La letteratura europea è monoetnica. Voltiamo pagina?
Illustrazione di Cristina Portolano
Le pale del ventilatore ruotavano con pigrizia nel salone della vecchia casa di famiglia, a sud di Colombo. Ricordo me stessa con limpidezza, su un divanetto di mango e stoffa rossa imbottita, intenta a leggere quello che credo fosse il mio primo libro. Avevo quattro anni, sostiene mia zia, e il libro era una raccolta di miti e fiabe indiane — di mio cugino maggiore, precisa sempre mia zia. Lo ricordo così bene perché sarebbe passato più di un decennio prima che mi imbattessi di nuovo in un personaggio principale di colore. L’altro dettaglio importante che rammento sono i caratteri stampati su quell’antologia: è davvero curioso come una bambina che legge con tanta scioltezza un alfabeto sillabico possa trasformarsi in un’adulta che prende fiato per la fatica dopo una parola troppo complessa.
A otto anni vivevo già a due continenti di distanza e quattro ore indietro rispetto a quella casa, non parlavo e non sapevo più scrivere in sinhala. Ma leggevo ancora, su un altro divano, in una lingua nuova, tutto quello che le librerie di un’altra casa di famiglia avevano da offrirmi. Ho letto con la stessa fame che mia madre aveva per il cibo, ho letto con un’ossessione che ancora oggi mi è familiare.
Allora, poco meno di vent’anni fa, non si poteva pretendere che la letteratura per l’infanzia fosse inclusiva, era già tanto se non era sessista. Leggevo, dunque, quel che avevano letto le generazioni prima della mia — letteratura inglese, soprattutto. Non so se sia stato l’essere nata in un’isola che ancora oggi glorifica il Grande Impero Britannico, ma c’era qualcosa dell’Ottocento che mi affascinava profondamente. E quella sarebbe stata l’inquadratura che avrei mantenuto per guardare il tentativo dell’editoria britannica di far pace con il proprio passato coloniale.

Il giardino segreto
Pubblicato in volume nel 1911, Il giardino segreto è ormai entrato a buon diritto (grazie anche al cinema, che di recente ne ha rinnovato la popolarità con la versione prodotta da Francis Ford Coppola e interpretata, fra gli altri, da Maggie Smith) fra gli “evergreen” della letteratura per ragazzi (e non solo) del XIX secolo.
Visualizza eBookMary è stata la prima di una serie di personaggi discutibili che hanno popolato i miei pomeriggi: la protagonista de Il giardino segreto che, nata in India in una ricca famiglia di coloni inglesi descriveva così il personale di servizio: “Loro non sono persone — sono solo servi che devono farti Salaam. Non sai niente dell’India”. Un altro personaggio di Frances Burnett, Sara de La piccola principessa, anche lei nata e cresciuta in India, dimostra di avere una visione esotica della colonia, una visione che è fatta più di stereotipi che realtà: per nulla sorprendente, visto che la Burnett non aveva mai messo piede più a est di Genova. Eppure, gran parte della sua letteratura è permeata delle idee che gli inglesi avevano dell’Oriente. Orientalismo, lo definiamo oggi.
Da Louis Alcott May a Bianca Pitzorno, da Dickinson a J.K. Rowling, il non potermi identificare con nessun altro se non Mary, Sara, Jane Bennet, Hermione, Jo March ha avuto un solo effetto su di me: se da una parte non mi consideravo bianca, è anche vero che per molto tempo non mi sono sentita nera.
Il risultato prevedibile di questa rappresentazione a senso unico è che i bambini crescono con l’idea che le loro storie non potranno mai finire sulla copertina dei libri, per non parlare dei loro volti. Chimamanda Adichie ci fa notare nel un suo famoso Ted Talk, The danger of a single story, le conseguenze di questa lettura a una voce.
“Quel che leggevo erano libri per bambini britannici e americani. Sono anche stata una scrittrice precoce. E quando ho iniziato a scrivere, più o meno all'età di sette anni, storie scritte in matita, illustrate coi pastelli che la mia povera madre era costretta a leggere, scrivevo storie come quelle che leggevo. Tutti i miei personaggi erano bianchi, con gli occhi azzurri. Giocavano nella neve, mangiavano mele, e parlavano molto del tempo, di quanto era bello che fosse uscito il sole. Ora, questo nonostante io vivessi in Nigeria. Non ero mai uscita dalla Nigeria, non c'era la neve, mangiavamo manghi. E non parlavamo mai del tempo, perché non c'era bisogno”.
