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La chiave di Berlino. Conversazione con Vincenzo Latronico

Di Clara Miranda Scherffig • ottobre 11, 2023

“Ora è già tardi ma è presto se te ne vai” è una strofa di una canzone di Gino Paoli che cito spesso per chiarire (ed evitare di risolvere) il rapporto ambivalente che gli expat tendono a sviluppare con una città di adozione e il paese di origine. Questo è ancora più vero per un luogo come Berlino, dove le storie che vi si sono succedute nell’ultimo secolo spesso non hanno avuto il tempo di accomiatarsi a dovere, di dire addio alla propria casa prima che vi entrassero dei nuovi inquilini. Il compito di raccontarne alcune si presta particolarmente bene a chi, di addii e arrivederci, ne ha dati parecchi a questa città sorta su una palude—o su un’oasi asciutta, a seconda delle fonti—nel bel mezzo dell’Europa. E perciò in La chiave di Berlino Vincenzo Latronico ne delinea i tratti più significativi sfruttando la propria biografia, un filo conduttore prezioso e serpentino come il Landwehrkanal che attraversa la città ed è il primo protagonista di questo saggio uscito per Einaudi ai primi di settembre. Non è la prima volta che Latronico scrive di Berlino; tra le varie, c’è un racconto indimenticabile nella raccolta L’età della febbre (a cura di Christian Raimo e Alessandro Gazoia, Minimum Fax 2016), un meta-ritratto su Albert Speer (Juxta Press 2020), e, naturalmente, l’ultimo romanzo, Le perfezioni (Bompiani 2022). Per quanto faccia comodo descrivere le due più recenti pubblicazioni di Latronico come un dittico o l’una il compendio saggistico o narrativo dell’altra, La chiave di Berlino è un volume a sé stante. Memoir, flânerie millennial, micro trattato socio-urbanistico, antologia letteraria con testo critico, breve storia dell’arte… il libro è tutto questo e parla con la voce di un amico di vecchia data, a spasso nella città che – per caso e per scelta – tanti, come lui, chiamano casa. Quella che segue è la versione editata della conversazione con Vincenzo avvenuta qualche giorno fa in videochiamata.

La chiave di Berlino di Vincenzo Latronico

«La chiave di Berlino è il racconto di una città e di chi l'ha attraversata negli ultimi venti anni. Latronico fa i conti con la falsa coscienza collettiva e individuale scrivendo un libro politico, profondo e commovente su ciò che è irrimediabilmente perduto, su ciò che resta, ma soprattutto sulla possibilità di un'utopia che non assomiglia né a un rimpianto, né a un'idealizzazione». (Veronica Raimo)

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Leggere libri o guardare film ambientati nella città in cui si vive può avere un effetto straniante. Personalmente vivo spesso la fruizione di opere incentrate su Berlino come un eccesso di presenza o vicinanza che mi ricorda il melodramma. Com’è stato scrivere questo libro vivendo qui, all’interno di una cornice autobiografica e non-fiction? Com’è storicizzare casa propria, divulgare la propria città?

È un problema che ho affrontato a partire da un altro problema che conoscerai anche tu: quando qualcuno viene a trovarti in visita. Ti sei trasferito a Berlino da poco, sei contento della tua decisione, e ti chiedi: dove li porto per fargli capire perché amo questa città? Realizzi che ogni posto è insufficiente. L’unico forse è Tempelhof, per questo che ho deciso di aprire il libro così. Ciò detto è una grande difficoltà, perché da una parte io dovevo raccontare la città in cui vivevo trovando una sorta di mediazione tra un racconto accessibile a chi non la conoscesse ma al contempo qualcosa che fosse fedele alla mia esperienza, che ormai era più profonda. In realtà in origine il taglio autobiografico non era previsto. Io mi sono ritrovato a darlo perché era l’unico modo per far coincidere la prospettiva di chi mi leggeva con la mia. All’inizio volevo incentrarlo su vari luoghi e raccontarli sia attraverso i loro dati oggettivi sia come la letteratura li ha affrontati. Poi mi è sembrato un approccio un po’ astratto e noioso, ma soprattutto per risolvere proprio quel problema di storicizzare la mia presenza nella città, l’unico modo era farla vedere attraverso occhi inizialmente ingenui e poi via via più precisi e quindi anche più delusi, come è stato per me nel corso degli anni.

