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Il lungo viaggio delle donne

Di Alessia Dulbecco • luglio 18, 2022

Nella lingua italiana molte parole che pronunciate al maschile hanno un’accezione neutra o, in alcuni casi, positiva, sono foriere di significati ambigui o persino negativi quando vengono declinate al femminile. La sociolinguista Vera Gheno ce lo ha ricordato nel suo volume Femminili Singolari, recuperando la celebre lista riportata da Stefano Bartezzaghi nella rubrica Lessico e Nuvole sul quotidiano La Repubblica, in cui il giornalista e semiologo si sofferma sul significato dei femminili di molti lemmi che, guarda caso, identificano sempre lo stesso ruolo subalterno:

Un passeggiatore: un uomo che cammina

Una passeggiatrice: una mignotta

Un uomo di mondo (un mondano): un gran signore

Una donna di mondo (una mondana): una mignotta

L’elenco di Bartezzaghi comprendeva un vasto numero di parole, molte riferibili alle professioni, tuttavia bastano quelle riportate per notare come la lingua italiana sia riuscita a sedimentare, nei suoi significati, il complesso rapporto che sussiste tra il genere femminile e l’ambiente esterno. Il brano riportato ne è una prova: se un uomo che passeggia in città è un “flâneur” e uno che gira il mondo un “avventuriero”, una donna che compie le medesime azioni è una poco di buono. «Andare a zonzo» come scriveva Virginia Woolf in Street Haunting, «è tra i più grandi piaceri», tuttavia, per le donne, appare molto difficile concedersi questo passatempo.

Viaggiare, muoversi in città o in luoghi sconosciuti, è stata per molto tempo una pratica sconveniente per una donna. Anche per questo la prospettiva femminista l’ha inclusa nel proprio orizzonte di indagine per osservarla con lenti diverse, in grado di considerare le dinamiche di genere e di potere ad essa correlate.

Come donne facciamo quotidianamente esperienza di cosa significhi rientrare da sole, la sera, o attraversare luoghi isolati costantemente osservate da sguardi che non vorremmo ricevere. Questo percezione contribuisce ad alimentare le discussioni secondo le quali le strade, i parchi e i luoghi di aggregazione siano intrinsecamente pericolosi per il genere femminile.

Muoversi nell’ambiente urbano o partire alla volta di un altro continente non sono esattamente la stessa cosa; tuttavia, nell’immaginario connesso al genere femminile, costituiscono entrambe azioni poco sicure. Come ricorda Leslie Kern ne La città femminista, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso si sono moltiplicati studi e ricerche sulla paura generata dalla criminalità e dalla violenza. Le donne segnalavano come principali fonti di insicurezza la città, la notte e gli sconosciuti, tuttavia questa percezione era in conflitto con altri dati, relativi alla violenza di genere, che indicavano gli ambienti domestici come quelli più rischiosi per la popolazione femminile. Questa apparente incoerenza è stata etichettata come “il paradosso della paura delle donne” e per molti ricercatori era da imputare a sentimenti irrazionali, tipicamente femminili. Come sottolinea Kern, però, «il “paradosso” era tale solo se osservato attraverso una lente che ignorava le relazioni di potere di genere». La prospettiva femminista ha permesso di sottolineare alcuni aspetti che influenzavano la risposta delle intervistate, che i ricercatori non sono stati in grado di cogliere. Da una parte, la socializzazione insegna alle donne a temere le violenze commesse da estranei mentre le rappresentazioni mediatiche rafforzano questa eventualità dando molto spazio agli episodi accaduti all’esterno e minimizzando o ignorando quelli che avvengono in famiglia. Dall’altra, le donne sono effettivamente soggette a aggressioni e molestie che vengono sistematicamente sottovalutate dalle forze dell’ordine. Secondo Kern, quindi, «la presenza quotidiana di violenze e approcci sessuali non richiesti nutre questa paura perché le donne si sentono costantemente a disagio negli spazi pubblici». Parafrasando un’altra geografa, Hille Koskela, «le molestie ricordano ogni giorno alle donne che non dovrebbero trovarsi in certi spazi».

