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Guerra e pacifismo. Una storia millenaria

Di Francesco D'Isa • aprile 05, 2022

​​L’oggetto della guerra non è quello di prevenire o di fare conquiste territoriali, bensì quello di mantenere intatta la struttura della società. (G. Orwell)

Tra i tanti orrori causati dall’uomo, solo uno è peggiore di una guerra, una guerra più grande – quanto a sofferenza, infatti, la guerra non ha rivali, forte di un’iperbole che coincide con quella dello sviluppo tecnologico. A opporsi ad essa c’è un’idea che tutti lodano e tutti deridono: il pacifismo.

Prima di accennare a chi nei secoli ha contribuito allo sviluppo e alla critica di questo concetto voglio esplicitare la mia posizione. Finora ho avuto la fortuna di non vivere mai una guerra, ma se dovesse accadere vorrei aderire il più possibile a quel che credo, anche se sono certo di non averne la forza. Il mio pacifismo è piuttosto semplice e mi impone solo di minimizzare il dolore, di chiunque esso sia. Secondo questo principio, posso uccidere solo per difendermi o proteggere qualche persona che soffrirebbe più di chi uccido. Di conseguenza non ricorrerei mai alla violenza per difendere la patria – qualunque essa sia – se non fossi certo che si tratti dell’unico modo per evitare un regime che nel tempo causerebbe più dolore di una guerra. È un principio severo, che mi imporrebbe di accettare un’ora di tortura per evitarne due a una persona sconosciuta, o persino antipatica, ma che sia difficile non significa che sia sbagliato. Questo è il pacifismo che vorrei avere la forza di portare avanti, perché, come scrive Roberta Covelli a proposito di nonviolenza in Potere forte, «nonostante l’apparente debolezza, è necessario un profondo coraggio per vivere questo metodo etico». L’autrice cita in seguito Joan Bondurant, spia durante la Seconda guerra mondiale e seguace di Gandhi, quando scrive che «la nonviolenza è il culmine del coraggio [...]. Non lascia posto alla viltà e neppure alla debolezza: la nonviolenza va annunciata a coloro che sanno morire, non a coloro che temono la morte. Proprio come nell’allenamento alla violenza uno deve imparare l’arte di uccidere, così nell’allenamento alla nonviolenza uno deve imparare l’arte di morire. Chi non ha superato ogni paura, non può praticare la nonviolenza alla perfezione».

Superare ogni paura è un augurio che accomuna Bondurant a sapienti del passato come Buddha, Laozi o Zhuāngzǐ. Una delle teorizzazioni più antiche del pacifismo, infatti, si trova proprio nell’opera del padre del Taoismo, Laozi, che intitola il trentunesimo capitolo del suo Tao Te Ching “Le armi non sono strumenti di buon auspicio”.

Il capitolo inizia così:

Dunque le belle armi

non sono strumenti di buon auspicio.

Fra gli esseri alcuni le detestano.

Perciò colui che ha il Dao non vi si sofferma. Il nobile a casa onora la sinistra,

in guerra onora la destra.

Le armi non sono strumenti di buon auspicio,

non sono strumenti del nobile. Non cercare di finire il nemico

ma usare le armi con moderazione è la norma suprema.

La versione taoista del pacifismo ricorda quello che viene definito “pacifismo contingente”, ovvero l’idea per cui le guerre siano da evitare in quasi tutte le circostanze – una forma più moderata del “pacifismo assoluto”, per cui ogni forma di violenza va sempre rifiutata. Un altro esempio di antico pacifismo contingente è quello di Platone, che nelle Leggi sosteneva che la guerra è tollerabile solo per ottenere la pace (803d). Anche nel Critone Platone tocca il tema della violenza, quando Socrate si domanda se sia mai giustificato rispondere al male col male. Qui la soluzione proposta sembra più vicina al pacifismo assoluto, perché il filosofo sostiene che qualunque sia il male subito, non dobbiamo mai vendicarci né rispondere al male col male. (49d).