Per cercare di spiegare il tuo trasferimento a Berlino, nomini La storia infinita: “Era la sopravvivenza di quel vuoto – sparito altrove, divorato dalla finanziarizzazione delle città come dal Nulla di Michael Ende – che ci attirava a Berlino.” Il vuoto inteso non solo come spazio – enormi case libere e accessibili, interi isolati privi di edifici – ma anche come assenza di densità – molte opportunità per poche persone, potenziale da riempire. C’è un'altra storia di Michael Ende, Momo, che racconta l’arrivo in una città non specificata di una ragazzina misteriosa ma col talento di ascoltare e raccontare storie. La sua serena integrazione viene rovinata dall’arrivo dei Signori Grigi, una sorta di parassiti turbocapitalisti che rubano il tempo alle persone. In poco tempo la città diventa monocolore e tutti sono depressi perché lavorano e basta: praticamente Londra. Ti va di sintetizzare un po’ la dialettica tra eccesso di spazio / mancanza di tempo della tua storia berlinese?

All’inizio della scrittura ho guardato da una parte altri racconti di arrivi berlinesi, Le correnti sotterranee di Kirsty Bell, Demande à la nuit di Anne-Laure Jaeglé, quello di Lauren Oyler in Fake Accounts o Gideon Lewis-Kraus in A Sense of Direction – e dall’altra parte ho riletto le mie vecchie e-mail. Mi ha colpito notare quanta insistenza ci fosse su come erano grandi gli appartamenti. Anche con un po' di senso del ridicolo e di autocritica, nel senso “ma dai, ero un giovane aspirante scrittore di 24 anni, appena arrivato in una nuova città e la roba più interessante che mi potevi dire era guarda come sono grandi questi appartamenti.” Però volendo anche salvare la mia immagine ho ragionato sul perché, perché la stessa cosa c'era in tutti gli autori e le autrici che ho citato. Perché una volta introiettato un modo di vivere capitalista, che purtroppo noi abbiamo, c'è una convertibilità quasi immediata fra abbondanza di spazio e abbondanza di tempo. Nelle città, per come stanno diventando sempre di più, per persone che non sono particolarmente ricche, l'affitto, il prezzo dello spazio è la voce di costo più alta. Se pensiamo a un'equivalenza fra denaro e tempo, che è quella in cui siamo cresciuti, questo significa che laddove l’abbondanza di spazio si traduce in costi più bassi, ciò si traduce in un'abbondanza di tempo. Le mie vecchie mail, i libri che ho citato in realtà stanno dicendo “sono sorpreso dall’abbondanza di tempo”.

Un capitolo affronta uno degli aspetti per cui Berlino è diventata così popolare negli ultimi vent’anni: la vita notturna e la diffusione delle droghe ricreative. Di questo mi interessano due aspetti. Il primo è che questo fenomeno è anche figlio dei centri sociali e delle occupazioni che negli anni Novanta fino a metà dei primi Duemila popolavano la città. Adesso sembra paradossale considerando la qualità puramente edonistica del fenomeno, ma all’epoca le serate erano un modo di guadagnare per queste comunità, oltre che – evidentemente – stare assieme, fare comunità.

Quello che dici è verissimo, però è vero anche il contrario, cioè anche molte occupazioni sono nate come modi per fare feste, perché soprattutto nell'etica dei rave o per come funzionavano i free party, l'idea era che ci sono tutti questi posti abbandonati, ne prendi uno per farci delle feste e da lì cominci a costruire qualche cosa che poi si ramifica. Adesso ci sono molte manifestazioni organizzate proprio dai club per evitare il cantiere di espansione dell'autostrada che passerebbe proprio nella loro zona, a sud-est verso Karlshorst e Friedrichshagen. Per rendere compatibili queste cose la CDU ha proposto di fare l'autostrada, coprirla e sopra la copertura ricostruire gli spazi dove ospitare i club, perché comunque hanno un impatto molto forte sull'economia turistica della città. Tu immaginati i primi occupanti che organizzavano i rave negli anni Novanta, se gli avessero detto “un giorno la CDU farà degli sforzi per salvarvi perché siete una risorsa economica per la città…”!

