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Circospetti ci muoviamo. Genova 2001: avere vent'anni

Di Valentina Maini • luglio 13, 2021

In Circospetti ci muoviamo, sei autrici e cinque autori con età, prospettive e storie personali diverse, scrivono di ciò che accadde a Genova nel luglio del 2001. Un libro collettivo che, spiega l'editore, si propone di raccontare quel che la Storia crea in certi momenti, e di come, tra memoria e immaginazione, il futuro e il presente ci appaiono una volta che li osserviamo immessi nel corso della Storia.

Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo un intero capitolo del libro.

Circospetti ci muoviamo di Ivan Carozzi, Paola Ronco, Matteo Porru, Giuseppe Fabro, Valentina Maini, Nicoletta Vallorani, Orso Tosco, Veronica Galletta, Daniele Vicari, Roberta Covelli, Ndack Mbaye, Federico Zappini

Il mondo ha chiaro in mente quanto è successo a Genova nel luglio del 2001. Non è solo stata stroncata la vita di un ragazzo, e martoriata quella di innumerevoli altre persone, ma è stata soffocata sul nascere l’idea di un futuro comune. Il movimento plurale e molteplice che è confluito in quella Genova parlava dei temi che adesso condizionano la vita di ogni giorno: la globalizzazione, il cambiamento climatico, le grandi potenze da cui dipendiamo.

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Un’idea come un’altra, di Valentina Maini

A quattordici anni studiavo in un liceo frequentato da figli di operai e spaccini. Nascondevano bustine dietro lo sciacquone o nei battiscopa scollati. I più fantasiosi le ficcavano dietro ai planisferi o ai crocifissi appesi in classe, ti avvicinavi alla roba per pregare Cristo o farti un’idea del mondo. Non sapevo bene dove mi trovassi. Fino ai quindici anni io e i miei compagni non eravamo lì, aspettavamo l’incrinatura che ci avrebbe resi adulti, la malattia degli altri. Le ragazze più grandi portavano enormi fasce in garza di cotone tra i capelli e sembravano sempre drogate. I ragazzi fumavano e un’acne gli scavava le guance fino a bucarle. La mia pelle era liscia e bianca. Fumavo male. Ero una ragazza severa. Laura si tagliava in bagno e io andavo a soccorrerla, sfioravo la sua maledizione. Fu lei a portarmi a Genova. Mi trascinava alle assemblee sui flussi migratori e a corsi di teatro dove rimanevo all’angolo, nell’illusione di sparire. La guerra generava migrazioni, trasformando i popoli in gabbiani. La mattina stessa fu lei a non presentarsi sotto il grande orologio. Sarei potuta tornare a casa ma quel giorno un veterinario avrebbe soppresso il mio cane con un’iniezione. Non volevo acconsentire a quella brutalità. All’epoca non c’era differenza tra allontanarmi e protestare. Era vecchia, era una lupa e si chiamava Ira. Non andai a Genova, scappai da lei.

Le sfide di Laura non le vincevo mai. Si divertiva a darmi buca, arrivava tardi agli appuntamenti perché sapeva che presto l’avrei abbandonata per un’amica più grande e simile a me, o per un ragazzo che disegnava fumetti splatter a ricreazione. Così mi metteva alla prova e io la aspettavo per ore a una fermata dell’autobus o sdraiata sull’erba in un parchetto. Forse mi faceva pena. Quel giorno provai a chiamarla tre volte, non rispose, non provai a capirla. Volevo vedere Genova, sentire quello che sentivano tutti. Non sentivo niente. Forse ero semplicemente stupida, o cattiva. C’era un gruppo di ragazzi della mia scuola sotto al tabellone delle partenze, mi unii a loro, li conoscevo appena. Erano diversi da me, si muovevano sempre a branchi, gridavano per il conflitto in Palestina come se a morire fosse stato un loro amico. Io guardavo Ira, il suo pelo di lupa grigia, le vene di Laura e come le sue dita stringevano la sigaretta, nella speranza di imitarla. Guardavo la gatta magra che ogni giorno mi faceva visita in giardino in cerca di cibo, e le labbra dei ragazzi, anche loro affamate. Non conoscevo molte parole. Quelli mi salutarono con un cenno del capo, uno allargò un sorriso smorto e familiare. Una di quelle marionette che costruiva mio padre, senza dita. Probabilmente non mi misero a fuoco. Erano approssimativi, sudaticci, vestiti con noncuranza innaturale. A quell’età ci somigliavamo tutti. Era questo a renderci terrificanti. O perlomeno era questo a terrorizzare me.

