Chiedi se vive o se muore. Conversazione con Gaia Giovagnoli
“L’amore può essere una mutilazione: se serve, si può recidere una piccola parte all’amato – un suo desiderio da niente – per far sì che un pezzo del puzzle continui a combaciare. Limarlo per il fine superiore: stare insieme nonostante tutto”. Nonostante tutto. Nonostante il male e il dolore. E in virtù della dipendenza. A volte l’amore è un’ossessione, qualcosa che consuma le forze senza dare niente in cambio, un sacrificio che ci lascia costantemente inappagati, un cappio invisibile che ci incatena a qualcosa che ha il sapore amaro di casa. Quando l’amore è tossico non è semplice accorgersene e tanto meno spezzare quelle catene. In Chiedi se vive o se muore, il suo secondo romanzo edito da Nottetempo, Gaia Giovagnoli prova a indagare i perché di una relazione violenta, scandagliando le vite di India e Leo, i due protagonisti.
Quando India e Leo si conoscono parlano fino a tardi. Il tempo si dilata e le confessioni e i segreti di una sera si fanno la vita condivisa di mesi e poi di anni. “I labirinti li affidammo l’uno all’altro. Ci perdemmo insieme, tenendoci per mano, e non ce ne accorgemmo neanche”. Da certi amori non è semplice sfilarsi, come se qualcuno ce li avesse cuciti addosso, un vestito scomodo difficile da abbandonare o un’armatura pesante che ci inchioda a terra. Nel romanzo di Gaia Giovagnoli, India parla dal capezzale del letto di ospedale dove Leo è in coma dopo essere caduto dal secondo piano dell’appartamento dove vivevano prima di separarsi.
“Voglio dire che – mentre ero finalmente lontana, a tre mesi dalla mia partenza, mentre stavo con un altro uomo, Yari – tu ti sei lanciato dal balcone di casa nostra. Quella che era stata la nostra casa. Voglio dire che spero non sia stato un incidente, il tuo. Significherebbe che hai provato a sfilarti dalla mia vita, per lasciarmi libera, o che hai deciso di condannarmi per sempre. Volevi farmi sentire un mostro? Anche il senso di colpa è una forma di dialogo”.
In un racconto serrato che diventa un dialogo immaginario con l’ex amato, la protagonista scava dentro se stessa, cercando una chiave di lettura per raccontare una storia i cui piani si intersecano e si confondono. Per aiutarsi usa i tarocchi. Gli arcani maggiori diventano un’abile strategia per entrare e uscire dal passato, raccontare il presente e immaginare un futuro diverso. Proprio come fa la letteratura, permettendosi di mischiare i piani, di tornare indietro, di riscrivere o interpretare, così i tarocchi diventano una lingua per interpretare la realtà, una chiave di lettura per comprendere ciò che altrimenti sembrerebbe ancora più misterioso e inspiegabile.
“Le cose succedono e basta, esistono e basta, ma l’unico modo per conoscerle è farle succedere a noi, rendendole coerenti nel ricordo, attirandole nel centro magnetico della nostra storia e dando loro un nome, una ragione, un inizio e una fine, in certi casi una morale. La divinazione esiste per questo. Costruire un senso”. Costruire un senso, osservare e mettere in relazione i dettagli per poter scegliere e immaginare nuove vie. Proprio come farà India in una maniera che ha qualcosa di magico. Ma, come dice Alejandro Jodorowsky, “la magia non è superstizione, la magia è la natura del mondo. Il mondo non è logico né razionale, è magico, ed esiste un legame stretto tra tutto ciò che accade”.

Chiedi se vive o se muore
“I segni, a pensarli così, possono davvero esprimere una qualche verità – non per quello che sono in sé (una nuvola è una nuvola, un fulmine è un fulmine) ma per il ruolo che diamo loro in noi”.
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Com’è stato scrivere un secondo romanzo dopo il successo del tuo esordio, Cos’hai nel sangue?