Il secondo aspetto che volevo toccare è legato a un topos narrativo. Nei film si vede spesso “la scena della disco”. In Goodbye Lenin, ad esempio, è proprio girata al Tacheles. Oppure c’è Victoria, un altro film berlinese che comincia in una discoteca e poi prende una piega simile al memoir di Jaeglé, con “C’est fini, le Berghain” e gli spaccini alle calcagna. Ecco, è una scena che spesso cade male, una di quelle esperienze meglio raccontate in forma scritta piuttosto che visivamente. Mi chiedo cosa ne pensi a riguardo, se non c'entri quell'aspetto di clandestinità o di invisibilità che Mackenzie Warke cita nel suo libro Raving. Tenendo anche conto di come hai costruito il capitolo, dove tanti momenti diversi sono condensati in una sorta di über serata.

Ho faticato moltissimo perché mi rendevo conto che il clubbing, il raving, è un elemento inevitabile se si vuole raccontare il mito della città. Ma spesso si fallisce nel raffigurarlo. Mi sembra che la grandissima forza del, ad esempio, cinema, del visivo, è il fatto che sia un mezzo intimamente connesso con il passare del tempo. Visto che le storie sono ambientate nel tempo, è un mezzo per molti versi più efficace e immediato della letteratura per raccontarle, però ti permette meno libertà di bloccare il flusso del tempo. In un film puoi fare dei salti, rallentare, andare più veloce, indietro, però comunque quello che sarà percepito, sarà percepito come un continuum di tempo che ti scorre davanti. Mentre quando scrivi, puoi annullarlo, puoi fare una digressione, filosofica o politica, come fa questo capitolo. Il tempo sparisce nel momento della lettura. Non a caso quel capitolo, al contrario degli altri, alterna scenette narrative, immagini e piccole azioni a deliberatamente delle digressioni freddissime, molto astratte e teoriche, perché volevo proprio giocare con questa diversa temporalità che secondo me è la caratteristica principale di quel tipo di esperienze. La caratteristica fondamentale del raving è una sorta di glitch nel modo in cui percepiamo lo scorrere del tempo e secondo me la letteratura è particolarmente fortunata, perché il suo essere più sconnessa nella percezione si rivela un vantaggio. Cito una frase semplicemente perché è una delle mie preferite di sempre sulla letteratura, che ha scritto Philippe Forrest in un libro straziante e meraviglioso che si chiama Tutti i bambini tranne uno: “Tutta la letteratura in fondo ha un solo argomento e questo argomento è che è incomprensibile che il tempo passa”.

Mi sa che me l'avevi mandata.

Sì, è possibile, perché è proprio una cosa che mi ossessiona.

Beh, in realtà ciò influenza anche il linguaggio. Una frase che ho sottolineato tra le tante—“la musica mi balla”—è forse la manifestazione di quello che hai appena detto. Però il mio capitolo preferito è quello sull'arte. Fai una carrellata di descrizioni di opere i cui autori e titoli non vengono menzionati. Puoi rivelarcene alcuni?

Poiché in tutto quel capitolo avevo tendenzialmente dato un'immagine negativa della mia esperienza nel mondo dell'arte, ci tenevo a ricordare il fatto che comunque ci sono delle opere che mi hanno cambiato, che mi porto con me, che mi hanno aiutato a capire il mondo, che è la cosa migliore che possiamo chiedere all'arte, alla letteratura, al cinema. E appunto lì c'è The Anarchist Banker di Jan-Peter Hammer, c'è Depression in Animals di Gernot Wieland, “Brigitte Bardot” di Alek O., c'è Eternit - una serie di opere di Luca Vitone, The Marque of the Third Stripe di Alexander Singh. Queste sono quelle che mi vengono in mente adesso.

Proponi anche una riflessione sulla critica d’arte, o meglio sul periodo in cui contestualizzavi l’arte contemporanea in un testo, paragonandola alla poesia o alla narrativa. Suggerisci che praticamente l’art writing è una raffigurazione soggettiva di qualcosa che sta accanto al soggetto, specificando che quel qualcosa è anche ciò che si presta poi alla speculazione finanziaria dell’opera. Mi piacerebbe sapere per te qual è la differenza tra la narrativa o la poesia e quel tipo di scrittura intorno all’arte.