Il regionale puzzava di urina, le tende come smangiate da insetti tropicali. Noi eravamo piante flosce, annegate da temporali improvvisi. Pensai al tossico che nascondeva le siringhe tra i sedili, una storia che avevo sentito al telegiornale: i tossici, minuscoli insetti crudeli nei treni. Non avevo portato molto con me, ci avrebbe pensato Laura. Era lei a organizzare le nostre rare gite in treno verso Rimini o Verona. Viaggiare la trasformava in un’adulta, portava tovaglie, panini rinchiusi in contenitori di plastica e biancheria di emergenza di taglie troppo grandi per me. Mi piaceva fluttuare nelle sue vesti e farla ridere, non somigliava alla ragazza che si cercava le vene nei bagni. Dopo pochi minuti di viaggio tirai fuori dallo zaino le poesie di Owen rubate a mio padre, poesie che non capivo. Appuntava i libri come a punirli di uno sgarbo, mi chiedevo con quale forza e perché. Non capivo Wilfred Owen, cercavo mio padre. Quando il treno si fermò, in molti scesero a fumare, io rimasi immobile sul sedile e qualcuno mi fece la solita domanda, mi chiese se fossi muta. Per risultare invisibili basta ridere, parlare, continuavo a scordarlo. Sogghignarono, ma non colsi desiderio in loro. Provai a concentrarmi sulle poesie, mentre il treno si ripopolava e loro mi dimenticavano. Poi lei entrò nel vagone e si sedette di fronte a me.

Si chiamava Elisa, era salita con un gruppo di ragazzi più grandi. Ogni tanto le toccavano una spalla o una gamba per attirare la sua attenzione, li trovai sguaiati e senza la stoffa che pare avvolga i seduttori. Era piccola e dura, le gambe scoperte, scolpite nella roccia scura dei vulcani. Sembrava stesse sempre sorridendo, da qualche parte. Mi chiesi come sarebbe stato vederla piangere, se avesse mai pianto, quale dolore le avrebbe tolto il ghigno che custodiva sottopelle, se un giorno a strapparglielo sarei stata io.

Verso Piacenza l’atmosfera cambiò e ricevetti un messaggio da Laura. Sono sul treno, quello dopo. Provai sollievo e fastidio. Genova entrò nel vagone mentre Laura si piegava al mio ricatto. Per una volta ero io a sfidarla, forse vincevo. I ragazzi parlavano di come avrebbero percorso la città, sfondato la zona rossa, difeso i diritti dei migranti. Mia madre faceva colazione e ascoltava i lamenti di Ira, mi chiedeva quando sarei tornata. Non lo so, siamo sui colli, io e Laura. Torno stasera. Tu invece puoi sempre cambiare idea e non farla ammazzare. Guardai Elisa. Aveva gli occhi di un fiume indiano, vicini e cattivi. I miei erano grandi e velati, niente li attraversava, o ero io a svuotarli ogni giorno come fanno i poveri con le riserve di cibo da mettere al sicuro. Il suo ombelico sporgente e forato da un orecchino luccicava come una mandorla viola. Le parole che sentivo nel vagone erano le stesse che usavano quelli più grandi a scuola e, ogni tanto, sempre più di rado, i miei genitori. Parole lunghe e difficili, astratte, per cui provavo un’istintiva antipatia. Nella sua bocca si flettevano e si aprivano, era lei a riempirle di uno strano odore. Non mentiva. Era incuriosita e materna. Probabilmente somigliava a mia madre o all’idea che ne avevo io: qualcuno che ti è accanto per sbaglio e a cui ti sforzerai di somigliare; una donna che ti insegna nuove parole. Tempo dopo provai a copiarle i capelli, né dritti né lisci, come attraversati da onde che si infittivano sul finale in minuscole capriole castane. Le copiai lo sguardo e gli anelli alle dita. Quando si muoveva, un suono di campanellini vibrava dai polsi e dalle caviglie abbronzate. Mi chiese cosa avrei fatto a Genova, se volevo unirmi a loro. Si interessò a me o forse era il mio imbarazzo a divertirla. Loro erano le Tute Bianche. Di lì a poche ore il mio cane sarebbe stato ucciso, cane era una buona parola, che riuscivo a capire.

La conquistai all’altezza di Tortona, non so quanto mancasse all’arrivo. Sbirciò il mio libro e mi si sedette accanto. Mi accorsi che aveva la maglia infilata al contrario, di proposito. Lo facevano in molti, a scuola, rivoltarsi i vestiti, mostrare etichette e cuciture. Ogni tanto lo facevo anche io. Appoggiò la sua testa alla mia spalla e iniziò a leggere, il suo inglese era ridicolo e sciatto ma lei non lo sapeva. Poi mi chiese perché stessi andando a Genova, a bassa voce, un tono che non le si addiceva affatto e che percepii come una cortesia che aveva deciso di concedere a me. Non risposi. Speravo attendesse la mia sentenza come io attendevo la sua voce stregata, che il mio silenzio avrebbe avuto per lei un senso occulto, come malato. La verità era che scappavo dalla morte imminente del mio cane, facevo un dispetto a Laura. La globalizzazione era poco più della sua maglietta girata al contrario, identica alla mia.

