Chi scrive deve essere cattivo con se stesso. Conversazione con Francesco Piccolo
“Uno scrittore non è quello che parcheggia nelle strisce blu e poi va a mettere il tagliandino, lo scrittore, secondo me, deve parcheggiare sul marciapiede o mettere la macchina in seconda fila”, dice Francesco Piccolo, mentre siamo seduti uno di fronte all’altro, nel suo studio, in zona Ostiense, a Roma. In quel momento, ripenso alla mia macchina, al parcheggio che mi sono inventato un’ora prima, immagino una multa, che me la stiano portando via, ma poi ritorno in me, al fatto che questa è un’occasione speciale, che ho fatto un po’ quello che avrebbe voluto fare Holden, ho letto dei libri che mi sono piaciuti, che hanno illuminato il mio quotidiano, a volte letteralmente, visto che li ho letti sul Kobo, di notte, poco prima di addormentarmi, e ho scritto all’autore. Quante volte, leggendo i libri di Francesco Piccolo, ho pensato che avesse ragione, che io e lui, forse, avevamo avuto gli stessi pensieri, pur avendo due vite diverse. È vero, da romano, Roma non l’ho mai capita. E sì, anch’io mi sento come il voltaren e il super santos, non cambierò mai, mentre tutto quello che mi circonda continua a cambiare. E comunque, adesso, adesso siamo qui, dalla direct di Instagram alla vita.
Pensando ai tuoi libri, in generale, secondo te, sarebbe corretto parlare di autofiction?
L’autofiction è già di per sé un atto letterario, il fatto che la memoria sia affidabile o no a uno scrittore non gliene frega nulla. Poi, in casi come i miei, la domanda su quanto c’è di autobiografico è provocata da me, non dal lettore, che può dirlo anche per un romanzo di Philip Dick, è una sua curiosità. Però se un mio personaggio si chiama Francesco Piccolo, fa lo scrittore, lo sceneggiatore, non puoi non aspettarti quella domanda dal lettore. Della realtà vera, non interessa né a me né al lettore. Io faccio questa differenza, i cazzi miei sono i cazzi miei, i fatti che racconto, in quanto personaggio di un libro, sono quelli che metto di fronte al lettore. La memoria dev’essere affidabile dal punto di vista documentaristico, non puoi dire una cosa non vera se sei a contatto con una realtà oggettiva. Se stai facendo letteratura, non è che non interessa al lettore se quella cosa è vera o meno, non interessa neanche a te. Tu scrivi quello che vuoi scrivere, quello che ti importa di scrivere, quello che ti conviene scrivere, o meglio quello che non ti converrebbe scrivere, anche perché è quella la caratteristica di alcuni miei libri, andare a scavare nel buio. E questo buio se ce l’hai bene, se non ce l’hai te lo crei.
Il desiderio di essere come tutti mi ha fatto pensare ad Aprile di Nanni Moretti, con cui tu hai lavorato, per il modo in cui entrambi riuscite a conciliare la dimensione pubblica e quella privata, a farle convivere. Com’hai fatto a rendere tutto così naturale, così vivo?
