali con cui Einstein discuteva gli aspetti che non lo convincevano della fisica quantistica. È un’immagine che mi ha colpito, lei ha una “scatola piena di luce”?
Anche a me è sempre piaciuta l’immagine della “scatola piena di luce”. È curioso, vero? Per tantissimi, la “luce” è una metafora potente. L’“illuminsimo”, la “vittoria della luce sulle tenebre”, “Gettiamo luce sulla questione”. “Io sono la luce del mondo”, come ha detto un signore, e così via. Chissà cos’è esattamente questa “luce” di cui tutti parlano. E non sarebbe comunque bello averne una scatoletta di riserva per i giorni… bui?
Nei suoi libri c’è molta poesia – oltre alla musica delle sfere celesti intendo – si vede il suo grande amore per i poeti, dai classici come Lucrezio e Orazio, fino ad arrivare a Saʿdi di Shirāz, Goethe e Shakespare, e in più leggendola ho scoperto che a volte si innescano cortocircuiti tra la letteratura e la fisica stessa, come succede nel caso dei quark, che devono il nome a uno degli infiniti passaggi profetici e oscuri del Finnegans Wake di James Joyce (“Three quarks for Muster Mark!”). Che rapporto c’è tra poesia e fisica?
Entrambe dilagano ampiamente al di là dei propri confini. I confini propri della poesia sono dei libretti da tenere in biblioteca, e i confini propri della fisica sono i laboratori di ricerca. E invece poi la poesia colora tutta la nostra vita, e la fisica ci insegna a ripensare tutto. Per cui finiscono per incontrarsi e confondersi: c’è una poesia meravigliosa nelle delicate trame della realtà che la fisica svela una a una, e noi, che creiamo e leggiamo la poesia, non siamo anche altro che fisica.
All’ingresso del CERN, a Ginevra, c’è la statua di uno Shiva danzante.
Si, l’ha regalata al CERN il governo indiano. Shiva danzante è una metafora bella, e molto usata, per la realtà, che è una continua danza di mutazioni. E il governo indiano se ne fa vanto.
Anche nei suoi libri si trovano spesso riferimenti alle letterature induista e buddista, penso per esempio alla scoperta del vuoto al fondo delle cose di Nāgārjuna, di cui parla in Helgoland. Cosa lega le filosofie orientali alla fisica quantistica?
La stessa cosa che lega alla meccanica quantistica le filosofie occidentali. Le filosofie sono sforzi per trovare modi coerenti di comprendere il mondo. La meccanica quantistica nasce da esperimenti che mostrano che certe passate assunzioni metafisiche non sembrano più funzionare bene, e quindi spingono a cercare altri modi di pensare il mondo. E le filosofie questo fanno.
Che analogie e differenze ci sono tra la gravità quantistica a loop e l’origine dipendente buddista? (Mi riferisco al concetto espresso dal sanscrito pratītyasamutpāda, tradotto anche come “coproduzione condizionata”, che nella sua versione più nota in Occidente – quella ontologica – suggerisce che tutti gli elementi esistano in relazione reciproca, spiegando l’esistenza secondo una logica di causa-effetto).
Nel libro faccio riferimento al pensiero di Nagarjuna, che obbietta alla logica di causa-effetto. Il pensiero di Nagarjuna mi sembra molto radicale. Nulla esiste se non in dipendenza da altro. L’osservazione chiave, che è rilevante per aiutarci a trovare un modo per rendere conto della stranezza della fisica quantistica, è che non solo l’interdipendenza non richiede l’esistenza autonoma degli enti in relazione ma che addirittura la esclude. Il pensiero di Nagarjuna ci permette di pensare alle proprietà delle cose come interamente relazionali. Ovviamente Nagarjuna non sapeva nulla di quanti, né poteva sospettare nulla di simile. Ma il suo pensiero ci fornisce strumenti utili e una prospettiva utile per affrontare gli aspetti che ci lasciano più perplessi della nuova fisica.