Una versione più antica del pacifismo assoluto si trova a Oriente, tra i seguaci del jainismo, una religione di origine indiana che si basa sugli insegnamenti di Mahāvīra (599-527 a.C). Fedeli alle antiche tradizioni indiane, i jainisti credono nella reincarnazione, ovvero l’idea che l’anima sia prigioniera del ciclo di esistenze da cui è possibile liberarsi solo mediante l’illuminazione. Per raggiungerla è necessario che il proprio karma sia libero dalle influenze nefaste degli atti malvagi compiuti nelle numerose vite precedenti; un dettame che i monaci jaina seguono con la massima coerenza, mediante l’ascesi, il rifiuto della proprietà privata e l’adesione a un principio di nonviolenza (ahiṃsā) esteso a qualunque essere vivente, persino gli insetti, che cercano di non calpestare spazzando la terra dove camminano. I jainisti sono anche tra i primi antispecisti, se, come scrive Leonardo Caffo in Fragile umanità, «essere specisti significa considerare la vita della propria specie come l’unica vita tutelabile da un punto di vista morale anche se esistono − pensiamo a come trattiamo un cane diversamente da un maiale − diverse gradazioni di tutela». Per chi segue il jainismo ogni essere vivente merita la medesima cura e se si considera la natura violenta di gran parte delle funzioni vitali di un organismo, non stupisce che questa religione attribuisca un grande merito alla morte per fame. È un gesto estremo, che in Occidente ci riporta alla filosofa Simone Weil quando, in Attesa di Dio, scrive che «se Eva causò la rovina dell’umanità mangiando il frutto, l’attitudine opposta, guardarlo senza mangiarlo, potrebbe essere quanto occorre per salvarla». Al culmine della sua vita, la filosofa, malata di tubercolosi, rifiutò quasi completamente il cibo, nutrendosi solo di un tuorlo d’uovo con un po’ di zucchero o qualche ciliegia.

Meno estremo ma più antropocentrico è il pacifismo assoluto del Cristianesimo, forse il più antico in Occidente. Se ne trovano espliciti richiami nei Sermoni della Pianura, in cui Gesù dice: «Amate i vostri nemici. Non giudicate, e non sarete giudicati; non condannate, e non sarete condannati; perdonate, e vi sarà perdonato», come anche nei Sermoni della Montagna: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti». (5, 43 – 48; 1974). E ancora, nella rilettura dell’insegnamento biblico: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. A questo punto io vi dico di non seguire assolutamente la logica del malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra [...]. (5, 38 – 39; 2007)» .

Quella del pacifismo assoluto è una via difficile e non stupisce che il pacifismo contingente abbia più seguaci tra i laici, tra cui Albert Einstein e Bertrand Russell. Entrambi erano pacifisti, ma anche sostenitori della guerra contro la Germania nazista. Durante la prima guerra mondiale il filosofo britannico era vicino al pacifismo assoluto, ma quando nel 1918 viene messo in prigione con accuse legate alla sua attività pacifista, ammette di aver già perso le speranze nei confronti del ricorso alla non-violenza. La seconda guerra mondiale conferma il mutamento di opinione: «Ero riuscito a immaginare con acquiescenza, sia pure riluttante, la possibilità di una supremazia della Germania del Kaiser, ritenendo che, per quanto potesse essere un malanno, non sarebbe stato un male così grave come una guerra mondiale con tutte le sue conseguenze. Ben altra cosa era la Germania di Hitler. Provavo una indicibile ripugnanza per i nazisti: crudeli, fanatici e stupidi. Mi erano odiosi, non meno moralmente che intellettualmente. Benché mi aggrappassi ancora alle mie convinzioni pacifiste, lo facevo con sempre maggior difficoltà e, quando, nel 1940, la minaccia di un’invasione pesò sull’Inghilterra, compresi che per tutta la prima guerra non avevo mai seriamente contemplato la possibilità di una disfatta totale. Questa idea mi era insopportabile e finalmente, in piena coscienza, decisi che era mio dovere appoggiare tutto ciò che pareva necessario per il conseguimento della vittoria, per quanto difficile si presentasse e per quanto fossero dolorose le conseguenze prevedibili della seconda guerra mondiale».