Strano strano, ma a suo modo entusiasmante. Sapevo di voler scrivere un libro diverso da Cos’hai nel sangue, ma avevo paura anche solo a pensare a una trama. C’è quella maledizione sibillina che si manda agli esordienti che dice che il secondo libro sia il più difficile di sempre, e io avevo sinceramente un po’ di ansia. Per fortuna poi tra scritture, riscritture, dubbi, fulminazioni, confronti, ri-dubbi e tanto altro il libro è nato e si è preso il suo spazio. È stato fondamentale parlare con la casa editrice, che mi ha detto: ma perché non scrivi qualcosa che abbia a che fare con i tarocchi? Alessandro Gazoia (editor e direttore editoriale di Nottetempo) sapeva della mia passione per le carte, e che le leggo da anni. Da questa scintilla si è poi incendiata India, Leo, e tutti gli altri personaggi presenti in Chiedi se vive o se muore.
In Chiedi se vive o se muore c’è il racconto di un amore disfunzionale, tossico. India, la protagonista del romanzo si ritrova a ripercorrere la sua relazione con Leo. Cosa succede quando i traumi di due persone combaciano alla perfezione, legandosi in maniera pericolosa?
Qualcosa di potente, che può diventare davvero terribile. India e Leo hanno creduto ciecamente nel loro amore, per anni hanno pensato fosse quello perfetto, eterno. Diverso da tutti gli altri amori. La comprensione reciproca assoluta. Entrambi avevano ferite profonde. Entrambi avevano trovato nell’altro un antidoto, o almeno così era sembrato. India aveva imparato a trasformare il suo stesso corpo in un luogo sicuro per Leo, l’unico dove lui potesse sfogare tutto il dolore che gli era cresciuto all’interno. Leo, da parte sua, si era reso una figura salvifica proprio facendo del male alla ragazza, ma con la promessa di farlo per il suo bene. Per una catarsi. Entrambi avevano accettato completamente ogni lato buio dell’altro, e avevano provato a sanarlo. A esserne depositari. Ma sia India che Leo in realtà stavano cullando il male, perché tutta la loro identità era legata al dolore che avevano subito, ai traumi. E non volevano davvero lasciarlo andare. Lo stavano nutrendo. Non stavano pensando davvero al bene dell’altro. India se n’è accorta, dopo un apice di violenza da parte di Leo, e da lì è iniziata la sua fuga.
Che rapporto c’è tra l’amore e la violenza?
Alcune persone vivono tutta la vita pensando che se non ci fa soffrire allora non è vero amore. Abbiamo una sorta di culto per le storie travagliate, instabili. Mi viene in mente il testo di “Betty” dei Baustelle, “Betty ha talento, va a ballare/ con l'amore e la violenza/ vive bene, vive male/ non conosce differenza”. Anche India deve fare i conti con il suo nuovo amore per Yari, ad esempio, perché è un amore diverso da quelli che ha sempre vissuto; con Yari l’affetto è senza danni e drammi e urla. È l’amore di un uomo che non vuole il dolore. Né il suo né quello di India. A volte si può arrivare a credere che chi ci ama conosca cosa è bene per noi più di quanto non lo sappiamo noi stessi, ed è molto pericoloso. Significa permettere a qualcuno di decidere; delegare. È dare un coltello e dire: “taglia via quello che ti sembra inutile. Cesellami tu. So che ne farai buon uso”. Ma non è così: l’amore diventa violenza nell’esatto istante in cui si spera in una fusione totale. Si viene divorati. Esiste però, io credo, una forma di violenza controllata che può essere catartica, che può puntare all’amore e al bene reciproco. Nella sessualità. Il sesso è un modo potente di scontrarsi con i propri drammi personali e con una serie di imposizioni sociali e culturali che incarniamo. È uno spazio quasi teatrale, un’eccezione. Un luogo a sé, dove compiere riti e creare trasformazioni molto potenti. Nel sesso si può mettere in scena una paura e, nello spazio del consenso e del piacere, riscriverla. Dialogarci, con la paura. Renderla innocua, esorcizzandola. Riprendere potere, mimandone la perdita. Certo è che il sesso violento, se fatto con persone e in condizioni sbagliate, può diventare pericoloso. India si scontra con questo: la persona con cui pensava di giocare è uscita dalla parte. Le vuole davvero fare del male.