In Helgoland spiccano due personaggi apparentemente molto distanti: il fisico di genio Werner Heisenberg e il politico, filosofo e medico Alexander Bogdanov, cosa li accomuna?
Lo straordinario coraggio di pensare dove nessuno aveva mai pensato prima, di abbandonare vecchi pensieri. Ma c’è di più. Entrambi hanno contributo in maniera vertiginosa alla cultura dell’umanità, sono passati vicinissimi al centro del potere, ed entrambi si sono trovati dalla parte degli sconfitti. Rispettati, segretamente ammirati, e credo amati, ma allontanati.
Leggendo alcuni dei più grandi divulgatori nel suo campo, da Fritjof Capra a Richard Feynman, viene da pensare che un set di idee abbia qualcosa a che fare con la psichedelia: intuizioni come il tempo che non esiste, il manifestarsi di particelle in forma di onde, la fitta e fluida rete di relazioni alla base del mondo, l’entanglement e via dicendo hanno un qualcosa di lisergico. Mi è anche venuto in mente – ma magari questo è solo un caso – che il laboratorio sotterraneo del Monte Bianco dell’Istituto di Cosmogeofisica del CNR possedeva un rilevatore di neutrini chiamato Liquid Scintillation Detector (LSD), e anche nei suoi libri a volte si leggono frasi come “Basta qualche grammo di funghi, perché l’intera realtà si sciolga davanti ai nostri occhi e si riorganizzi in una forma sorprendentemente diversa”. Insomma, c’è una qualche affinità speciale tra fisica e psichedelia?
Ci sono risonanze superficiali. Tanto l’una quanto l’altra ci mostrano, con percorsi completamente diversi, che la nostra visione del mondo quotidiana è estremamente parziale e che ci sono altri modi per guardare il mondo.
In alcuni passaggi dei suoi libri ci sono ricordi molto intensi relativi alla sua giovinezza, in parte vicina alla cultura hippie. Mi viene in mente la scena di lei che declama l’OM seduto accanto ad Allen Ginsberg, oppure il suo portare i capelli lunghi stretti in una fascia rossa. In qualche modo non è un caso, la cultura hippie fu molto sedotta dalla natura dei quanti, come è avvenuto e che frutti ha dato questo cortocircuito tra controculture e fisica moderna?
La cultura non è mai fatta di comparti separati e le correnti più vitali si parlano e si influenzano sempre fra loro. L’incontro con la meccanica quantistica è nato dalla fascinazione della controcultura degli anni Sessanta per tutto ciò che mettesse in dubbio l’ordine costituito, meglio se l’intero ordine cosmico. Ma c’è stato un interessante rimbalzo: un gruppo alternativo californiano si è appassionato all’idea che uno dei fenomeni quantistici più caratteristici, l’entanglement, potesse essere usato per comunicazioni a distanza istantanea. Lo studio della questione è una delle sorgenti della moderna ricerca sull’informazione quantistica, oggi attivissima e alla base dei computer quantistici che sono in corso di sviluppo. Questi scambi sono descritti in un divertente libro di David Kaiser che si intitola, in modo certo un po’ esagerato, Come gli hippie hanno salvato la fisica.
E ora una domanda pop. In Tenet, l’ultimo film di Nolan, il tempo sembra essere al centro di tutto, alcuni oggetti a entropia invertita riescono a innescare veri e propri viaggi nel tempo, minacciando di farlo collassare e poi correre a ritroso. Sembra tutto molto lontano dalla sua concezione per cui in fondo, almeno a livello quantistico, il tempo non esiste. Anche se è fantascienza, su che teorie poggiano le ipotesi del film?
Quello che succede nel film è irreale e la giustificazione scientifica è tirata per i capelli: è fantasia alla Hollywood. Però l’ispirazione di partenza si appoggia effettivamente su alcune conclusioni sorprendenti della fisica moderna. Quella centrale è che la direzione in cui percepiamo lo scorrere del tempo, come la natura stessa del tempo, non sono fenomeni che appartengono alla grammatica elementare del mondo. Sono invece fenomeni complessi che derivano dalle interazioni fra miriadi di variabili microscopiche. Ne segue in linea di principio che se potessimo manipolare queste variabili, potremmo percepire il tempo scorrere nella direzione opposta. Si tratta di una possibilità teorica, non di qualcosa che si possa realizzare con un apparecchio, come nel film. Ma è comunque stupefacente. Molto più che non gli effetti speciali del film.