Prima di scendere dal treno Elisa mi chiese il numero, nel caso ci fossimo perse di vista. Era vero, somigliava a mia madre. Tutto il resto non era reale: i carabinieri in stazione, come ci guardavano, gli zaini dei ragazzi del vagone che forse nascondevano caschi e scudi: li aveva tirati fuori un amico di Elisa in treno, ma in treno era tutto diverso, ancora potevo scendere altrove. Giravano storie del terrore, palloncini di sangue infetto da gettare contro i poliziotti. Erano bugie, ma facevano paura. Mi pentii di essere lì, avevo quattordici anni e non credevo a niente. Non avevo un motivo per camminare a fianco a Elisa che mi lanciava occhiate sospette, come se da un momento all’altro potessi sfuggirle. E le sfuggii. Riuscii a mescolarmi tra la gente, era vero, ci somigliavamo tutti. Laura sarebbe arrivata di lì a un’ora. Aspettami, o fai come ti pare, tanto ti raggiungo. L’essere superata la terrorizzava: ero lì prima di lei, prima di lei avrei potuto vivere, raccontare. Mi appoggiai a una colonna del binario cinque, avevo dimenticato di portarmi da fumare. Owen non mi serviva. Non mi servivano le penne e le fotografie che si liberavano, cadendo, dai libri. Il tabacco sparso nello zaino, le monete inzaccherate di fumo e caramelle. A quell’ora Ira doveva essere già morta e mia madre piangeva sul divano al posto suo. Non ero lì con lei, non ero a Genova.

Mi sedetti a terra a guardare i treni passare. Arrivavano spediti e mi scompigliavano i capelli. Provai a convincermi che fosse il vento ad arruffarli, le urla dei manifestanti, il sole ci batteva sopra e alcune ciocche diventavano più rosse, brillavano. Poi qualcuno mi prendeva in braccio facendomi saltare in aria un paio di volte. Ero carina, lui somigliava a Greg Sage, forse ci baciavamo, non avevo paura. Rispondevo a tutte le domande e gli altri annuivano mentre parlavo. Anche Elisa. Non mi infastidiva essere d’accordo con qualcuno. Passò un altro treno, mi legai i capelli. Il telefono squillò più volte, non controllai chi fosse. I sassolini li lanciavo verso le rotaie, mirando ogni volta un punto diverso. Il fazzoletto accartocciato sulla linea gialla, la lattina di Sprite vicino alla rotaia, il portafoglio poi la cicca, il preservativo poi l’altra rotaia imbrattata da un segno rosso che scompariva nella ghiaia. Prendevo la mira e i sassolini colpivano l’obiettivo, e basta. Fare politica doveva somigliare a quello, lacrimogeni o palloncini di sangue, scegliere che cosa lanciare.

Quando Laura scese dal treno, mi nascosi dietro la colonna e la guardai agitarsi sulla banchina. Provava a chiamarmi, scrollava il capo ed era rossa in faccia, non aveva idea di dove andare. La vergogna ci attraversò sul binario. Camminava oltre la riga gialla per sentirsi almeno un po’ spericolata e io copiavo le sue mosse, dietro la colonna. Adesso si ammazza, pensai. Con Laura parlavamo spesso ai morti, scrivevamo poesie sui morti. Non avrei saputo più farlo senza di lei. Se si fosse buttata sotto un treno, avrei semplicemente ignorato la cosa. I morti arrivano a una certa età, prima non esistono, risorgono dalle rotaie o dalle piazze e continuano a camminarti accanto. Avremmo camminato. Lei si accorse di me quando un poliziotto mi avvicinò chiamandomi ragazzina. Mi chiese cosa ci facessi dietro la colonna, risposi che non andavo alla manifestazione e indicai Laura. Lei mi fece il dito medio e l’ovale del suo viso si allentò, tornò pallida, distesa. Siamo insieme, dissi, eravamo venute a vedere. Non c’è niente da vedere, disse lui, tornate a casa. La frase che mi diceva sempre mia madre ai funerali.

Circospetti ci muoviamo di Ivan Carozzi, Paola Ronco, Matteo Porru, Giuseppe Fabro, Valentina Maini, Nicoletta Vallorani, Orso Tosco, Veronica Galletta, Daniele Vicari, Roberta Covelli, Ndack Mbaye, Federico Zappini

Il mondo ha chiaro in mente quanto è successo a Genova nel luglio del 2001. Non è solo stata stroncata la vita di un ragazzo, e martoriata quella di innumerevoli altre persone, ma è stata soffocata sul nascere l’idea di un futuro comune. Il movimento plurale e molteplice che è confluito in quella Genova parlava dei temi che adesso condizionano la vita di ogni giorno: la globalizzazione, il cambiamento climatico, le grandi potenze da cui dipendiamo.

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