Parliamo delle carte, i Tarocchi, che danno anche il titolo ai vari capitoli del tuo libro. Leggono il futuro o servono per guardarsi dentro?
I tarocchi sono stati usati per fare divinazione, ed era quella la loro funzione: era al futuro che si guardava. A me piace approcciarli ancora così, in parte, rendendo onore alla loro storia e a chi li ha letti prima di me, anche se mi chiedo quale sia il futuro che leggono e se non possa essere cambiato. Mi piace riflettere su questo, e tutto il libro lo fa tramite la voce di India: il destino è davvero qualcosa di scritto?
Siccome certe dinamiche relative a quello che sarà sono già inscritte nel passato, le carte sono anche un mezzo per riflettere proprio su cosa si è voluto o meno, cosa fosse evitabile e cosa no. Possono chiederci cosa si desidera succeda nel futuro. Sono una lente su di sé. Un mezzo per capire che si hanno strumenti di analisi, prima, e di intervento, poi. Non mi libero mai di un certo sguardo antropologico, quando le faccio. Le pratiche di divinazione sono mezzi che le persone usano (e hanno sempre usato) per maneggiare la vita e riprenderne il controllo. I momenti in cui ci sentiamo persi sono moltissimi, e avere qualcuno che guardi con noi cosa sta succedendo – che provi a capirci qualcosa – è potente. Definire cosa c’è che non va in noi e attorno a noi, è potente. Dare un nome ai dolori, o prefigurare amori e sogni. Francesca Matteoni, autrice di un testo stupendo uscito per effequ, Dal matto al mondo, dice che i tarocchi sono una sorta di libro in movimento. E credo che come i libri, dunque, siano specchi. Ogni figura è un simbolo che parla della vita di ognuno e della vita in generale. La svela. Insieme al cartomante (o da soli) si fissa dentro una serie di figure, si guarda nella disperazione e nella solitudine e nella speranza e quello che si vede in azione – tra cavalieri, appesi, angeli e sacerdotesse – è il consultante stesso, proprio lui, nessun altro. È il protagonista della sua stessa storia. Si cercano così delle risposte sui fatti di ogni giorno, certo, ma anche sulle questioni irriducibili dell’uomo, come la morte, l’amore, dio.
Forse c’è un rapporto speciale anche tra l’amore e la magia, l’insondabile. Questo è un passo di Marsilio Ficino: “Tutta la potenza della magia consiste nell'amore. L'opera della magia è una certa attrazione d'una cosa verso l'altra, per affinità naturale. Tutte le parti di questo mondo dipendono, come le catene dell'essere, da un amore e sono legate da un nesso naturale […] questa è l'autentica magia”. Quello dell’amore sembra ancora oggi un territorio altro, spesso sconosciuto, forse l’unica credenza magica della nostra contemporaneità in cui siamo disposti ad abbassare le soglie della razionalità…
L’amore è la cosa più naturale e misteriosa di tutte. Possiamo capire grazie alla biologia e alle neuroscienze cosa scatti nel nostro cervello ogni volta che ci innamoriamo – dare nomi agli ormoni, misurare il battito cardiaco. Possiamo trovare “modelli” nelle figure che ci hanno assistito crescendo, o che ci hanno affascinato nei media. Possiamo comprendere perché sia così importante – socialmente, culturalmente – creare un branco, anche se solo composto da due persone. Non si esaurisce mai però la meraviglia legata all’amore: quel senso di pace, di conforto, di abbandono. Nell’amore cessa la paura. A modo suo è davvero miracoloso.
Nel racconto si raggiungono vette di dolore altissime e di violenza senza censure. Sottomissione e vittima sono le prime parole a cui pensiamo conoscendo la tua protagonista. Eppure India sembra costantemente abitata dal dubbio, in uno sforzo opposto, quasi una forza centripeta, che le suggerisce di riordinare il caos che la circonda. Come convivono queste due anime dentro di lei?
