I mille volti di Joseph Campbell
Trasmetti ciò che imparato hai: vigore, controllo. Ma debolezza, follia, fallimento, anche. Sì, fallimento, soprattutto! Il più grande Maestro, il fallimento è. Noi siamo il terreno su cui loro crescono. Questo è il vero fardello di tutti i Maestri.
Yoda
Per festeggiare la fine del 2020 la mia compagna e io abbiamo deciso di dedicare la notte tra il trentuno dicembre e il primo gennaio alla visione integrale della trilogia originale (Episodio IV, V e VI) della saga di Star Wars.
Potrebbe essere un’occasione più unica che rara per cogliere il meglio dalle contingenze. E devo ammettere che la cosa non mi dispiace affatto. Anzi, volendo prepararmi al meglio per questa avventura avevo ripreso in mano il libro che ha ispirato il regista George Lucas: L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell.
Un testo colmo di sapienza, ispirato dalle muse.
Qualche tempo dopo mi è stato commissionato un saggio nel quale avrei dovuto parlare di un’icona raffigurante Arpocrate, il dio del silenzio nel mondo latino e greco. Tra i molti libri che ho dovuto consultare, alla ricerca di informazioni su questa divinità, diversi sono stati scritti da Joseph Campbell. E quando poi mi sono messo a scrivere è stato del tutto naturale accostare le sue parole a quelle di Aby Warburg e Cassirer, di Pavel Florenskij, Mircea Eliade e Ioan P. Culianu, poiché, a onor del vero, Joseph Campbell fa sicuramente parte di questa genia di autori straordinari che hanno esplorato la dimensione del sacro, da punti di vista molto diversi ma confluendo di frequente in uno stesso sentiero. Arrivando talvolta a conclusioni molto simili.
La gente dice che stiamo cercando solo di dare un senso alla nostra vita. Ma io non credo che ciò che cerchiamo davvero sia questo, quanto piuttosto l’esperienza dell’essere vivi, così che le nostre vite fisiche abbiano una risonanza interiore e ci facciano provare il rapimento del vivere. Questo è tutto ed è ciò che le tracce mitiche ci aiutano a ritrovare dentro di noi.
(Il potere del mito. Intervista di Bill Moyers di Joseph Campbell)
Ecco le parole che riportavo nel saggio. Sono tratte dalla famosa intervista che Bill Moyers fece a Joseph Campbell nel 1987, trasmessa dalla PBS l’anno successivo. Penso sia interessante sapere che la serie venne prodotta da George Lucas e inizialmente fu filmata proprio allo Skywalker Ranch in California. Poco dopo Joseph Campbell morì. L’intervista fu trasmessa in sei puntate, della durata di un’ora ciascuna. Le sei ore di conversazione, tenute dall’incredibile oratore che – soprattutto – era Joseph Campbell, divennero leggendarie ed ebbero una enorme risonanza, lo resero famoso in tutto il mondo.
Questa, probabilmente, è la prima differenza tra Campbell e la maggior parte dei suoi colleghi: i suoi insegnamenti arrivarono a tutti, indiscriminatamente. Ciò che invece le sue parole hanno in comune con quelle degli altri studiosi del mito, è che spesso veicolano un messaggio importante e profondo: «I miti sono le tracce che ci guidano verso le potenzialità spirituali della vita umana». Ora, immaginate: centinaia di migliaia di persone in ascolto di uno dei più grandi studiosi di mitologia e storia delle religioni di tutti i tempi, che dialoga brillantemente con un illustre giornalista sul tema del potere che possono avere i miti, per noi, oggi. Mi sembra già di per sé un’impresa straordinaria, eppure, è solo un assaggio di quello che Campbell è riuscito a fare.
«Insegnava, come fanno tutti i grandi maestri, per mezzo di esempi» ci dice Bill Moyers. L’altro giorno, parlando con un amico al telefono, ci stavamo divertendo a definire tutti questi encomiabili studiosi di mitologia. Lo facevamo abbastanza goliardicamente ma con un fondo illuminante di verità. Si diceva che Joseph Campbell, nel pantheon di questi autori, è una specie di nonnino. La figura archetipica è quella del vecchio saggio seduto davanti al fuoco a raccontare storie. Campbell non cercava di convincere nessuno delle sue idee, semplicemente amava raccontare quello che sapeva: miti, leggende, storie di vita vera, piccoli aneddoti. Ed è questo ad averlo reso così celebre. Lasciava che i miti parlassero da soli.