Questo approdo, che Russell chiamò “pacifismo politico relativo”, ha dei punti di contatto con l’idea di minimizzare il dolore di cui parlavo in apertura, secondo la quale esistono casi in cui un regime può causare nel tempo più sofferenza di una guerra. Il filosofo però sapeva che «ben poche guerre valgono la pena di essere combattute, e i mali della guerra sono quasi sempre maggiori di quanto sembrino alle popolazioni eccitate nel momento in cui la guerra scoppia».

Il pacifismo contingente mi riporta a un classico contemporaneo sulla guerra, Guerre giuste e ingiuste di Michael Walzer, dove il filosofo suggerisce una quadripartizione dei conflitti in guerre giuste, guerre ingiuste, modi di combatterle giusti e modi ingiusti. Per Walzer sono dunque possibili delle guerre ingiuste combattute in modo giusto (ad esempio un’invasione che risparmia i civili) e guerre giuste combattute in modo ingiusto (come una resistenza combattuta uccidendo civili). Nella sua prefazione al libro del 2015 il filosofo scrive che «gli insorti dovrebbero essere condannati quando attaccano i civili o quando mettono deliberatamente in pericolo i civili; dovrebbero essere lodati e sostenuti quando lottano, in condizioni di potere asimmetriche, per combattere in modo giusto. L’esercito dovrebbe essere condannato quando non riesce a fare tutto ciò che può fare, in condizioni di potere asimmetriche, per evitare di uccidere i civili, e dovrebbe essere lodato e sostenuto quando segue regole morali di ingaggio».

Un’altra forma di pacifismo contingente è quello del filosofo tedesco Immanuel Kant, che col suo tentativo di fondare il pacifismo su una base morale e razionale ha notevolmente influenzato i pensatori dell’Illuminismo europeo. Per Kant alla base del pacifismo ci sono gli imperativi categorici di ogni individuo, come ad esempio il celebre “agisci secondo quella massima con la quale puoi allo stesso tempo volere che diventi una legge universale”, o, in modo più preciso, “agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. L’interpretazione pacifista della massima è che la guerra tratta le persone come mezzi e non le rispetta come fini in sé. Coerentemente alla sua – direi eccessiva – fiducia nella ragione, Kant sostiene nel suo trattato Progetto per la pace perpetua che la pace può esistere solo grazie alla diffusione degli Stati liberali, in cui si divide il potere legislativo, esecutivo e giudiziario e dove regna il Parlamento, che, se davvero rappresenta il popolo, sceglierà la guerra solo quando è inevitabile. Norberto Bobbio parla di Kant come di un “pacifista giuridico”, perché individua la principale causa delle guerre nello stato di anarchia internazionale e affida la loro eliminazione all’istituzione di una comunità giuridica fra gli stati. La massima di Kant è che «nessuno Stato può intromettersi con la violenza nella costituzione e nel governo di un altro Stato», da cui consegue in linea teorica la scomparsa della guerra, ma anche l’impossibilità di intervento di terzi qualora uno stato attacchi un altro.

L’utopia del filosofo tedesco è la scomparsa dei confini nazionali, ma nonostante la sua fiducia nel genere umano è consapevole della difficoltà del compito, quando scrive: «Per gli Stati, nel rapporto tra loro, è impossibile secondo la ragione pensare di uscire dalla condizione della mancanza di legge, che non contiene altro che la guerra, se non rinunciando, esattamente come fanno i singoli individui, alla loro selvaggia libertà (senza legge), sottomettendosi a pubbliche leggi costrittive e formando così uno Stato dei popoli (civitas gentium), che dovrà sempre crescere, per arrivare a comprendere finalmente tutti i popoli della Terra. Ma poiché essi, secondo la loro idea di diritto internazionale, non vogliono assolutamente una cosa del genere, rifiutando quindi in ipothesi ciò che è giusto in thesi, allora al posto dell’idea positiva di una repubblica universale (se non si vuole che tutto vada perduto) c’è solo il surrogato negativo di un’alleanza contro la guerra, permanente e sempre più estesa, che può trattenere il torrente delle tendenze ostili e irrispettose di ogni diritto, ma nel costante pericolo che questo torrente dilaghi».