Guardando quello che l’editoria per l’infanzia espone oggi sul mercato italiano, direi che le cose non sono granché cambiate da quando ero bambina io: Belle astute e coraggiose (che tra l’altro resta uno dei pochi libri a portare la diversity direttamente sulla copertina) continua a essere quanto di più avanguardistico riusciamo a proporre ai nostri bambini. Ancora troppo poche le eccezioni: Prestami le ali. Storia di Clara la rinoceronte di Igiaba Scego, e Il Ragazzo Leone di Sonny Olumati.

Il ragazzo leone
Non bisognerebbe mai addormentarsi arrabbiati: si rischia di finire sballottati da un confine all’altro dello spazio. È quel che succede a Primo, che in una notte di sconforto si ritrova risucchiato in un’avventura di quelle che cambiano la vita.
Visualizza eBookLo scorso anno un’organizzazione non-profit inglese, la Centre for Literacy in Primary Education, pubblicava un report (si tratta di un’indagine davvero unica nel suo genere) che evidenziava come, dei 9115 libri per bambini pubblicati nel 2017, soltanto l’1% aveva come personaggio principale un soggetto BAME (Black, Asian, Minority Ethnic). Il 10% di questi trattavano tematiche sociali: un personaggio nero in un libro per bambini è quasi sempre associato a un contesto migratorio o di integrazione. L’immigrazione e la coesistenza culturale sono temi reali e degni di una rappresentazione letteraria, ma non sono le uniche esperienze che vive un BAME.
Il punto, poi, non è soltanto che la produzione letteraria è indiscutibilmente incentrata su una rappresentazione monoetnica della realtà, ma soprattutto che sia distribuita su larga scala come unica rappresentazione possibile.
È stato al liceo che ho incontrato il primo personaggio letterario nero, Otello, e, se si escludono gli schiavi e i reietti nella società di Defoe, è stato anche l’unico. Oggi trovo incredibile essere sopravvissuta alla carriera scolastica senza che venisse proposto nel programma un solo esempio di libro scritto da un autore nero o appartenente a un’altra minoranza, né italiano né straniero.
Penso che sia stato proprio in quel periodo che mi sono resa conto di aver sempre vissuto in un mondo letterario culturalmente omogeneo, sebbene la letteratura italiana, almeno nella teoria, avrebbe potuto vantare una polifonia di voci — e quindi esperienze — etnicamente rilevanti.
Nella scrittura postcoloniale italiana, la più prolifica è stata Igiaba Scego (Caetano Veloso. Camminando controvento è il suo ultimo libro, Adua il mio preferito). Invece, degli scrittori che abbiamo intravisto nelle librerie negli ultimi quindici anni, pochi sono resistiti alla marginalizzazione — Cristina Ali Farah e Gabriella Kuruvilla. E, ad ogni modo, i nomi sono rimasti gli stessi, immutati nonostante un certo fermento culturale degli italiani di origine straniera, colpa forse di un settore editoriale che non ha saputo incoraggiare e coinvolgere la vivacità intellettuale degli italiani di prima generazione. A ulteriore prova di questo, bisogna dire che di recente sono stati pubblicati due libri firmati da due due autori neri, Skin della youtuber Loretta Grace, e Ci rido sopra del rapper Tommy Kuti. Singolare la scelta delle rispettive case editrici, Mondadori e Rizzoli, di rinfoltire la fila di scrittori BAME in Italia, pubblicando però due autori che si occupano, tra altro, di make up e musica. La scelta di non rivolgersi, piuttosto, a scrittori neri esordienti o affermati sembra trovare giustificazione nella fama che gli autori hanno raggiunto nei rispettivi ambiti lavoratori.

Adua
Il ritratto di una donna, Adua, alla ricerca di sé in un lungo viaggio dalla Somalia a Roma. Adua è oggi una donna matura e vive a Roma da quando ha diciassette anni. È una Vecchia Lira, così i nuovi immigrati chiamano le donne giunte in Italia durante la diaspora somala degli anni Settanta. Ha da poco sposato un giovane richiedente asilo sbarcato a Lampedusa e ha con lui un rapporto ambiguo, complicato.