In questo senso mi viene in mente un’opera unica nel suo genere, Confessioni estatiche di Martin Buber. Nel caso specifico, tra l’altro, è stato Robert Musil, invece che George Lucas, a trarne ispirazione – e interi brani – per il suo capolavoro, L’uomo senza qualità. In questo libro Buber semplicemente raccoglie testimonianze scritte sull’estasi. Senza nessun commento, raggruppandole in paragrafi per affinità geografica e culturale. Vuole forse dirci che tutte le esperienze di picco si equivalgono nello spazio e nel tempo?
Allo stesso modo: Campbell vuole forse dirci che tutte le storie della mitologia di tutti i tempi dicono la stessa cosa?
La risposta a questa domanda è abbastanza palese già nel prologo del primo libro di Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti. Il prologo era difatti intitolato «Il monomito», ovvero l’idea teorica centrale di Campbell e anche la più criticata.
A una lettura superficiale sembrerebbe evidente: sì, esiste un solo mito che racchiude tutti i miti: il monomito. Tuttavia, l’approccio di Campbell, lungi da questa becera interpretazione grossolana, si compone di una più profonda complessità. Per comprenderlo ci viene in aiuto la prefazione che scrisse all’edizione de L’eroe dai mille volti del 1949, nella quale ci ricorda dell’importanza di imparare nuovamente a leggere il linguaggio simbolico dei miti, attraverso la psicoanalisi. Riducendo quindi tutti i racconti mitologici a una stessa matrice psicologica interna a ogni essere umano. Precisando, però, di non considerarla «l’ultima parola sull’argomento».
Non è vero che Campbell voleva ridurre tutti i differenti e misteriosi significati delle mitologie di ogni tempo e luogo a un mero senso psicologico. Questo era il suo approccio e, per sua stessa ammissione, aveva dei limiti.
Sono dell’idea che Joseph Campbell sapesse benissimo che qualsiasi approccio avrebbe avuto delle grosse falle, sistematiche, nell’interpretazione del linguaggio simbolico contenuto nei miti. Risulta evidente, per esempio, nelle scelte stilistiche e nel linguaggio, spesso smaccatamente poetico, col quale esprimeva questi argomenti e raccontava le sue storie. «Lasciare che i simboli parlino da soli», questo cercava di fare, questo era il suo obiettivo, la sua missione: esprimere il mistero del mito, più che spiegarlo.
In ogni caso, non mi sarei mai convinto a scrivere di lui se non fosse stato per il fatto che diversi editori si stanno dando da fare per pubblicare e ripubblicare il suo lavoro in italiano. Dall’encomiabile sforzo di case editrici come Lindau (L’eroe dai mille volti, Sulla via del mito e Il volo dell’anitra selvatica) e Venexia (Miti per vivere, Il romanticismo del Graal e Miti di luce) alle importanti pubblicazioni di nottetempo (Le distese interiori del cosmo, 2019) e Tlon (Dee, 2020); dopo decenni l’opera di Joseph Campbell è ancora vitale e soprattutto si tratta di un pozzo senza fondo.
Joseph Campbell ha scritto diversi libri, di cui probabilmente il più importante è l’opera in quattro volumi intitolata Le maschere di Dio, oggi pressoché introvabile integralmente in lingua italiana. Inoltre, ha tenuto moltissime conferenze e scritto decine di saggi e articoli. Alcuni suoi libri, come il celebre Il volo dell’anitra selvatica, sono delle raccolte di saggi e altre, come Le distese interiori del cosmo, mettono insieme interventi orali. Eppure, questi libri mantengono un’organicità impressionante e portano avanti discorsi che difficilmente si perdono nei passaggi tra un testo e l’altro, come se Campbell – ricalcando quasi la sua stessa teoria del monomito – avanzasse costantemente nel medesimo discorso.
E difatti è in questi libri che possiamo ulteriormente ricercare il significato dell’opera di Campbell; un’espressione, di volta in volta più matura e organizzata, delle sue idee relative alla mitologia.
