La letteratura è vita. André Breton e il surrealismo
Nei suoi Manifesti del surrealismo, André Breton non è particolarmente indulgente nei confronti della forma romanzesca, che viene accusata, come ha ben riassunto Milan Kundera riferendosi proprio a Breton nel suo L'arte del romanzo, «di essere inguaribilmente sovraccarica di mediocrità, di banalità, di tutto quanto è contrario alla poesia», in particolare per la noia che nasce nei lettori dalle descrizioni e dalla psicologia dei personaggi. Com'è noto, rispetto alla forma romanzesca, Breton elogia il sogno e i meccanismi dell'inconscio: «io credo – scrive Breton – nel futuro confluire di entrambi questi stati, in apparenza tanto contraddittori, che sono il sogno e la realtà, in una sorta di realtà assoluta, per così dire di surrealtà».
I primi due Manifesti del surrealismo escono rispettivamente nel 1924 e nel 1929 e, intorno a quegli anni e in quelli immediatamente successivi, escono due libri di Breton che rappresentano l'apice della sua opera letteraria e filosofica, Nadja nel 1928 e L'Amour fou nel 1937, due libri dove la forma romanzesca viene sublimata in uno straordinario profluvio di parole e immagini, di storie e riflessioni dal carattere filosofico e saggistico. Proprio per ciò che Breton scrive nel Manifesto circa la noia che naturalmente scaturisce dal romanzo, Breton non avrebbe mai potuto strutturare Nadja e L'amour fou secondo le forme canoniche del racconto romanzesco, ma in realtà l'esperimento che Breton confezione in questi due libri è ancora più radicale, perché si tratta del tentativo di raggiungere la “poesia”, ciò che secondo Breton il romanzo nella sua forma classica non può fare perché ne è, fatalmente e naturalmente, privo.
Non si tratta, come sottolinea Emanuele Trevi ripensando al pensiero di Breton nella sua introduzione alla nuova edizione italiana di L'amour fou (sempre pubblicata da Einaudi nella storica traduzione di Ferdinando Albertazzi) semplicemente di un discorso inerente al genere letterario e alla scrittura in versi, ma è qualcosa che invece ha a che fare con il concetto di bellezza, come esplosione del meraviglioso, momento sublime della vita, «emozione concentrata», riassume Kundera in I testamenti traditi, e originalità dello sguardo. Ecco allora perché anche la forma letteraria diviene una forma assoluta, nel senso più antico del termine, sciolta quindi da qualsiasi gabbia teorica e formale e decisa invece a esplorare le magie della creazione e dell'ispirazione attraverso un sapiente e rabdomantico miscuglio di parole e disegni, fotografie e conversazioni, come se l'unico modo di raggiungere i segreti della poesia sia quello di affidarsi totalmente alle inclinazioni dello spirito creatore capace di aderire ai fatti della realtà che si presenta come un insieme di segnali da decifrare e disoccultare.
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Ma Nadja e L'amour fou sono due libri che risultano anche legati, oltre quindi da comunanze stilistiche e letterarie, da una particolare relazione tra il testo e i luoghi, tra l'autore e lo spazio che attraversa, entrambi riassumibili, seppure impropriamente, in un inseguimento dell'autore di una donna, incarnazione dell'eterno femminino bretoniano e del surrealismo stesso. In Nadja Breton, attraverso una «parola plurale», definita da Maurice Blanchot come un testo che si trasforma in un luogo vero e proprio dove a mediare tra realtà e parola è l'inconscio, racconta il suo incontro con Léona Delcourt, la Nadja del titolo, donna da cui lo scrittore è attratto in maniera travolgente prima e mosso dal rifiuto poi, un'esperienza totalizzante che porterà Nadja al manicomio e per cui Breton sentirà il peso della colpa. Nadja si conclude con la celebre frase «La bellezza sarà CONVULSA o non sarà» e L'amour fou sembra proseguire dove Nadja si interrompeva (non a caso Breton considerava questi due libri, assieme a Les vases communicants, parte di un'unica opera), ma sembra anche aggiornare l'amore convulso di cui parlava il libro precedente: in L'amour fou infatti Breton scrive che «la bellezza convulsiva sarà erotico-velata, esplosiva-fissa, magico-circostanziale o non sarà». Anche in questo libro l'epifenomeno che scatena la scrittura è l'incontro con una donna e il conseguente rapimento amoroso che si conclude con il matrimonio, ma in L'amou fou Breton si sporge ancora di più sull'orlo del precipizio costruendo un'opera totale dove a dispetto della lunghezza misurata sono racchiusi non solo i nuclei più importanti della sua opera, ma anche un'idea assoluta della letteratura e di cosa essa può fare.