Sì, è vero, il mio libro e il film di Nanni hanno intenzioni molto simili. La risposta alla tua domanda credo che stia nel concepimento di questo libro, che io mi porto dietro da quando ho cominciato a scrivere, da quando avevo sedici o diciassette anni. Ho sempre avuto una specie di pungolo, quello di scrivere un libro che non riguardasse solo me o solo il mondo, ma me e il mondo insieme. E ho cominciato pian piano a tenerlo a mente, a scrivere degli appunti. Quando ho visto Aprile, non mi ha rivelato un modo di fare un libro che non sapevo come fare, ma mi ha mostrato quello che io stavo cercando di concepire. Tra l’altro quello è il periodo in cui ho conosciuto Nanni, anche se abbiamo cominciato a lavorare insieme molti anni dopo. Credo che l’idea di portarsi un libro o un’idea di libro per tanti anni sia un valore, cioè l’autofiction, la scrittura di un libro personale non puoi concepirla a tavolino, è una cosa che a un certo punto cresce, anche un po’ tuo malgrado. Per esempio La separazione del maschio è un libro che io ho cominciato a scrivere mentre ne scrivevo un altro, che poi non ho mai pubblicato, e mi ha fatto capire che c’era un tipo di libro che faticavo a scrivere e ce n’era un altro che mi arrivava addosso e non potevo fare a meno di averci a che fare. Ci sono dei libri, come Il desiderio di essere come tutti, che ti accompagnano nel tempo, a un certo punto li devi scrivere. Io prendo appunti su dei libri che forse non scriverò, poi comincio a prendere appunti sempre sullo stesso libro e allora capisco che sarà quello che scriverò. Poi, io non credo di avere una formula, ma basta a me, se è un inganno inganna me e va bene, io cerco di tutelarmi dalla costruzione a tavolino di un’idea, dal dire che devo scrivere questa cosa perché forse può funzionare in questo momento. Anche perché l’espressione “in questo momento” con la letteratura non c’entra molto, pensa che L’animale che mi porto dentro era un libro a cui lavoravo da qualche anno e poi è uscito nei giorni del Me Too, e uno può prenderlo come una risposta, posso anche far finta che lo sia, ma in realtà erano quattro cinque anni che lo scrivevo.
Ne Il desiderio di essere come tutti, nella prima parte, parli del colera, che arriva, fa tremare tutti, e poi da un giorno all’altro sparisce, nessuno ne parla più. In questo periodo ho pensato spesso a quella parte e ho sperato che potesse succedere anche con il covid. Come hai vissuto questi due anni?
Sì, tra l’altro con il colera c’è anche quest’analogia dei vaccini, fu chiamata tutta Napoli a vaccinarsi e il colera fu debellato, ed è simbolicamente molto forte, è una storia che è stata ripresa tante volte contro quelli che non si vogliono vaccinare: i napoletani facevano la lotta per accaparrarsi il vaccino il prima possibile. E a proposito di quello che dicevamo prima, la tua vita privata è stata totalmente condizionata da un evento mondiale, e ognuno ha un condizionamento personalissimo. Per quanto mi riguarda, la sostanza della mia vita diurna, quella del lavoro, non è cambiata. Io sto qui, da solo o con qualcun altro, su zoom, distanziati, ma la sostanza della vita di uno che scrive, che sta da solo tutto il giorno, è cambiata poco. Parlo di abitudini, non di sostanza mentale, che invece è cambiata molto. Uno scrittore, come diceva Henry James, ha scritto sulla fronte sono un uomo solo, essere un uomo solo significa pure avere famiglia, figli, amici, ma la sostanza della tua vita e del tuo tempo è sempre la solitudine. Questa solitudine e il covid non hanno fatto a pugni, anzi. Come dice Woody Allen, ho fatto la stessa vita di prima, anche se sono cosciente che questo momento storico cambierà la percezione di un ritorno alla normalità.
Qual è la differenza, quali sono le differenze, tra la scrittura di un romanzo e la scrittura di una sceneggiatura? Oltre a quella, immaginabile, della solitudine da una parte della scrittura collettiva dall’altra. E com’è stato lavorare, tra i tanti, con Moretti e Virzì?
Virzì e Moretti danno il segno di questa caratteristica, perché con loro ho scritto sempre tutti i film insieme. Stavamo tutti là, parola dopo parola, chiacchiere, scene, personaggi, davanti al computer, e questo fa capire la forte differenza con la solitudine dello scrittore, che passa tutto il giorno da solo. L’esperienza dello scrivere insieme, alcuni la ritengono impossibile, altri, come me, la ritengono invece euforizzante, divertentissima, stimolante, costruire creatività con altri è una cosa molto potente, soprattutto se hai anche la tua parte farmacologica da solo. Quello che faccio io, comunque, è tentare di accorciare la distanza che c’è tra questi due mondi, per me non sono due mestieri diversi, è il mio lavoro fatto in due modi diversi. In una settimana, ma anche all’interno di una giornata, io cerco di fare tutte e due le cose, e non penso mai ci sia una gerarchia tra questi due lavori. L’apprensione per i risultati è paradossalmente più grande quando sei in compagnia, perché ti senti responsabile per gli altri, per un regista come Moretti, come Virzì, come Bellocchio, come Archibugi, come Luchetti, come Costanzo. Se facciamo, o anche se faccio io una cazzata, non la pago io soltanto, la pagano molte altre persone. Con i libri, mi sento più sicuro, più disinvolto, se faccio una cazzata la pago io e basta.