Allora, nel migliore dei casi: nessuna. Ad esempio, Brian Dillon è uno che pratica questo tipo di scrittura molto bene. Nel migliore dei casi l’opera è ciò che occasiona un teso, esattamente come la vista di un panorama al di là della siepe occasiona una poesia di Leopardi. Nei migliori dei casi le opere sono semplicemente degli spunti da cui una scrittrice o uno scrittore parte per ragionare su questioni interiori, filosofiche, personali, narrative, producendo un testo che può anche essere indiretto all'opera, però è un testo a sé. Nel peggiore dei casi quello che fai è sollevare una sorta di polverone scintillante fatto di citazioni e di frasi ad effetto da una parte perché scintilli anche l'opera (cioè l'oggetto in vendita) e dall'altra perché attraverso il polverone non se ne percepisca la vera natura di oggetto in vendita. Quindi diciamo che nel migliore dei casi è letteratura, nel peggiore dei casi è facilitazione di una truffa. Nella mia esperienza ci sono anche libri che sono delle truffe, però se un libro è una truffa almeno chi la fa, incassa pure. Mentre la cosa, se vuoi grottesca, dell'art writing è che tu fai la truffa ma a guadagnare il grosso del bottino è qualcun altro.

In realtà la mia impressione è che da questa esperienza dell'art writing hai imparato molto, come se avessi potuto accedere a un tipo di libertà espressiva che prima magari non avevi preso in considerazione. È possibile?

Non l'avevo mai pensata così, perché gli anni in cui praticavo molto questo tipo di scrittura sono stati gli stessi in cui sono stato bloccato nella mia scrittura narrativa. Nel libro do una spiegazione: la gratificazione istantanea dell’essere invitato da qualche parte, a produrre un piccolo testo, a vederlo stampato, a incassare qualche centinaio di euro mi aveva distratto dal mettere le mie forze nella scrittura. In realtà questa domanda mi fa pensare al grado di libertà assoluta e anarchica che ti era garantito all'interno dell'art writing, grado di libertà che dipendeva dal fatto che nessuno ti leggeva, che il tuo testo non era lì per essere letto, ma era lì per offuscare una truffa. E in effetti quando poi ne sono uscito otto anni dopo con Le perfezioni, mi sembra di aver trovato o cercato un tipo di libertà dalla narrazione classica che forse ho cominciato a desiderare proprio grazie a questa esperienza.

C’è un passaggio nell’ultimo capitolo che mi ha suscitato una riflessione: mi sembra che abitudini e memoria non possano convivere in parità, nel senso che un luogo della nostra vita o viene frequentato abitualmente – quindi serve quasi unicamente lo scopo di ruolo di passaggio, una funzione puramente spaziale – oppure viene viene ricordato ed esiste quindi su un altro piano cognitivo ed emotivo. Quindi queste due esperienze emotivo-cognitive non possono coesistere parimenti in relazione a un luogo. E mi sembra che l'esperienza di spazio e di tempo che hanno fatto i nostri genitori sia dilatata nel tempo. Ovviamente tutte le persone che invecchiano vedono un cambiamento nello spazio intorno a loro e possono legarlo alla propria biografia. Però mi sembra che per la nostra generazione, soprattutto per chi è expat e soprattutto per chi vive a Berlino – che comunque conserva un sostrato ideologico-politico scomparso in altre metropoli – questa esperienza è accelerata, esplosa, come se ci fosse un cortocircuito non solo con l'idea del tempo, ma anche con l'idea di spazio che siamo stati abituati ad avere. E mi sembra che il tuo libro, in modo però involontario e similmente a Oval di Elvia Wilk e anche a Fake Accounts, cerca di raccontare questo fenomeno. Però non più come esperienza esclusiva di una figura tipo il flâneur, lo scrittore o l'expat, ma come un'esperienza a cui, prima o tardi, tutti devono abituarsi.

Volevo partire da un'esperienza personale, “speciale” e alla fine mostrare che in realtà è un'esperienza generazionale collettiva perché la trasformazione del nostro spazio e del nostro tempo - dovuta alla violentissima finanziarizzazione delle città negli ultimi anni - è qualche cosa che sarà, ed è, una delle esperienze definitorie della nostra generazione. È particolarmente sentita da chi è a Berlino non soltanto per lo strato politico della città ma anche perché lì questo processo è stato molto più rapido ed è partito da un estremo diverso. Il tipo di spazio che c'era a Berlino quando siamo arrivati noi era forse analogo a quello che c'era prima. Chi era a Berlino ha avuto modo di vivere nel corso di dieci anni, compresso, un fenomeno che è stato vissuto dalle altre città nell'arco di quaranta. Questo ci rende particolarmente lucidi nel vederlo o anche particolarmente nostalgici nel piangerlo.

Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo un estratto del libro.

La chiave di Berlino di Vincenzo Latronico

«Nessun'altra città è cosí piena di vuoto». Al volgere del millennio i grandi vuoti di Berlino, le cicatrici lasciate dal ventesimo secolo sul tessuto della città, si riempiono: dei sogni di una generazione che da tutta Europa ne fa il luogo di una promessa; del desiderio di chi vi cerca la trasgressione e l'estasi dei rave e dei sex party; delle nostalgie degli expat di tutto il mondo, fra cui moltissimi italiani, che a Berlino hanno cercato una nuova vita, fortuna o oblio. Scrivendo di Berlino, Vincenzo Latronico scrive il romanzo di formazione di una generazione.

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L’ordine regna a Berlino

A Berlino su Google Maps è sempre il 2009.

In quel periodo Google ha spedito nelle capitali europee una flotta di automobili munite di fotocamere e periscopi sul tettuccio: incrocio per incrocio, strada per strada, hanno scattato miliardi di immagini per comporre una versione digitalizzata dell’esperienza delle città. Ci sono tutte le facciate, tutti i negozi, le inferriate dei parchi, i cestini i parcheggi i marciapiedi.

Come la mappa dell’impero di Borges, un progetto del genere deve lottare contro il fatto che, appena un’auto volta l’angolo, l’angolo cambia. E quindi periodicamente la flotta ripercorre le stesse vie, rifotografa i negozi cambiati, gli edifici costruiti o buttati giú, per aggiornare l’aspetto del mondo. Ma anche quando ne vengono scattate di nuove le vecchie immagini restano accessibili, come le stratigrafie di un palinsesto: sulla mappa di Bari, di Malmö, di Salonicco è possibile scegliere una strada e rivederne il volto passato, come in un film a ritroso.

Il palinsesto dà vita a una temporalità capricciosa. Zone diverse della stessa città sono fotografate in momenti distinti: su Google Maps, il tempo scorre a singhiozzo. La finestra di tua nonna c’è in due versioni, con le piante vive e poi morte, come lei. C’è una foto di casa tua oggi, che ci abiti da solo; e di quando ci vivevi col tuo compagno. C’è l’ufficio di lui, fotografato quando era in stage prima dell’assunzione e tu lo andavi a prendere all’uscita (riconosci la sua bici, legata a un palo di fronte); e molto dopo, quando si era già dimesso; ma non quello che c’è stato in mezzo, l’epoca in cui vivevate insieme e lui ti tradiva durante le trasferte. Il tuo studio di quel periodo invece c’è, quella chiazza sfocata sul balcone sei tu che piangevi al telefono; da allora la flotta di Google non è piú passata, quindi su Maps piangi ancora.

Questa temporalità ha qualcosa dell’esperienza reale di camminare nella città in cui sei cresciuto. Il tuo passato è lí, incastonato nel quartiere, ma non si stende sulla topografia in modo omogeneo: in quel parco avevi vent’anni; uscendo da quel portone otto; in quel negozio quattordici, ma era una sala giochi, allora… Allo stesso modo, nelle foto di Google Maps i tempi si compenetrano, tesi e antitesi coesistono. Nella stessa città, nella stessa strada, siete innamorati e divorziati, non sei ancora arrivato e sei già andato via.

A Berlino no. La tutela tedesca della privacy ha fatto sí che il progetto di Google venisse bloccato da una grandinata di cause legali: sono rimaste solo le foto scattate in quella prima campagna, fra il 2007 e il 2009. L’aeroporto di Tempelhof non diverrà mai parco, e resterà una stesa di cemento bordata di filo spinato a concertina; le gallerie dei miei amici non chiuderanno mai; nessuno dei palazzi in cui ho vissuto nell’arco di un decennio sarà mai un palazzo in cui ho vissuto io. Su Google Maps a Berlino è sempre il 2009, quando il suo mito era all’apice e io senza ragione in un giorno di aprile mi sono seduto in un caffè e ho deciso che avrei vissuto qui.

* * *

Clara Miranda Scherffig è nata a Milano e vive a Berlino. Lavora nel cinema per cui è specializzata nella distribuzione di film art-house e opere prime. Scrive e/o ha scritto di cinema e letteratura per, tra gli altri, IL del Sole 24 Ore, il Tascabile, Esquire, Reverse Shot, Screen Slate, Another Gaze.

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