Per esempio, scrive ne Il volo dell’anitra selvatica:
«I miti sono una funzione sia della natura sia della cultura e sono necessari all’equilibrato sviluppo della psiche umana quanto il cibo lo è per il corpo».
La dimensione sacra del mito è essenziale alla nostra crescita individuale, ci aiuta a comprendere il mondo esteriore e quello interiore. Joseph Campbell associava spesso l’idea junghiana, del sogno come guida, a quella del mito come insegnamento. Attraverso il mito, diceva, è possibile accedere agli «archetipi dell’inconscio collettivo» teorizzati da Jung, corrispondenti alle «idee elementari» di Bastian e alle «idee universali» platoniche. Era anche convinto che si potessero raggiungere queste «rivelazioni» tramite lo yoga così come mediante l’uso di psichedelici e infine – e questo lo interessava soprattutto – contemplando e lasciando rivivere dentro di noi la potenza misterica dei simboli mitologici e delle loro rappresentazioni.
«Un pantheon mitologico è fluido e, se cambiano i bisogni e le realizzazioni della società, cambiano anche le relazioni e gli dèi. Le divinità sono veramente condizionate a livello spaziotemporale; prendono forma da idee ereditate, da immaginari ereditati, e sono assemblate in base al contesto spaziotemporale locale». (Dee. I misteri del divino femminile)
L’eroe dai mille volti, il primo lavoro originale di Campbell, ebbe un successo incredibile, non solo grazie e tramite Luke Skywalker, nemmeno attraverso le arcinote teorie narratologiche che hanno reso celebre l’espressione «Il viaggio dell’eroe» per indicare quanto Joseph Campbell ha cercato di esprimere in questo libro.
La sua forza non è nemmeno da ricercare nel rigore della sua interpretazione dei simboli e delle leggende, quanto nella sua capacità di parlare a ognuno di noi. Attraverso il mito.
Il suo è un esercizio di evocazione del sacro che vuole divenire rito di passaggio per chiunque, un pensiero trasformativo che possa ispirare ciascuno di noi al cambiamento.
Il viaggio dell’eroe mitologico, ci dice Campbell, non è verso altrove lontani, «può condurre a volte verso l’alto ma è sempre fondamentalmente un passaggio verso l’interno», nelle distese interiori del nostro inconscio, che Campbell vedeva proprio come un paesaggio nel quale avanzare «entro abissi ove vengono vinte oscure resistenze, e poteri da lungo perduti e dimenticati vengono ripristinati, per poter essere usati per la trasfigurazione del mondo».
Il mito dell’eroe che si mette in viaggio sarebbe quindi una sorta di mappa per muoversi nelle nostre geografie interne, durante il pellegrinaggio esistenziale che siamo chiamati a compiere.
Quando Bill Moyers chiese a Campbell perché avesse intitolato il suo libro L’eroe dai mille volti, lui rispose che il motivo era l’aver riconosciuto «una sequenza tipica di azioni eroiche riconoscibile nelle storie di tutto il mondo e in periodi storici diversi». «Come le famiglie felici» diceva, riprendendo il famosissimo incipit di Tolstoj, «i miti e i mondi redenti si somigliano tutti». In qualche modo le mille storie di redenzione possono indicarci il cammino per diventare eroi noi stessi.
«Fondamentalmente, che cos’è un eroe? Non uno che ha fatto seicento fuoricampo in tutta la sua carriera. L’eroe è colui che ha dato la vita per una causa o per gli altri».
(Dee. I misteri del divino femminile)
Ecco, questo è l’insegnamento profondo che Joseph Campbell ha tentato di trasmetterci tramite la sua rievocazione delle mitologie eroiche. L’aver compreso profondamente che la mitologia può insegnarci, tramite una catarsi effettiva, a vivere meglio gli uni con gli altri e innanzitutto con noi stessi.