Quindi non c’è neanche una gerarchia emotiva, che ti fa sentire più felice se scrivi una bella scena del tuo nuovo romanzo rispetto a un’altra che scrivi in compagnia.
Alle volte mi chiedo se all’inizio era così, ma non so rispondermi. Il lavoro di sceneggiatore, però, è diventato così importante per me, come presenza emotiva nella mia vita, che questa gerarchia è soltanto di uno sguardo esterno, non è mia, non è interiore, io non ce l’ho. La verità è che questo lavoro io lo concepisco con tempi molto più lunghi, ho una tenuta psicologica, anzi psichiatrica, verso il lavoro, che non conteggia le cose buone e le cose cattive di oggi, ma conteggia l’anno, un po’ come fanno gli americani, quando conteggiano gli stipendi annuali, a differenza nostra che li calcoliamo mensili, qualche volta anche settimanali o giornalieri.
Su Goodreads sono andato a pescare due mini recensioni de L’animale che mi porto dentro. “Ironico, dolce, reale, come entrare nello stomaco di un uomo”, cinque stelle, e “incapacità di sintesi e di relativismo”, una stella. Che ne pensi? Che rapporto hai con i lettori?
In generale, per me l’idea di piacere a tutti possiamo scordarcela. L’animale che mi porto dentro è un libro fortemente problematico, contradditorio, per certi versi, dopo averlo scritto sapevo a cosa andavo incontro. Ma questo, poi, vale per tutti i libri, io cito sempre una ragazza che una sera mi ha detto che Pastorale americana era il libro peggiore che aveva letto nella sua vita, questo per far capire che chiunque può dire e pensare quello che vuole. Il mondo social, ovviamente, ha amplificato tutto questo. Io, pur amando e rispettando i lettori, credo di dover conservare un’autonomia, proprio per il rispetto che nutro nei loro confronti. Il tempo mi ha insegnato che ti arrivano mazzate, ti arrivano premi, e tutto questo non fa parte di quello che devi fare, casomai ne è la conseguenza. La tua concentrazione non può essere sulla conseguenza di quello che fai, ma dev’essere solo su quello che fai. Quindi, un po’ di impermeabilità è necessaria, alle critiche ma soprattutto ai complimenti, agli elogi. L’idea di osservare un po’ di distacco tutela la convinzione in quello che fai.
A proposito di questo, tempo fa ho parlato con un cantante che è andato a Sanremo che mi ha raccontato di aver censurato la sua canzone perché potessero accettarla. Visto che si è parlato molto di cancel culture, di quello che si può e non si può dire, ti capita oggi di dire “No, questo non lo scrivo”?
No, proprio no. È l’attacco più grande che si può fare a una persona che scrive. Le buone ragioni sono la vera bomba atomica sul tuo lavoro. Io, come scrittore, combatto fortemente questa cosa. Finora non mi è mai capitato di trovarmi in una situazione del genere, anche quando ho scritto proprio di questo argomento. Qualsiasi forma utile di questa lotta, perché ha delle ragioni serie per essere fatta, non riguarda il mestiere dello scrittore, così come non riguarda qualsiasi mestiere creativo. Il compito dello scrittore non è insegnare agli altri ad essere migliori, a ragionare su forme civili, lo scrittore non deve scrivere dei libri mentre fa anche delle petizioni per rendere l’umanità migliore, no, il compito dello scrittore è cercare di scrivere bene, e di essere un po’ cattivo, con se stesso prima che con gli altri, essere storto, non dritto. Uno scrittore non è quello parcheggia nelle strisce blu e poi va a mettere il tagliandino, lo scrittore, secondo me, deve parcheggiare sul marciapiede o mettere la macchina in seconda fila. La sua attitudine è quella. Il mio compito, da scrittore, non è dire: “Venite a me, vi porterò sulla buona strada”. No, io dico: “Non venite con me, perché io faccio cazzate”. E fare cazzate fa parte del mio mestiere.