Per evidenziare le sue radici etiche, il pacifismo viene anche diviso in religioso e politico, sebbene esistano forme ibride, come quella di Tolstoj, che aveva una base religiosa ma includeva istanze politiche. In Il regno di Dio è in voi (1893) lo scrittore russo scrive che «La storia dell’umanità è piena di prove che la violenza fisica non contribuisce all’innalzamento morale e che le cattive inclinazioni dell’uomo non possono essere corrette che dall’amore». Il suo pensiero è confluito nella formazione del più celebre pacifista della storia recente, Mohandas K. Gandhi (1869-1948), assieme a quello di Thoreau, del cristianesimo e naturalmente dell’induismo. A partire dal concetto indiano di ahiṃa (non nuocere) Gandhi conia quello di satyagraha (insistenza per la verità), secondo il quale è necessario che ogni essere umano difenda le proprie concezioni morali e politiche senza fare ricorso alla violenza, neppure nel caso che questa sia usata nei suoi confronti. Il satyāgraha è sia un principio etico-politico che una strategia per affrontare i conflitti sociali; tratteggiarne pregi e difetti ci porterebbe lontano, ma è indubbio che abbia avuto un peso notevole per il successo del movimento indipendentistico indiano.

Questo mi porta alle principali critiche rivolte al pacifismo, in merito alle quali si può trovare una disamina piuttosto esaustiva qui e qui. Mi limiterò adesso a prendere in considerazione quella che mi sembra la più comune e insidiosa, ovvero l’obiezione secondo la quale il limite del pacifismo è il fatto che la guerra potrebbe essere usata per difendere gli innocenti e sostenere un giusto ordine internazionale. Questa obiezione può essere applicata sia alle guerre difensive, in cui lo stato ha l’obbligo di proteggere i propri cittadini, sia a quelle di intervento umanitario, in cui il potere militare è usato per difendere i diritti umani. Diretta conseguenza – se non sottinteso – di questa critica è l’affermazione che i mezzi nonviolenti sono inefficaci. In sintesi quel che si sostiene è che esistono situazioni peggiori di una guerra e che quest’ultima potrebbe risolverle, laddove una risposta nonviolenta non può farlo.

Chi sposa questa critica si appella in genere alla sua ovvietà, ma se si analizza la storia la questione è tutt’altro che banale. Non sono uno storico, dunque mi limiterò a proporre un caso a titolo di esempio, anche perché viene citato spesso da chi critica il pacifismo: il nazismo. Il nazismo è comprensibilmente assunto a regime malvagio per antonomasia ed è difficile considerare ingiusta la guerra contro di esso – personalmente non ci riesco e anche da pacifista sono grato alla resistenza partigiana. La storia però va indagata anche in ciò che non è accaduto, ovvero le possibili evoluzioni che questo regime avrebbe subito a seguito di compatte lotte nonviolente. Il caso della Danimarca è esemplare; come scrive Covelli, «esistono azioni di opposizione alla guerra e all’occupazione militare che coinvolgono la popolazione in maniera compatta. Quante vittime hanno procurato i governi collaborazionisti durante l’invasione nazista? Certo non è il caso della Danimarca, dove all’apparente collaborazione iniziale, con la firma pressoché immediata da parte del re Cristiano X della resa all’occupazione nazista, si accompagna il netto rifiuto di ogni imperativo antisemita: quando le nuove leggi del Terzo Reich impongono di indicare sui negozi l’appartenenza ebraica, sono molte le saracinesche a riportare la dicitura, senza alcuna attinenza con l’origine etnica o religiosa dei negozianti, e quanto all’obbligo di indossare la stella di David gialla sugli indumenti, bastano le minacce del re di indossare egli stesso, per primo, il simbolo ebraico, a far desistere le autorità naziste dai loro propositi discriminatori. Poco dopo, però, quando la Soluzione finale sembra imminente, si pretende che i progetti di sterminio trovino attuazione anche in Danimarca, e viene imposta l’immediata deportazione degli ebrei. Il proposito tuttavia non tiene conto della caparbia organizzazione popolare: grazie al passaparola, all’accoglienza e alla disponibilità della popolazione, si provvede a far scappare quasi ottomila ricercati, – la quasi totalità della popolazione di ebrei danesi – attraverso lo stretto di Oresund, in direzione della neutrale Svezia».