Amore e rabbia possono coesistere e toccarsi. India ha vissuto storie dove è stata costantemente frustrata, e si è convinta di non meritare altre forme di affetto. Ne è certa, finché non viene chiusa in uno stanzino dall’uomo che pensava fosse tutta la sua vita. Ne è certa finché non inizia a scappare, e non sa nemmeno lei perché lo sta facendo. Sente qualcosa che la chiama da un altrove, e forse è lei stessa da un’altra vita possibile. Ha una forte speranza che la spinge a ricostruirsi dopo una distruzione e, proprio perché è in mezzo alle macerie, può vedere meglio cosa desidera ricostruire e cosa invece lasciare in cenere. A tutti capita di passare in mezzo a momenti di caos, più o meno gravi; a tutti capita di incarnare la carta della Torre: arriva un fulmine dal cielo e appicca un incendio a un edificio che sembrava stabile, affidabile, che però capitombola all’improvviso. Proprio in quei momenti si ha una gran necessità di capire cosa sia successo. Di guardare cosa è rimasto in piedi, e cosa costruire con quello che resta.
Cosa pensi dell’autofiction, così di moda nella letteratura contemporanea di oggi?
Mi piace molto, devo dire. Si esprime con lo stesso lessico del memoir e dell’autobiografia, ma è qualcosa di diverso, di più stimolante. È un gioco letterario che mi entusiasma, se è fatto bene: l’autore/personaggio si ritrova a fare cose che ci chiediamo se siano avvenute nella realtà, ingannando chi legge. Sfrutta la credulità e il fatto che come lettori diamo per scontato che l’autore, se parla di sé, non si denigrerebbe mai. Chi accetterebbe di apparire crudele, o stupido, o assurdo? Non ha paura della società, del giudizio? Diamo per assunto che chi scrive, se è protagonista, sia votato alla realtà. Ma l’autofiction usa l’ambiguità come strumento. Si pensi a Siti, a Ciabatti e ai loro narratori inaffidabili. Mi piace che si usi la morbosità di chi legge – quella spinta a voler guardare dallo spioncino le vite degli altri – e la si renda un modo per dire delle verità. Svela molto di come percepiamo i libri che dicono “io” e dell’identificazione con ciò che leggiamo. Non sono d’accordo con chi la considera un tipo di scrittura “facile” o pensa sia un frutto della sovraesposizione social di oggi – anche perché a ben guardare l’autofiction c’è da tempo ed è frutto di un’intuizione che esiste dall’inizio della storia della letteratura (cioè che l’altro, a ben guardare, siamo noi).
In questo libro c’è anche il dolore di due figli che pensano ingenuamente di salvare i loro genitori ma ne rimangono inesorabilmente schiacciati. Credo che il tuo romanzo debba molto alla psicanalisi, è così?
Mi sono spesso chiesta cosa significhi “destino” e se non ci sia una parte della storia di ognuno determinata da questioni già stabilite, che ci precedono e ci trascendono. È come se ci fossero delle strade già battute, che è più naturale percorrere. Penso per esempio al fatto che nasciamo in un contesto culturale specifico, che determina cosa desiderare, cosa considerare degno o indegno (quale scuola, quale mestiere, quale caratteristica fisica); penso al fatto che si nasca con un capitale simbolico ed economico che la famiglia ci passa, e dal quale è spesso difficilissimo uscire; e penso che sì, cresciamo con modelli di riferimento che possono o no essere sani, e che possono condizionare il modo in cui, in futuro, cercheremo affetto. Sicuramente dunque devo molto a una visione antropologica, questo sì, ma non posso – come chiunque, oggi – concepire il mondo senza dare per assunti certi principi della psicanalisi. È stata una rivoluzione culturale che ci ha cambiato il modo di pensare all’individuo, e oggi è scontato che si guardi al passato, alla radice, per capire il presente di qualcuno. Credo però che la mia visione sia anche in parte critica della psicanalisi, quando viene approcciata impropriamente. India e Leo sono personaggi che sull’idea del trauma hanno costruito la propria identità: entrambi pensano a se stessi come legati a una ferita, indicano dei colpevoli (i genitori) e quasi alimentano quel dolore perché, se dovesse cessare, non saprebbero chi sono. Ma India in questo libro si accorge che così facendo sta girando a vuoto, aprendo una ferita ogni volta che questa prova a rimarginarsi. E prova a cambiare direzione.