Non lavorava mai sulle differenze, lavorava sulle somiglianze, sulle contiguità. Di sicuro il suo era un approccio criticabile ma probabilmente la sua motivazione era più grande di qualsiasi critica, poiché Campbell cercava di risvegliare i nostri animi, di scuoterci dal torpore che già allora dilagava in ogni dove, come il Nulla. Ha cercato di indicarci una via: vedere dove e come le cose si parlano, in che modo il Don Chisciotte risuona nell’Amleto. Solo mettendoli in relazione, evocandoli, suonando le loro note per farli dialogare in una sinfonia, riascoltandoli nel loro insieme possiamo cogliere degli aspetti del luogo dal quale provengono, e scoprire qualcosa in più del loro mistero; e sicuramente esperirli, viverli, e così riuscire a esplorare aspetti lontani e selvaggi del nostro profondo.
Un altro dei suoi incontri più felici fu quello con la Dea. Questo incontro fruttifero si espresse in particolare durante la conoscenza e la collaborazione con Marija Gimbutas e il suo lavoro.
Nell’appassionata prefazione al libro più conosciuto dell’autrice, Il linguaggio della Dea, Campbell scrive: «Non possiamo non percepire che Il linguaggio della Dea di Marija Gimbutas, apparso in questo scorcio di secolo, dia evidente rilievo all’esigenza, universalmente riconosciuta ai giorni nostri, di una trasformazione collettiva delle coscienze». Era convinto che la questione di rivalutare la mitologia dedicata al femminile fosse di particolare importanza per il risveglio delle coscienze che andava predicando da anni. Ed era particolarmente sicuro che il lavoro di Gimbutas ricoprisse un ruolo di centrale importanza in questo discorso.
Charles Musès, nel prologo a I nomi della Dea, ci racconta che Joseph Campbell «fu così preso dal ‘progetto della Dea’» – così chiamavano il libro parlando tra loro – «che smise di lavorare al suo Atlas of World Mythology» cioè quella che sarebbe dovuta essere la sua opera maestra (e che a me fa venire subito in mente l’Atlante della memoria warburghiano) e che non riuscì a terminare.
Il ‘progetto della Dea’ diventò un volume contenente saggi di Joseph Campbell, Charles Musès, Riane Eisler e Marija Gimbutas. Ovvero «l’ultimo lavoro creativo che [Campbell] avrebbe avuto tempo di portare a termine, prima della sua morte, alla fine dell’ottobre 1987». Nelle parole di Musès, infatti, questo libro è «il canto del cigno di Campbell e lui stesso», come le disse testualmente, «sentiva trattarsi del proprio ‘testamento al mondo’».
Il fulcro del ragionamento portato avanti da Campbell rispetto alle mitologie della Dea e del femminile si trova in una frase del Faust di Goethe, più volte citata, sia da Campbell che dai curatori delle sue opere: Das Ewig-Weibliche,/Zieht uns hinan ("L’eterno Elemento Femminile/ci trae verso l’alto").
Cosa significa? Quale sarebbe allora il significato mitologico dell’eterno Elemento Femminile?
«Tra il 1972 e il 1986, Campbell dedicò alle dee più di una ventina tra seminari e conferenze», concentrò i suoi sforzi sullo studio della Dea e alla ricerca dei suoi significati, credeva che «Molte delle difficoltà che le donne si trovano ad affrontare oggi derivano dal fatto di agire in una dimensione del mondo che prima era riservata solo agli uomini e per la quale non esistono modelli mitologici femminili», pertanto bisognava ricostituire questo legame tra noi e la mitologia legata al ruolo della donna, ridare dignità e senso alla presenza cosmologica della divinità femminile.
Safron Rossi ha raccolto, in un volume pubblicato nel 2015 in inglese (appena pubblicato in italiano con il titolo Dee. I misteri del divino femminile, Tlon, 2020), diversi interventi di Campbell riguardanti il mito della Dea, componendo con essi un discorso unico, un testo compiuto che segue il modo di lavorare che aveva lo stesso autore (sia per quanto concerne i suoi stessi libri che nel lavoro curateriale sui testi altrui) e anche il modus operandi che prediligono la maggior parte dei curatori della sua opera postuma.
Colpisce il fatto che, nell’edizione italiana, una nota redazionale posta all’inizio del primo saggio di Campbell abbia il compito di giustificare l’autore dalle eventuali critiche – che pure sono state fatte – atte a leggere nelle sue parole una qualche misoginia.