Visualizza eBookNegli anni universitari e la sempre più urgente necessità di leggere qualcosa che mi assomigliasse davvero, e l’impossibilità di reperirla tra gli autori nazionali, è stato con un certo sollievo che ho incontrato la letteratura anglofona contemporanea.
Funny Boy è forse il libro più famoso di Shyam Selvadurai, scrittore canadese di origine srilankese. Pubblicato nel 1994, è quello che oggi chiameremmo un romanzo coming-of-age: il protagonista Arjie, bambino della borghesia tamil, si trova a fare i conti con la sua identità omosessuale in un paese diviso dalla guerra civile. In Canada è considerato a tutti gli effetti un classico per ragazzi. Qualche anno dopo, Arundhati Roy pubblicava Il dio delle piccole cose; più o meno nello stesso periodo Romesh Gunasekara scriveva Reef; dieci anni prima Salman Rushdie usciva nelle librerie con I figli della mezzanotte, il libro che avrebbe cambiato tutto. Stava capitando alla letteratura inglese quello che era successo alla letteratura in lingua spagnola con Allende, Borges e Marquez.
Era un periodo in cui c’erano più scrittori di colore al Man Booker Prize che in tutta Mumbai. Dopo che la narrazione dell’Oriente era stata a lungo dettata da scrittori britannici residenti a Londra, come Rudyard Kipling e E.M. Forster, finalmente non era più la letteratura inglese a raccontarci il subcontinente indiano: era il subcontinente indiano ad aver trovato la sua voce (inglese) che, sorprendentemente, si è rivelata essere più cosmopolita e multietnica di quanto ci saremmo mai aspettati. Iniziava, insomma, una corrente post coloniale che possiamo oggi sintetizzare nell’editoriale di Pico Iyer per il Time Magazine, The Empire writes back. Era il 1993.

I figli della mezzanotte
I "figli della mezzanotte" sono i bambini nati il 15 agosto 1947, allo scoccare della mezzanotte: il momento, cioè, in cui l'India proclamò la propria indipendenza. Possiedono tutti doti straordinarie: forza erculea, capacità di diventare invisibili e di viaggiare nel tempo, bellezza soprannaturale. Ma nessuno è capace di penetrare nel cuore e nella mente degli uomini come Saleem Sinai, il protagonista di questo romanzo che, ormai in punto di morte, racconta la propria tragicomica storia.
Visualizza eBookL’aspetto più sorprendente — e quello che, almeno a me, dà un immediato senso di vicinanza con questi scrittori — è la loro capacità di manipolazione del linguaggio e della lingua, anche negli aspetti più banali. Notoriamente, Rushdie si rifiutava, in fase di editing, di applicare il corsivo ai vocaboli in hindi; Roy diceva che non avrebbe mai tradotto i termini indiani: non capiva perché se gli americani non erano tenuti a tradurre baseball, dovessero costringere lei a spiegar loro le tradizioni indiane; Smith ha la straordinaria abilità di scolpire i suoi personaggi con cadenze, accenti e proprietà linguistiche, riuscendo a non trasformarli in macchiette.
Oggi, a una buona fetta della letteratura inglese contribuiscono autori britannici di origine straniera o con un background etnico misto: Nadeem Aslam, Zadie Smith, Hari Kunzru. Alla multiculturalità si deve molto della loro capacità di raccontare il melting pot, di dare vita a un protagonista nero che non sia stereotipo, di interpretare i rapporti di classe e razza in un’ottica autentica — perché personale.
A lungo ho cercato, nel ventaglio di autori italiani, qualcuno con un background simile, con una narrazione altrettanto incisiva socialmente, capace di raccontare le esperienze di chi non è bianco. A lungo ho cercato un personaggio, frutto di una penna nostrana, in cui le persone come me si potessero identificare. Non l’ho ancora trovato.
Nadeesha Dilshani Uyangoda è nata a Colombo, Sri Lanka, ma vive in Brianza, Italia, da quando aveva sei anni. È una giornalista freelance, si occupa di immigrazione, seconde generazioni, identità. I suoi contributi sono stati pubblicati, tra altri, su Al-Jazeera English, Corriere della Sera, Not - Nero on theory.