È appena uscito anche in Italia per Il Saggiatore un bellissimo libro di bell hooks, Comunione, che indaga come nel corso dei secoli l’amore declinato al femminile sia stato spesso una mistificazione, un sentimento che ha alimentato le strutture su cui si regge la società patriarcale. Forse è così anche per India. Uno dei capitoli di hooks si intitola “cercare l’amore, trovare la libertà”. Cosa bisogna fare, soprattutto oggi, per liberare l’amore da questo giogo?
Non ho ancora letto il saggio di hooks, ma credo che serva liberarsi, come si spera faccia India, dall’idea che serva trovare l’amore di qualcuno per salvarsi la vita o per poterla vivere degnamente. Il modello del cavaliere bianco che arriva e uccide il mostro è dannoso, perché sottintende che serva un intervento esterno per creare una conseguenza positiva in noi. Per renderci meritevoli di cose belle. E non voglio cadere nemmeno nel tranello di “bisogna prima amare se stessi”. A mio parere non è necessario nemmeno questo. Insomma, l’amore come concetto rischia di essere fuorviante. Un essere umano dovrebbe essere meritevole di vivere su questa terra e avere diritti anche se guardandosi allo specchio prova orrore, e lo farà per tutta la vita. Il valore di qualcuno non dipende dall’affetto e dalla cura che altri sono in grado di dargli, così come non dipende dal grado di auto-accettazione e amore che riesce a rivolgere su di sé. Che uno abbia dell’amore o non ce l’abbia, dovrebbe essere indifferente.
Senza anticipare niente del finale del libro e sulla strada che India troverà per uscire dalla violenza, come sei arrivata a immaginare questa conclusione?
Ancora non sapevo cosa sarebbe stato di India, e avevo quasi concluso il libro. C’era qualcosa che mi sfuggiva, della sua storia. Un pomeriggio poi stavo passeggiando con una delle mie sorelle, Sara, e le dissi che mi sentivo come bloccata in un limbo. Lo scavo di India era alla fine, ma non mi sembrava ancora di averla capita del tutto. Dissi a Sara delle carte, dello stanzino e della ricerca disperata di senso, accanto al letto in ospedale di Leo. È stata lei a darmi la chiave per il finale. A volte il grimaldello delle storie è necessario cercarlo in altri, e per questo libro è stato così di continuo: non solo sono state importantissime le persone che ho incontrato facendo i tarocchi, ma mi sono confrontata con chi mi stava accanto. Ho chiesto di relazioni, di brutture e bellezze dell’amore, di ossessione, e questo sguardo sull’intimità mi ha rivelato dettagli che sono stati chiarificatori per la trama.
Anche tu, come la tua protagonista, leggi i Tarocchi. C’è una carta in particolare tra tutte quelle degli Arcani Maggiori che rappresenta meglio questo libro o sotto i cui auspici ti è sembrato nascere e crescere?
Chiedi se vive o se muore è racchiuso nel tarocco della Forza – questa lotta tra una donna e una fiera, tra ordine e caos (rappresentata splendidamente da Daniele Castellano sulla copertina del libro). India fa un corpo a corpo con un mostro, che è fuori e dentro di sé. Il libro si è sviluppato seguendo questo principio. Le auguro però, al di là di tutto, che possa prima o poi riposarsi e passare alla carta della Stella. L’arcano della speranza, del sogno, della realizzazione. Vorrei fosse così anche per il romanzo. Auguro loro, insomma, buona fortuna.

Chiedi se vive o se muore
“Il buio mi pose delle domande. Le figure delle carte non mi lasciarono in pace”. Chiusa a forza in uno stanzino, India si nutre degli arcani e rivive gli incontri con le persone per cui ha letto i tarocchi. A segregarla lì senza cibo né acqua è stato Leo, il suo compagno, il suo grande amore.Uscita finalmente da quella prigione, la giovane donna tenta di ritrovare se stessa in una famiglia complicata e in un nuovo legame sentimentale. Ma quando viene a sapere che Leo è volato giù dal loro vecchio appartamento al secondo piano, va da lui in ospedale e avvia un dialogo immaginario con quel carnefice che non si sveglia.
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