Troverei una lettura e una critica di questo tipo nei confronti di Joseph Campbell anche sensata ma del tutto superflua e, lasciatemelo dire, parecchio ingenua.
È sicuramente vero che il linguaggio della prosa di Campbell sia intriso della mentalità patriarcale nella quale crebbe e si formò, tuttavia penso che fermarsi a questo livello di lettura possa fuorviare il lettore dal percorso di comprensione del compito altissimo al quale l’autore aspirava. E cioè usare il mito per dire qualcosa di fondamentale. Per indicare quello che la nota redazionale esprime benissimo tramite le parole dello stesso autore: «Una trasformazione collettiva delle coscienze», «da raggiungere tramite la giusta considerazione del femminile e della Dea». Riconsiderare il significato dell’«eterno Elemento Femminile» rievocandolo e contemplandone la rivelazione che da esso può scaturire, imparando – tutti, non solo le donne – il senso profondo del femminile nell’interezza del Cosmo, dell’Uno, del Tutto.
«La natura le ha dato questo potere, e la donna diventa quindi la manifestazione e il significato del mistero della natura stessa. La donna è allora la prima entità venerata nel mondo umano».
Le storie sulla Dea e sul mito femminile sono davvero infinite e provengono dalla preistoria per attraversare tutta la storia conosciuta dell’umanità. Hanno forme diverse ma ci riportano allo stesso identico punto: «laddove c’è maschile abbiamo divisione, mentre con il femminile c’è unione». Il femminile è l’elemento unificante e trasformativo, l’eroe – ovvero tutti noi, donne e uomini – deve lasciarsi accompagnare dalla Dea, ricongiungersi alla propria parte femminile per trovare l’unità, la forma perfetta del proprio essere. «La cosa importante riguardo la Dea non è se le donne sedevano sul trono e governavano una struttura sociale di stampo matriarcale» quanto piuttosto se il mito femminile fosse compreso e rispettato e il suo significato risuonasse nella vita di tutti gli individui facenti parte di un dato contesto sociale. In parole semplici: la Dea non è significativa quanto al ruolo delle donne nella società di riferimento, lo è invece rispetto alla capacità che ogni persona ha di accettare l’archetipo femminile dentro di sé.
La Dea indica la nostra capacità di mettere insieme gli opposti e di giungere finalmente alla nostra vera natura.
«La dea è colei che dà vita alle forme e che sa da dove provengono. Provengono da ciò che è al di là dell’essere e del non essere. Né è né non è. È al di là di tutte le categorie del pensiero e della mente» diceva Joseph Campbell a Bill Moyers, ancora nella famosa intervista intitolata Il potere del mito.
Oggigiorno gli studi dedicati alla Grande Dea sono stati ampiamente criticati, soprattutto dagli archeologi. Alcune delle interpretazioni di Marija Gimbutas, così come di Campbell, sono state riviste e sorpassate, e pertanto bisognerebbe sempre controllare ed evitare di prendere per buone le ricostruzioni storiche riportate nei loro libri. Nonostante ciò, questi testi vengono continuamente ripubblicati e ristampati. Questo dato ci dice qualcosa di importante: il fulcro di questi libri non sta nella ricostruzione storica, nel rigore dell’analisi archeologica o nella precisione accademica. Queste opere contengono e veicolano un messaggio che ha un significato potente, nel quale risuonano quelle proprietà magiche di cui sono permeate le mitologie di ogni tempo e ogni luogo: «Ma è plausibile secondo voi che la Dea, dopo tutti questi anni e millenni caratterizzati da forme e condizioni mutevoli, non sia ora in grado di far sapere alle sue figlie chi sono?»