A proposito di petizioni, c’è stata quella contro lo schwa.
Io ho trovato la soluzione anni fa, non firmo nessun tipo di petizione, credo di averlo anche scritto ne Il desiderio di essere come tutti. Non esiste nulla nelle petizioni che ti vogliono far firmare che di solito non sia giustissimo. La questione dello schwa invece la trovo assurda, ma casomai scrivo un pezzo che lo motivi, non firmo nessuna petizione, anche perché scriverne significa metterci la faccia, mettersi in gioco.
Quindi sei contrario allo schwa?
Contrario è poco. Stiamo parlando di uno scrittore che, invece di cercare di scrivere la cosa migliore che può, deve stare attento a queste cose. A cinquantasette anni, devo mettermi lì con il dito a indicare e a dire qui lo devo mettere, qui no, ma siamo pazzi? La scrittura è un atto totalmente individuale, non oggettivo, non civile, e ti sto parlando da scrittore, anche se pure da cittadino non mi piace lo schwa. Come scrittore l’assunto fondamentale è il seguente: nessuno mi può rompere il cazzo, scrivo come mi pare.
Da Il desiderio di essere come tutti, com’è cambiato il tuo rapporto con la politica?
Alcune categorie, destra e sinistra, conservatori e progressisti, democratici e repubblicani, esistono ancora. Sicuramente, come racconto in quel romanzo, mi sono accorto della fine di un’idea, della trasformazione della sinistra in una forza reazionaria, e quindi è lì che sorgono le prime grandi confusioni. La politica mi appassiona da quando ero ragazzino, per un periodo ho scritto di politica sull’Unità, mi ha appassionato scrivere questo libro, mi continua ad appassionare allo stesso modo. Ne scrivo poco, quasi niente, perché l’avvento del Movimento Cinque Stelle ha cambiato dei parametri di comprensione, come se io capissi di meno, e se tu capisci di meno cominci a parlare, a scrivere di cose un po’ condivise da tutti, e allora è inutile scriverne. Il Movimento Cinque Stelle è partito dal nulla, per diventare una cosa gigantesca, e adesso piano piano sta tornando verso il nulla. Questa è una caratteristica della politica degli ultimi anni, che le cose si consumano rapidamente, basta pensare a Renzi, ai Cinque Stelle, forse anche Salvini si sta consumando rapidamente. Quando Berlusconi è stato eletto, tutti abbiamo pensato: “Oddio, adesso chissà per quanti anni rimarrà lì”. Ed effettivamente è stato così. Questa, per così dire, “rapidizzazione” della parabola politica la rende più difficile da interpretare, è diventata più complessa. E se è così, è bene scrivere quando ti sembra di avere da dire davvero qualcosa di interessante, che non confermi semplicemente quello che già pensano tutti.
Nel volume di The Passenger (pubblicato da Iperborea) dedicato a Roma, tu hai scritto degli appunti per un eventuale libro sulla città. Dici che Roma, i romani, non la capiscono, e che anche tu non sai se la capirai mai. Che rapporto hai tu con Roma?
Io Roma la amo moltissimo. La vitalità, secondo me, nasce dal fatto di non aver ancora capito qualcosa. Il fatto di non aver ancora capito Roma è utile per continuare a cercare, a indagare, e forse cercare di capirla è un atto sostanzialmente inutile. Mi piace molto tornare da una cena, in motorino, in taxi, attraversare Roma di notte, magari dopo che ha piovuto, e mi sembra di provare lo stesso stupore di quando sono arrivato, quasi trent’anni fa. Se ci penso, sono di più gli anni che ho vissuto a Roma, che quelli vissuti a Caserta, da cui, comunque, me ne sono andato tardi.
In Momenti di trascurabile infelicità, racconti un aneddoto divertente su Giorgio Napolitano, legato alla cerimonia dei David di Donatello. Tu ne hai vinti tre, hai vinto quattro Nastri D’Argento, il Premio Strega. Come ci si sente, dopo? Consapevoli? Appagati? Arrivati?
