La nascita di Eva
Flannery O’Connor sosteneva che scrivere è un modo particolare di guardare il mondo. A Goethe, che secondo alcuni studi potrebbe essere stato l’uomo più intelligente che sia mai vissuto sulla terra (gli contende il titolo il matematico Gauss, che tra l’altro incontrò nel romanzo “La misura del mondo” di Kehlmann), si attribuisce una frase particolarmente nota: “Dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei”. Infine, Nabokov, nella celebre postfazione a “Lolita”, affermava che “la realtà è una delle poche parole che non hanno alcun senso senza virgolette”.
Mettendo insieme questi tre punti di vista, si arriva più o meno a definire quali sono gli ingredienti che stanno alla base di qualsiasi romanzo: un modo personale di osservare il mondo, la collezione dei libri che si sono letti e una costruzione arbitraria, e quindi artistica, della realtà. Vale anche per “Eva”, il mio romanzo appena uscito per Kobo.
A diciannove anni, al momento di dover decidere a quale facoltà mi sarei iscritto, ero indeciso tra filosofia e ingegneria elettronica; dopo diverse riflessioni, scelsi la seconda, per motivi pragmatici – c’entravano sicuramente i soldi – e a causa di alcune idee che i rutilanti anni Ottanta, una decade illuminata da neon luccicanti, mi avevano infilato in testa: ero convinto che, una volta diventato ingegnere, avrei scalato le gerarchie di qualche azienda e sarei diventato mostruosamente ricco.
Dopo qualche anno di matematica e fisica, di elettrotecnica e circuiti, mi sentivo come un pesce tirato fuori dall’acqua, che si dibatteva, tra le aule di ingegneria, alla disperata ricerca del suo elemento naturale. Mentre ascoltavo un professore che illustrava le conseguenze pratiche del teorema del campionamento di Nyquist e Shannon, mi tormentava la straziante nostalgia delle lezioni di latino del liceo, delle analisi dei testi di scrittori medioevali, dei confronti, talvolta accesi, sull’idealismo assoluto (io, da buon kantiano, mi ero sempre opposto alla deriva hegeliana). Ricordo che una sera confessai alla mia ragazza di allora che non ce la facevo più, che mi sembrava di essere sul punto di morire di asfissia; lei mi disse che avrei fatto meglio a rassegnarmi, che la vita era quella là, e che di arte non era mai vissuto nessuno. Cercai allora un compromesso, una terza via che mi permettesse di continuare a studiare le trasformate di Fourier e allo stesso tempo non mi privasse di quella dimensione che ritenevo essenziale per la mia esistenza. Fu così che, a ventidue anni, iniziai a leggere poesia.
Partii con Orazio, le sue Odi, gli Epodi, le Satire. Alla Toletta, storica libreria di Venezia, ne trovai una traduzione particolarmente interessante – forse non del tutto rigorosa, dal punto di vista filologico, ma in fondo stavo diventando un ingegnere e potevo permettermi il lusso di non considerare troppo seriamente certi aspetti. Poi scoprii il reparto “Poesia” della Feltrinelli in centro a Padova. Quando riuscivo a liberarmi dalle pastoie dei teoremi e delle loro dimostrazioni, correvo con lo zaino in spalla a sfogliare quei libricini dai quali, ne ero sicuro, dipendeva la mia salvezza. Senza avere alcuna formazione specifica in questo campo, mi muovevo come un rabdomante in cerca dell’acqua: prendevo un volume, scorrevo alcuni versi e valutavo se si stava innescando una qualche reazione elettrochimica dentro al mio cervello. Scoprii poeti straordinari e ancora oggi, sul mio tavolo al lavoro – faccio l’ingegnere – compare sempre uno di quei libri, ormai trentenni, che mi ricordano che bisogna resistere sempre, ad ogni costo.
E tra quelle letture matte e disperate, ci fu una raccolta che mi colpì più delle altre: “Nel progetto di un freddo perenne” di Cosimo Ortesta. Sebbene lo abbia letto più volte, non saprei dire, con esattezza, quale sia il suo contenuto – non saprei tradurlo in un linguaggio che non sia quello scelto dall’autore. Assomiglia alla musica: come si può raccontare la Quinta Sinfonia di Beethoven? So per certo che “Nel progetto di un freddo perenne” è una storia d’amore, forse di follia, e di immenso dolore. Alcuni versi di quella raccolta mi sono rimasti dentro per tutti questi anni, ed è proprio a partire da quei versi che il romanzo “Eva” è stato concepito: è questo il primo libro che comunicherei a Goethe, per consentirgli di dirmi chi sono. Una grotta, dei graffiti sulle pareti, le tracce della caccia, e una madre:
i suoi vicini di parete
sono l'uomo e il rinoceronte:
la testa è priva di lineamenti
ma il ventre
si affaccia a proteggere
Nella mia carriera di lettore, il peso dei saggi nel mio carnet di letture è aumentato con il tempo fino a superare, in certi momenti, la metà del totale. Alcuni di questi, hanno letteralmente cambiato la mia vita, portandomi a prendere alcune decisioni fondamentali – penso, ad esempio, a “Le vie dei canti” di Bruce Chatwin, un saggio sui generis, che mi ha spinto a cambiare città e lavoro, e a iniziare un movimento che ha caratterizzato parte della mia età adulta; altri saggi, invece, mi hanno fornito gli strumenti per vedere il mondo secondo una particolare angolazione, rivelandomi, in certi casi, l’ordito che sta sotto la trama evidente delle cose.