Parlando con Bill Moyers di Star Wars, Joseph Campbell riprendeva nuovamente a esempio l’amato Faust di Goethe, dicendo che entrambe le opere, oltre a dare un contributo essenziale alla classica storia dell’eroe, veicolano questo stesso attualissimo messaggio fondamentale: «I nostri computer, i nostri strumenti, le nostre macchine, non sono sufficienti. Dobbiamo ancora affidarci alla nostra intuizione, al nostro vero essere». Il centro del suo lavoro, lo abbiamo detto e ripetuto, era far rivivere i miti, dargli un nuovo senso che ci aiutasse a tornare in contatto con le nostre capacità intuitive, con la nostra immaginazione. Aveva l’urgenza di spronarci verso un più spiccato senso immaginativo poiché pensava che il suo tempo fosse un tempo «estremamente interessante» – lo diceva prendendo spunto da un’antica maledizione cinese «Che tu possa vivere in tempi interessanti». (Sarei molto curioso di sapere cosa avrebbe potuto pensare dei tempi che hanno seguito il suo presente e del mondo come lo conosciamo oggi).
Non esistono modelli per nessuna delle cose che stanno accadendo. Tutto è mutevole, persino la legge della giungla maschile. È un momento in cui siamo in caduta libera verso il futuro, e ognuno deve fare il suo.
Pensava a «una società che in sé stessa e nei suoi membri è prodotto della natura» e che compie questo passaggio «attraverso discipline metaforiche sociali e psicologiche» ovvero compie il viaggio dell’eroe tramite il contatto con il sacro e con il meraviglioso mondo del mito e la sua foresta di significati, così da «armonizzare la volontà individuale con la volontà generale e, di conseguenza, con la volontà della natura».
Questo, forse più che qualsiasi discorso accademico riguardante l’arte religiosa e le mitologie, è sicuramente un ragionamento estremamente interessante per affrontare i nostri tempi.
È per ciò che diventa davvero importante il lavoro della Joseph Campbell Foundation rispetto a L’opera completa di Joseph Campbell (diretta da Robert Walter e David Kudler).
Se avrete il piacere e la curiosità di sfogliare uno dei libri di Joseph Campbell noterete subito il nome e il simbolo della fondazione che, dalla sua morte, si occupa in modo estremamente creativo della diffusione della sua opera e di riorganizzare tutto il materiale che Joseph Campbell ha lasciato. Dalle sue lezioni e i saggi mai pubblicati in volume sono nati Miti di luce, Il romanticismo del Graal, Dee e tanti altri libri che speriamo siano presto disponibili in lingua italiana e che hanno ridato voce all’insegnamento di Campbell e alla sua poderosa opera. Un modo di pensare, di ragionare, di concepire il mondo che potrebbe essere fondamentale oggigiorno. Per questo stesso motivo diventa così urgente anche il lavoro degli editori di tutto il mondo che hanno saputo accoglierlo e farlo proprio. Per comprenderne la portata vi basterà dare uno sguardo ai cataloghi delle case editrici che oggi hanno ancora il coraggio, l’intelligenza e la sensibilità di pubblicare i suoi libri. Ci trovereste accanto Marija Gimbutas (Venexia), Mircea Eliade (Lindau), Furio Jesi (nottetempo), Gurdjieff (Tlon), giusto per citare alcuni tra gli studiosi più importanti e affini all’opera e al pensiero di Campbell.
Rileggendo una di seguito all’altra le diverse introduzioni dei curatori dei libri postumi di Campbell si ha un senso di nostalgia e di tenerezza. Parlano tutti di Campbell con un’accorata empatia e con stupefacente affetto, raccontando storie su di lui molto toccanti. Doveva essere un uomo straordinario e dall’incredibile sensibilità empatica. (Forse è proprio questo aspetto che ci fa pensare alla figura del nonnino che racconta le storie attorno al fuoco). Nelle loro parole c’è davvero un grande amore e credo che lui ne sarebbe stato molto felice. A modo suo, Campbell ha compiuto il suo viaggio dell’eroe proprio ritrovando l’archetipo del divino femminile dentro di sé, nella figura della Dea, nel lavoro a lei dedicato, in questo incontro fatale con il mito.
È interessante notare che sia Bill Moyers che Evans Lansing Smith (editore e curatore de Il romanticismo del Graal) raccontino nelle loro introduzioni qualcosa di simile.
Moyers scrive che dopo la morte di Joseph Campbell gli capitava di incontrare «la sua immagine praticamente a ogni angolo di strada», mentre Lansing Smith ci racconta di averlo sognato.