Nell’ultimo album di Bob Dylan, lo splendido Rough and Rowdy Ways, una sorta di Requiem per sé stesso e quindi percorso da cima a fondo dalla riflessione sul tempo, c’è una canzone che mi ha colpito più di tutte: My Own Version of You, in cui il cantautore con voce da negromante dà vita a un Golem a cui in fondo, al penultimo verso, chiede di “turn back the years”. Tra i suoi libri il tema è trattato ne L’ordine del tempo, un argomento del resto al centro di uno dei suoi più importanti percorsi di ricerca. Cosa vuol dire per lei riflettere sul tempo? E ancora, qual è tra i suoi libri quello che le è più caro?
Cos’altro c’è da cantare se non il tempo? Nel mio piccolo, L’ordine del tempo è il mio sommesso canto per il tempo. Certo c’è tutto quello che la fisica ci dice e non ci dice sul tempo, ma il tempo che per noi ha senso – e questo in fondo è tutto il senso del libro – non è quello che ticchettano gli ignari orologi. L’ordine del tempo è il libro in cui c’è più il mio cuore, per questo. Ma il libro che mi è più caro è un altro: La rivoluzione di Anassimandro. Non solo perché è per me in un certo senso un primo libro, ma anche perché proprio per questo è un libro slegato, che vagabonda per una linea libera di pensieri, un libro in cui ho messo tanto dei miei pensieri, senza preoccuparmi troppo. Per questo è anche un libro che ad alcuni può dare particolarmente fastidio.
C’è qualche altro aspetto della fisica che le piacerebbe vedere popolarizzato su grande schermo da un regista come Nolan?
Mi piacerebbe che si occupasse di scienza qualcuno che faccia film pieni di sensibilità e intelligenza, invece che film fatti di assurdità, violenza e tante esplosioni.
Negli ultimi anni a volte si è parlato dei grandi acceleratori, come quello del CERN, che sono riusciti a trovare solo le particelle che erano già ampiamente previste dalla teoria; d’altro canto abbiamo teorie che restano dopo molti decenni non testabili empiricamente. Crede che in questi anni la fisica fondamentale sia entrata in crisi?
Sono entrate in crisi alcune ipotesi specifiche, e chi ci lavorava ha alzato lamenti, ma sono solo certe scuole di pensiero che sono in crisi, non certo tutta la fisica fondamentale, che invece è in ottima forma. Basti pensare alla fisica della gravità, con le straordinarie osservazioni su buchi neri e onde gravitazionali, premiate da Nobel recenti.
Chiudiamo con uno sguardo al futuro (noi che siamo immersi in un mondo sfuocato possiamo anche permettercelo). Se fosse già oggi nato un genio come Heisenberg o, perché no, addirittura Einstein, cosa potrebbe scoprire nel campo della fisica?
Trovare una buona teoria di gravità quantistica e un modo efficace per testarla.
Sette brevi lezioni di fisica
Ci sono frontiere della conoscenza dove brucia il nostro desiderio di sapere: sono nelle profondità più minute del tessuto dello spazio, nelle origini del cosmo, nella natura del tempo, nella destinazione dei buchi neri. Qui, a contatto con l’oceano di quanto non sappiamo, bellezza e mistero ci lasciano senza fiato.
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Visualizza eBookFederico di Vita è nato a Roma e vive a Firenze. È autore del saggio-inchiesta Pazzi scatenati (effequ 2011, poi Tic, 2012) – Premio Speciale nell’ambito del Premio Fiesole 2013; e di I treni non esplodono. Storie dalla strage di Viareggio (Piano B, 2016). Scrive su diverse testate tra cui Il Foglio, L’Indiscreto, Esquire e Dissapore.