Come ha ampiamente sottolineato la filosofa Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso, la diversa assegnazione degli ambienti a uomini e donne è strettamente correlata ai ruoli di genere imposti dalla società patriarcale. Non è un caso che i grandi magazzini, inaugurati a Parigi alla fine dell’Ottocento, siano stati il primo ambiente pubblico concepito e progettato per le signore. Essi costituivano un luogo chiuso - e quindi sicuro - in cui potevano apparentemente conquistare la libertà tanto agognata comprando vestiti e arredi, curando la propria immagine o assistendo a spettacoli pensati per deliziarne i sensi. Il centro commerciale costituiva quindi un ambiente femminilizzato che permetteva alle donne rispettabili di dedicarsi ai consumi senza il rischio di essere confuse con quelle di ranghi inferiori - che si muovevano liberamente in città compiendo pratiche considerate immorali, come la prostituzione - mentre gli uomini potevano vigilare garantendone la sicurezza.

I luoghi dedicati alle donne erano spazi chiusi e sorvegliati, che mantenevano inalterata la rigida ripartizione dei ruoli di genere perpetrando lo stesso modello imposto all’interno delle mura domestiche. Alla luce di queste osservazioni è facile capire perché spostarsi in zone considerate pericolose o partire verso luoghi sconosciuti, in solitaria, fosse considerato tanto deplorevole per una donna.

Come ricorda la studiosa Lucie Azema nel suo recente saggio Donne in viaggio il “richiamo all’avventura” costituisce «un tema ricorrente dei miti fondatori dell’umanità nei quali l’avventura appare come rito di passaggio per l’eroe e si configura in quanto “rito di separazione” dai suoi cari e da chi lo ha visto crescere». Nell’Odissea, mentre Ulisse compie imprese leggendarie vengono a delinearsi due opposte rappresentazioni femminili: da una parte Penelope, una figura passiva che vive nell’attesa dell’amato; dall’altra Circe, una donna audace, erotica e tentatrice. Per le donne la narrazione del viaggio funge da insegnamento: perseguendo l’ideale patriarcale di ripartizione del genere femminile in sante e puttane insegna loro ad essere discrete, comprensive e pazienti come la prima e a respingere la sfrontatezza della seconda.

Educate alla passività e a occupare posizioni marginali, le donne sono state progressivamente escluse dal tema del viaggio. Secondo l’autrice ciò si è rivelato funzionale anche per mantenere inalterata la costruzione della maschilità. Fin dalla più tenera età, infatti, i futuri uomini sono socializzati a mostrarsi indipendenti, liberi e a conquistare lo spazio fuori dalle mura di casa. Il modello maschile “vincente" (o egemone, come direbbe la sociologa Raewyn Connell) si costruisce in opposizione a quello femminile: essere un "vero uomo” significa anzitutto non essere una donna. Allontanare ed escludere il genere femminile consente pertanto di mantenere una netta separazione delle aree di competenza e dei ruoli assegnati a ciascun genere, fornendo al contempo un primato a quello maschile per quanto concerne la conquista degli spazi.

Delegata all’uomo bianco, la narrazione del viaggio è stata concepita esclusivamente dal punto di vista maschile e ha finito per diventare universale. Nei loro racconti, così, la donna assume sfumature accessorie: è un elemento decorativo, come l’hostess o la geisha, è un bottino - moneta di scambio tra esploratori e pirati - oppure una serva o una cameriera incontrata in ostello o nelle taverne.

Il fatto che gli uomini siano diventati l’unica voce narrante non significa ovviamente che le donne non abbiano mai viaggiato; per farlo però hanno incontrato molti più ostacoli e, anche quando vi sono riuscite, le loro azioni sono state spesso silenziate o delegittimate. È il caso dell’alpinista neozelandese Lydia Bradey che nel 1988 è stata la prima donna a scalare l’Everest in solitaria e senza ossigeno supplementare. La storica impresa è diventata il pretesto per un attacco personale ad opera di due membri della spedizione, Rob Hall e Gary Ball, che l’hanno pubblicamente messa in discussione accusando Bradey di non aver mai compiuto l’ascensione. Secondo i colleghi, l’alpinista si sarebbe fermata alla cima sud che, a causa delle allucinazioni causate dal poco ossigeno, sarebbe stata confusa con la cima principale. La vicenda si è conclusa solo quando il governo neozelandese ha riconosciuto la validità della sua impresa iscrivendola nei registri e accreditandola universalmente.