Come un maestro che sonda il terreno e prepara la strada impervia per chi avrà il coraggio di seguirlo, qui Breton tende i limiti del testo letterario, procede in maniera vertiginosa per analogie, mescola il racconto personale dell'amore per Jacqueline Lamba con le conversazioni con Giacometti e le poesie del Baudelaire dei Fiori del male, teorizza come le coincidenze magiche e le premonizioni siano parte immanente del nostro mondo e mostra quindi al lettore che un oltre è possibile, che la letteratura si può effettivamente fondere con la vita e di come un incontro possa rivelare gli enigmi di un'intera esistenza.
Ed è questo, forse, il segreto più duraturo e radicale del surrealismo, non solo teoria letteraria, artistica e filosofica, ma tentativo insuperato di fondere definitivamente l'idea e l'azione, il concetto e il comportamento: in Breton «la dinamica prevale totalmente sulla statica» riassume giustamente Trevi. Questa relazione tra testo e azione appare in L'amour fou con tutta la sua forza: l'incontro al Café de Cyrano in una notte del giugno 1934 tra Breton e Jacqueline Lamba rappresenta il momento sacro in cui tutte le tessere del puzzle improvvisamente trovano la loro posizione e ogni sensazione o idea confusa del passato trova una sua conferma grazie all'esplosione dell'amore, radice più profonda di questo libro. L'incontro è devastante per Breton e lo porta a trasfigurare ogni elemento dell'ambiente in cui si trova: ogni elemento geografico e urbanistico finisce per assecondare le regole del sogno secondo un processo compositivo che ha a che fare anche con il tema della casa infestata e, in particolare, con la declinazione che ne dà Alberto Savinio (per Breton, assieme al fratello De Chirico, tra i precursori del surrealismo e quindi certa fonte di ispirazione), come emerge da questo passaggio che racconta l'improvvisa apparizione di Jacqueline:
«La donna che era entrata pareva avvolta in un vapore – vestita di fuoco? – ogni cosa scoloriva, si raggelava accanto a questa tinta sognata su un accordo perfetto di ruggine e di verde: l'antico Egitto, una piccola felce indimenticabile rampicante al muro interno di un vecchissimo pozzo, il più largo, il più profondo e il più buio di tutti quelli su cui mi sono chinato».
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Per comprendere cosa questa bellezza «magico-circostanziale» scateni nell'animo di Breton, basta infatti pensare a ciò che accade dal momento in cui l'incontro amoroso prende vita e i due innamorati girovagano per la città: Breton e l'amata si muovono per la città di Parigi, da Place Blanche a Montmartre fino a Les Halles (e, nei capitoli successivi anche per luoghi «maledetti» della Bretagna dove un inspiegabile sentimento di astio nasce tra gli amanti in corrispondenza di detti luoghi), ma ogni elemento esterno si tinge di colori sconosciuti. Come accadeva in Nadja, anche in L'amour fou si crea una relazione eccezionale tra il testo, l'autore e la città e così le immagini delle vie, i palazzi e le piazze parigine abbandonano immediatamente la loro topografia reale, divenendo la rappresentazione sommatoria di tutte le impressioni, i percorsi e gli avvenimenti più o meno reali che affollano lo spazio che circonda i due personaggi in movimento. La scrittura e il pensiero si allineano allora allo stesso movimento che ordina il movimento fisico e il rapporto con gli ambienti circostanti: scrittura e flânerie, costituiscono così le due forme privilegiate di registrazione del mondo esterno.