Un libro di Andrea Vitello uscito di recente per Le Lettere, Il nazista che salvò gli ebrei, dimostra in modo efficace come il rifiuto di deportare gli ebrei in Danimarca era spesso sposato anche dagli ufficiali nazisti.

In effetti non possiamo sapere se il nazismo poteva essere ostacolato con minore sofferenza grazie all’azione nonviolenta, ma per quanto l’ipotesi possa sembrarci assurda, prima di scartarla dovremmo prendere in seria considerazione i dati che abbiamo, sia relativamente all’efficacia della nonviolenza che, soprattutto, riguardo ai danni della seconda guerra mondiale – una vittoria ottenuta al prezzo della totale devastazione di popolatissimi centri urbani. Un altro elemento da vagliare è la possibile mitigazione che avrebbe vissuto il regime nazista (o altri analoghi) in tempo di pace, in caso di infausta vittoria. Presto o tardi Hitler sarebbe morto e forse delle frange più moderate e adatte a tempi di pace potrebbero aver preso il sopravvento, o delle proteste avrebbero potuto influire sulla sua linea post-bellica… si tratta di speculazioni, anche molto estreme, dunque non vanno prese alla lettera: le propongo solo per suggerire che ciò che ci sembra ovvio potrebbe non esserlo. Quando si risponde con la guerra alla guerra viene sempre detto che “non c’è alternativa” e ci precludiamo così ogni possibilità di sapere se è la verità, ma questa convinzione non ci autorizza a sostenere che la scelta presa sia stata quella giusta – tanto più se è una scelta che implica morte, sofferenza e distruzione. Se la guerra può essere tollerata solo quando è il male minore, è realistico pensare che questo accada nella minoranza dei casi. Non suggerisco di porgere sempre l’altra guancia, io stesso non lo farei, ma sebbene il pacifismo sia una via impervia, tanto che chi lo professa non sempre riesce a seguirlo, è possibile avere nei suoi confronti un approccio etico più malleabile e non considerarlo una meta quanto un percorso. Chi combatte una guerra impara a odiarla o impazzisce, ma più questo dolore viene vissuto anticipatamente, più sarà possibile evitarlo. Dobbiamo operare una drastica eradicazione della guerra dai nostri antichi nervi, se vogliamo che si presenti il meno possibile, soprattutto in un futuro che sappiamo condizionato dall’inasprirsi delle crisi climatiche – la malattia di cui i conflitti contemporanei sono spesso un sintomo. Forse il perfezionismo del jainismo è un’utopia irrealizzabile, o ha un prezzo troppo alto, ma la sua esistenza ci suggerisce che è possibile tentare un passo in quella direzione, con la consapevolezza che sebbene il percorso sia accidentato e il traguardo troppo lontano, nell’altra direzione c’è quanto di peggio abbia mai fatto e vissuto l’umanità.

Guerra e pace di Lev Tolstoj

«Temo la morte di Tolstoj. Se lui morisse, nella mia vita resterebbe un grande vuoto. Primo, non amo nessuno quanto lui: non sono credente, ma fra tutte le fedi è proprio la sua che ritengo piú vicina e adatta a me. Secondo, finché nella letteratura c'è Tolstoj, è facile e piacevole essere un letterato; perfino essere cosciente di non aver fatto e di non fare nulla non è cosí spaventoso, perché c'è Tolstoj che fa per tutti».

Anton Čechov

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Consegnare al pubblico un’edizione integrale di Platone – in un unico volume – è una risposta nuova e di grande rilievo a una sfida intellettuale che dura da oltre venti secoli. Il contatto diretto con gli scritti platonici è un’esperienza di straordinaria ricchezza. Nei dialoghi di Platone vengono a fondersi tutte le precedenti tendenze del pensiero greco ma soprattutto si afferma il primato di un’inesausta ricerca della verità su ogni facile e presunta “affermazione della verità”.

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Francesco D’Isa (Firenze, 1980), di formazione filosofo e artista visivo, dopo l’esordio con I.(Nottetempo, 2011), ha pubblicato romanzi come Anna (effequ 2014), Ultimo piano (Imprimatur 2015), La Stanza di Therese (Tunué, 2017) e saggi per Hoepli e Newton Compton. Direttore editoriale dell’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste.

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