Come è stato detto, il genere femminile non ha avuto il medesimo accesso all’avventura. Per mettersi in viaggio le donne hanno dovuto per prima cosa scardinare lo stereotipo che le voleva dedite alla famiglia e bisognose di protezione; hanno dovuto cioè ribaltare la figura di Penelope scegliendo di muoversi anziché di stare in attesa. In questo senso, la figura dell’esploratrice Alexandra David Néel è forse quella che vi è riuscita maggiormente. La donna scelse di sposarsi con il ferroviere Philippe Néel nel 1904, all’età di trentasei anni, solo per poter avere libero accesso al proprio patrimonio e potersi muovere con più libertà. Nel corso dei suoi innumerevoli viaggi (uno, intrapreso nel 1911 a quarantatré anni, durò più di quindici) i due coniugi continueranno a scriversi quasi giornalmente lunghe lettere inventando, come sostiene Azema, «la storia d’amore tra un’avventuriera e un sedentario, quando tanti secoli di cultura machista ci avevano abituato al contrario».

Esperienze come quelle di Bradey, di David Néel o di Nellie Bly, che ha sfidato Verne compiendo il giro del mondo in 72 giorni, hanno avuto, nel corso del tempo, un certo risalto: a realizzarle erano infatti donne bianche che sì, hanno trasgredito il proprio ruolo ma in ragione dell’impresa portata a termine si sono guadagnate seppur con fatica il rispetto della comunità. Per coloro che appartengono a minoranze razzializzate avvicinarsi al viaggio è stato ancora più difficile.

Citando la scrittrice Marie Hélèn Fraissé, Azema ricorda che il 90% delle narrazioni del mondo sono prodotte dalla parte occidentale dell’Europa e dell’America settentrionale. Ciò contribuisce a generare uno sguardo coloniale «che nega ai viaggiatori non occidentali la capacità di essere osservatori e autori, contribuendo quindi all’invisibilizzazione dei loro racconti e del loro approccio al mondo».

Permettere alle donne nere di narrare il viaggio si rivela essenziale per ricostruire una storia priva dello sguardo dell’uomo bianco che, dice Azema, «è inevitabilmente soggettivo, poiché il viaggiatore attribuisce alle viaggiatrici dei pregiudizi che sono i suoi, legati alla sua identità».

Nel suo Americanah, la scrittrice Chiamamanda Ngozi Adichie affronta proprio questo tema. Ifemelu, la protagonista del romanzo, si trasferisce da Lagos negli Stati Uniti ed è solo atterrando sul suolo americano che capisce di essere nera, di essere “diversa” in ragione della sua storia, del modo in cui pronuncia certe parole, della sua fisicità. Tutto ciò le fornisce il pretesto per aprire un blog e raccontare le esperienze di razzismo. Nel post “viaggiare da neri” racconta la vicenda di un suo conoscente, «nero americano con soldi a palate», intenzionato a scrivere un libro per aiutare chi è nero ad approcciarsi al viaggio in modo diverso. Racconta l’amico: «farà comodo sapere dove è possibile che la gente vi guardi fisso (…). Hanno un comportamento strano quando faccio la coda in prima classe all’aeroporto; sembrano divertiti, come se mi fossi sbagliato…non puoi avere quell’aspetto e viaggiare in prima classe».

Nel brano riportato, ma in generale in tutto il volume, Adichie sottolinea un aspetto essenziale: le convinzioni delle persone rispetto all’accesso alle vacanze, al denaro, al divertimento sono sature di immagini che propongono un’unica visione. Le minoranze viaggiano per necessità, per lasciare luoghi inospitali, e di solito lo fanno da esiliati o da clandestini. Non vi è spazio per un racconto diverso, ad esempio quella del turista che si sposta per diletto.