La consapevolezza arriva da tante parti, anche dai premi. Io non voglio dire che sono indifferente, essere impermeabile significa che uno può essere felice se qualcosa va bene o rimanerci male se non va come immaginavi, ma deve durare pochissimo, il tempo di una notte va bene, la mattina dopo sei sempre lo stesso. I premi sono una cosa che valgono molto per il mondo esterno, ma queste sono cose che non ti puoi mettere sulla divisa, sul petto, come fossero delle medaglie. Vincere il Premio Strega mi è stato utile perché, non so nemmeno bene perché sia successo, ha fatto venire una grande energia. Forse perché un po’ di conferme fanno bene. Comunque penso sempre che c’è tempo per diventare tronfi, per ora è meglio concentrarsi su quello che stai facendo e che vorrai ancora fare. Se ami molto questo mestiere, l’unica cosa che ti interessa è poter continuare a farlo. Se stai nel baratro o sul trono, l’unica cosa che pensi è: speriamo che me ne fanno fare un altro - questo vale per tutto, per i film, per i libri, per gli articoli. Bisogna spendersi al massimo, è l’unica strada possibile. Io sono stato anche fortunato, ho dato il mio primo racconto a Starnone al Salone del libro, se non gliel’avessi dato chissà. Non puoi essere sicuro di far bene, ma puoi essere sicuro di volerlo fare.
E adesso, cosa stai scrivendo?
Sto scrivendo il nuovo romanzo, immagino di chiuderlo entro la fine dell’anno. So che alcuni parlano dei loro libri mentre li stanno scrivendo, ma per me è impossibile, c’è come una sorta di pudore, mi sentirei uno scemo a farlo. Sto scrivendo anche la quarta stagione de L’amica geniale. Poi ci sono altre cose, meno sicure, quindi preferisco non dire nulla.
Il desiderio di essere come tutti
I funerali di Berlinguer e la scoperta del piacere di perdere, il rapimento Moro e il tradimento del padre, il coraggio intellettuale di Parise e il primo amore che muore il giorno di San Valentino, il discorso con cui Bertinotti cancellò il governo Prodi e la resa definitiva al gene della superficialità, la vita quotidiana durante i vent'anni di Berlusconi al potere, una frase di Craxi e un racconto di Carver... Se è vero che ci mettiamo una vita intera a diventare noi stessi, quando guardiamo all'indietro la strada è ben segnalata, una scia di intuizioni, attimi, folgorazioni e sbagli: il filo dei nostri giorni.
Visualizza eBookMomenti di trascurabile felicità
«Entro in un negozio di scarpe, perché ho visto delle scarpe che mi piacciono in vetrina. Le indico alla commessa, dico il mio numero, 46. Lei torna e dice: mi dispiace, non abbiamo il suo numero.
Poi aggiunge sempre: abbiamo il 41.
E mi guarda, in silenzio, perché vuole una risposta.
E io, una volta sola, vorrei dire: e va bene, mi dia il 41».
L'animale che mi porto dentro
«Quello che tenevo compresso dentro di me, nell'ora di educazione fisica o durante i film di Maciste, o certe sere quando andavo a dormire e avevo paura, era l'angoscia di dimostrare di essere maschio. Doverlo far vedere a tutti, ogni ora, ogni giorno, ogni settimana. E ogni volta misurare la mia inadeguatezza».
Giorgio Biferali (Roma, 1988) ha pubblicato A Roma con Nanni Moretti (Bompiani, 2016), una sorta di diario di viaggio scritto insieme a Paolo Di Paolo; Italo Calvino. Lo Scoiattolo della penna, un racconto illustrato per ragazzi (La Nuova Frontiera Junior, 2017); L’amore a vent’anni, il suo romanzo d’esordio (Tunué, 2018), presentato al Premio Strega; Il romanzo dell’anno (La Nave di Teseo, 2019). Quest’anno ha pubblicato Cose dell’altro mondo, una raccolta di microracconti illustrati da Elisa Puglielli (Edizioni Clichy) e la Guida tascabile per maniaci delle serie tv (Edizioni Clichy). Collabora con quotidiani e riviste culturali, dove si occupa principalmente di cultura pop, e insegna Italiano e Storia in un liceo.