Joseph Campbell è rimasto qui con noi. La sua immagine, le sue mille maschere ci appaiono nel mondo dei sogni e nei suoi libri, e si manifestano ovunque quando ci sforziamo di leggere il linguaggio simbolico dei miti che andiamo costruendo ogni giorno.
Lo potremmo rincontrare negli scritti dei suoi amici Steinbeck e Cage, potremmo renderci conto che qualcosa risuona nelle parole di Carl Gustav Jung o di Stanislav Grof.
D’altronde è grazie al suo operato se abbiamo l’opportunità e il grande piacere di poter leggere l’inestimabile lavoro del suo amico e maestro Heinrich Zimmer, dal quale ereditò la conoscenza del mondo orientale, che lo spinse a un lungo viaggio in Asia e gli cambiò la vita, nel senso più profondo della parola.
Nella sua opera confluiscono Thomas Mann e James Joyce (al quale è dedicato il suo primo libro: A Skeleton Key to Finnegans Wake, con Henry Morton Robinson, 1944) per ridare voce a Walter Otto e Károly Kerényi e lasciare che i miti greci si ricongiungano alla tradizione orientale, facendo incontrare l’Occidente e Krishnamurti, l’eroe e la Dea, il mito e la realtà; insegnandoci a ritrovare dentro di noi gli strumenti per compiere il viaggio fondativo di ogni individuo alla ricerca della propria Anima; gli archetipi dell’inconscio collettivo possono indicarci la via, l’unica via per tornare a casa e ritrovare finalmente il proprio Sé.
«C’è una bella espressione di Novalis: "La sede dell’anima è là dove il mondo esterno e quello interno si incontrano". È questo il paese delle meraviglie del mito». (Joseph Campbell, Le distese interiori del cosmo, nottetempo, 2019)

L'eroe dai mille volti
Nello scrivere questo saggio sul mito dell’eroe, Joseph Campbell si è rifatto alle concezioni psicoanalitiche, in particolare a quelle di Jung, ma ha tenuto conto anche delle altre interpretazioni, riconoscendo in esse quanto vi è di vero soprattutto in rapporto alla funzione che la figura dell’eroe ha svolto nel corso dei tempi.
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Dee. I misteri del divino femminile
In questa preziosa raccolta di saggi Joseph Campbell si mette alla ricerca della Grande Dea dall'Età del Bronzo fino al Rinascimento, analizzando le divinità e le religioni preindoeuropee e rifacendosi agli studi di Marija Gimbutas. Il grande mitologo americano riflette sulle origini della cultura europea e patriarcale di oggi, diretta discendente di quei popoli venuti dal Nord e dall'Est durante dell'Età del Ferro, che a più ondate invasero l'Europa cambiandone per sempre i confini mitologici e religiosi.
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Le distese interiori del cosmo La metafora nel mito e nella religione
Viaggio tra anima e ragione, psiche e universo, scienza e leggenda, Le distese interiori del cosmo – l’ultimo libro che Joseph Campbell portò a compimento prima della sua morte – è una raccolta di saggi in cui storia, antropologia, analisi del mito, spiritualità e psicologia analitica convergono in una speculazione riccamente documentata e sempre attuale.
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Il volo dell’anitra selvatica
Pochi studiosi hanno saputo ampliare la prospettiva di ricerca sull’universo mitologico come Joseph Campbell. Nei suoi saggi, il mito è un mosaico composto da tessere di molti colori, e necessita di altrettante discipline per essere decifrato e interpretato. I testi che compongono questa raccolta sono il frutto, come dice l’autore nell’introduzione, di ventiquattro anni di ricerca e riflessione.
Visualizza eBookAndrea Cafarella collabora abitualmente con «Cattedrale», «Altri Animali», «L’Indiscreto» e «Stanza 251» dove scrive critica letteraria, filosofia e narrativa. Conduce la rubrica «Teriantropica. Uno spazio non-filosofico». Ha scritto e scrive anche per diverse altre riviste. Un suo testo è entrato a far parte della raccolta Piccola antologia della peste (Ronzani, 2020 – curata da Francesco Permunian e con illustrazioni di Roberto Abbiati). Ha curato l’introduzione alla prima traduzione in italiano (di Damiano Abeni) della raccolta poetica Controcielo di René Daumal (Edizioni Tlön, 2020).