Desaturare il nostro sguardo da queste immagini significa lasciare spazio ad altre narrazioni in cui il tema del viaggio può diventare un’occasione non solo per spingerci verso l’esterno, ma per condurci verso l’interiorità. È ciò che fa la scrittrice Djaimilia Pereira de Almeida in Questi capelli, testo a metà tra il memoir e l’autobiografia, in cui ripercorre la sua storia per parlare di razzismo e riflettere su cosa significhi non appartenere mai del tutto ad un unico luogo. Arrivata a Lisbona all’età di tre anni, figlia di un padre portoghese e di una madre angolana, Pereira de Alemida concentra il suo racconto su un particolare non trascurabile: i suoi capelli. È nella loro consistenza, nella ruvidezza e nei numerosi tentativi di “domarli” che prende corpo la sua identità. «Nel 2011 - racconta - mi sono tagliata i capelli per dimenticarmi ancora un po’ di loro. Ho giustificato a me stessa questa dimenticanza in termini di mero senso pratico: lavarli, uscire ecc. Quello che non posso fare, come ho ammesso più tardi a me stessa, é dimenticarmi di questi capelli senza dimenticarmi di me». Il suo viaggio e quello delle generazioni che l’hanno preceduta insegna all’autrice ad abitare la complessità che vive fuori e dentro di lei.

In una prospettiva femminista e intersezionale, viaggiare significa sempre sradicare divieti e imposizioni per riscattare la propria vita e aspirare alla libertà che, come ricorda Azema, «non si domanda gentilmente, si prende».

Femminili singolari di Vera Gheno

Sindaca, architetta, avvocata: c’è chi ritiene intollerabile una declinazione al femminile di alcune professioni. E dietro a queste reazioni c’è un mondo di parole, un mondo fatto di storia e di usi che riflette quel che pensiamo, come ci costruiamo. Attraverso le innumerevoli esperienze avute sui social, personali e dell’Accademia della Crusca, l’autrice smonta, pezzo per pezzo, tutte le convinzioni linguistiche della comunità italiana, rintracciandone l’inclinazione irrimediabilmente maschilista. Questo libro mostra in che modo una rideterminazione del femminile si possa pensare a partire dalle sue parole e da un uso consapevole di esse, vero primo passo per una pratica femminista. Tutto con l’ironia che solo una social-linguista può avere.

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La città femminista di Leslie Kern

Come possiamo ripensare lo spazio pubblico nell'era del #MeToo? Come potrebbe configurarsi una metropoli concepita per le donne che lavorano, che spingono passeggini, che si prendono cura dei nostri anziani? Noi viviamo in città progettate da uomini e per gli uomini. Intrecciando senza soluzione di continuità teoria ed esperienze vissute, studi urbanistici e narrazione biografica, Leslie Kern mostra l'importanza del pensiero femminista per concepire gli spazi urbani, indagando i limiti e le possibilità delle nostre città.

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Il secondo sesso di Simone de Beauvoir

Nel 1949 esce «Il secondo sesso» che fece, allo stesso tempo, successo e scandalo. Con veemenza da polemista di razza, de Beauvoir passa in rassegna i ruoli attribuiti dal pensiero maschile alla donna e i relativi attributi. In questo saggio l'autrice si esprime in un linguaggio nuovo, parla di controllo delle nascite e di aborto, sfida i cultori del bel sesso con "le ovaie e la matrice". Affronta temi il tema della sessualità, il lesbismo, la prostituzione, l'educazione religiosa e la maternità, indicando alle donne la via per l'indipendenza e l'emancipazione. Provocando il pubblico conservatore, de Beauvoir cerca riconoscimento personale e solidarietà collettiva, e li avrà: l'opera, di respiro universale, è diventata una tra le fondamentali del Novecento.

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Donne in viaggio di Lucie Azema

Da sempre i viaggi delle donne sono contrastati, resi invisibili, ridicolizzati, proibiti. Per secoli partire all'avventura è sta- to un privilegio riservato agli uomini: mentre Ulisse viaggia per il mondo e compie grandi imprese, Penelope resta immobile e sopporta l'attesa. Lucie Azema ripensa l'esperienza del viaggio da una prospettiva femminista, decostruendo la narrazione maschile dell'esplorazione come conquista di corpi e luoghi erotizzati. Attraverso le storie delle viaggiatrici del passato strappate all'oblio, l'autrice mostra quanto ancora oggi viaggiare per le donne sia un atto difficile ma sempre più necessario. Da Alexandra David-Néel ad Anne-Marie Schwarzenbach, Azema traccia un vero e proprio itinerario di emancipazione attorno a un rito decisivo: quello del viaggio come scoperta di sé e della propria libertà.

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