Il flâneur, secondo la mitologia bretoniana debitrice delle immagini di Baudelaire, è un personaggio che sta in ascolto del paesaggio che lo circonda e che spia l’avvenimento in attesa che esso accada. Come ha scritto Benjamin infatti, per la prima volta in Baudelaire, «Parigi diventa oggetto della poesia lirica. Questa poesia non è arte regionale; lo sguardo dell'allegorista, che incontra la città, è lo sguardo dell'estraniato. È lo sguardo del flâneur, la cui forma di vita avvolge ancora di un bagliore conciliante quello futuro, desolato dell'abitante della grande città».
Molti sono stati gli scrittori affascinati e debitori di questo modo particolare di muoversi dentro la città come in preda a una smania conoscitiva irrazionale e in ognuno di questi lo spazio esterno apre a una regressione proiettiva di rêverie che mescola realtà oggettiva, ricordo e pensiero: Breton suggerisce come l'uomo sia costretto a fare i conti con le insufficienze della vita reale, cosicché ogni lampo offerto dallo spazio circostante apre a rimembranze che sembrano anche avere a che fare con una certa concezione proustiana della memoria che tornando al conosciuto spalanca le porte dell'ignoto.
Si tratta per esempio di ciò che accade in alcuni racconti di Antonio Delfini, vicino al surrealismo e che a Parigi si formò per un breve periodo nel clima surrealista-bretoniano, dove la flânerie consente di individuare luoghi reconditi di una realtà incompleta, ma non per questo meno decisiva. Non esiste dunque, né per Breton né per Delfini, una consapevolezza totale della realtà, quanto piuttosto una sua registrazione incompleta segnata da un andamento rabdomantico: «Non si aspetti da me – scrive Breton in Nadja – il computo globale di ciò che mi è stato dato di provare in questo campo, mi limiterò qui a ricordarmi senza sforzo di ciò che, senza rispondere ad iniziative da parte mia, m'è talvolta accaduto, di ciò che, giungendomi per vie imprevedibili, mi dà la misura della grazia e della disgrazia particolari di cui sono fatto segno».
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Si tratta quindi per Breton di muoversi negli interstizi tra il noto e l’ignoto, tra le possibilità che l'incontro amoroso genera e la conseguente esplosione percettiva che consente di dare seguito a tutte le premonizioni magiche, quelle «frasi ipnagogiche che bussavano ai vetri», che tanto spazio hanno avuto nell'esperienza surrealista. L'amour fou corre continuamente tra il mistero e la rivelazione, tra l'esistenza e il destino ed è l'opera dove forse più che in ogni altra l'arte di Breton si condensa e prende una forma che, per quanto fumosa e inafferrabile, suggerisce l'esistenza di contorni un po' più sicuri. Ma come l'amore che qui viene raccontato come un fuoco che continuamente si alimenta attraverso la presenza dell'amata e che rinnova la vita dell'autore, non manca un lato oscuro, il rischio della perdizione che queste pagine offrono con il loro cammino sul sottile equilibrio dell'abisso dei sentimenti. In L'amour fou Breton sembra raggiungere lo zenit che il poeta René Char gli augurò in una lettera, quello di raggiungere appieno il suo scopo, di fermare «alba e crepuscolo in ogni istante insieme».

L'amour fou
Mai come leggendo questo libro ci rendiamo conto di un fatto troppo tralasciato dalle storie letterarie: nel suo senso pieno e tuttora vitale, il surrealismo è stato una forma di vita molto piú che una poetica, una corrente di pensiero, una teoria compiuta del mondo e dell'uomo.
Visualizza eBookMatteo Moca, dottore di ricerca in Italianistica, è insegnante e critico letterario. Ha pubblicato la monografia, Tra parola e silenzio. Landolfi, Perec, Beckett (La scuola di Pitagora, 2017) e ha curato Madonna di fuoco e Madonna di neve di Giovanni Faldella (Quodlibet, 2019). Si occupa in particolare dell'opera di Tommaso Landolfi, e, tra gli altri, di Elsa Morante, Anna Maria Ortese e Georges Perec, oltre che delle convergenze tra letteratura e scienze umane. Scrive di letteratura contemporanea su quotidiani e riviste.