Come è successo con altri miei libri, anche dietro a “Eva” c’è una sorta di infatuazione per un saggio: in questo caso, “L’uomo di Neanderthal” di Svante Pääbo, che racconta, in prima persona, la storia di come si è riusciti a sequenziare, per la prima volta, il genoma del nostro antico cugino.
La struttura di questo saggio ricorda quella di un giallo. Abbiamo una scena del crimine – il mondo di cinquantamila anni fa – dove è successo un dramma epocale: gli homo sapiens hanno preso il posto degli homo neanderthalensis in tutta Europa, e nessuno sa come e perché. Rimangono solo alcuni frammenti di ossa ancora integri, sprofondati in un ambiente in grado di conservare qualcosa di quegli uomini – la loro storia, la loro vicinanza, la loro distanza. Ricostruendo la storia a ritroso, mettendo insieme i vari pezzi di un puzzle gigantesco e andato per la maggior parte perduto, Svante Pääbo è riuscito a formulare una teoria convincente sul nostro passato e, quindi, anche sul nostro presente. Per spiegare come sia stato possibile realizzare questa impresa, notevolissima sotto ogni aspetto, Pääbo deve illustrare il dettaglio del funzionamento della trasmissione dei mitocondri contenuti all’interno delle nostre cellule, e del loro personale DNA; ed è proprio questo specifico argomento, a prima vista così tecnico, a costituire lo scheletro di “Eva”, e addirittura il motivo per cui questo libro esiste. È un tema strettamente legato alla maternità, a quel filo ininterrotto che unisce una madre alle sue figlie, e quella madre alla donna che l’ha messa al mondo, e ancora più indietro, fino all’origine di ogni cosa. La scienza cela spesso una bellezza inaspettata: parla di sentimenti, di legami tra esseri umani, del nostro passato. Dietro a quei minuscoli pezzettini di materia che i mitocondri si portano dietro da milioni di anni, c’è una storia meravigliosa che parla di noi; ed “Eva” racconta anche quella storia.
A distanza di tanti anni, non so ancora dire se ho fatto bene a iscrivermi a ingegneria: non conosco nulla di tutte le vite che avrei potuto vivere e che invece non ho vissuto. Sarei stato un filosofo felice, se a quel bivio avessi scelto l’altra strada? O avrei rimpianto, negli anni di studio, il rigore della matematica e il suo sguardo lucido sulla “realtà”? Scrivere è un modo diverso di guardare il mondo, diceva Flannery O’Cononr. Il mio modo di guardare il mondo è quello di un uomo che si è formato, suo malgrado, attraverso la scienza e che però continua a rimpiangere le poesie che doveva leggere di nascosto.
E scrivere, per, me, è anche lo strumento attraverso il quale tento di conoscere vite che non sono la mia. In “Eva”, i personaggi sono quattro donne che sono rimaste incinte e tre di queste partoriranno tra le pagine virtuali di questo libro; ma essere una donna, e ancora di più partorire, sono esperienze che non ho mai fatto nella mia vita. Cosa significa avere un essere umano dentro al proprio ventre? Che relazione lega una madre ai suoi figli e a quella lunghissima catena di femmine che ci porta, attraverso innumerevoli passaggi, fino all’origine della vita? Quando si legge un testo in italiano scritto in prima persona, l’unica informazione certa che possiamo recuperare è il sesso dell’autore – e le battaglie di questi anni sulla lingua inclusiva partono proprio da questo dato di fatto. La differenza si riflette nelle parole, nei participi passati, negli aggettivi: sono andato, sei stanca, sembri bella.
È anche per questo che non è stato sempre semplice dare voce a persone che non mi assomigliano (una di loro vive in una savana di centomila anni fa, è incinta e non sa ancora parlare). Ho dovuto saltare la barricata che divide una metà del mondo dall’altra, e immergermi in un tipo di amore che posso solo ipotizzare. Ma quando tentennavo mi dicevo che in fondo neanche Kafka era mai stato uno scarafaggio. Ho fatto, dunque, quello che fa ogni scrittore: ho inventato, pescando da quel nucleo profondo che sento dentro di me, una goccia di magma che non ha sesso e non ha ancora parole e che contiene, in qualche angolino recondito, ricordi tramandati attraverso la formula magica del DNA. In Australia c’è un animale portato dall’Europa alla fine dell’Ottocento che non vede i suoi predatori da non so quante generazioni, ma che fugge terrorizzato non appena uno studioso gliene mostra uno. Metà del mio patrimonio genetico appartiene a mia madre: qualcosa dovrà pur essere passato.
Eva
"Eva” è la storia di quattro donne alle prese con l'esperienza più misteriosa della vita: mettere al mondo un altro essere umano. In un intreccio di gravidanze volute, inaspettate, rifiutate o accolte, i personaggi di questo romanzo cercano di definire il proprio rapporto con l'atto della procreazione, facendo i conti con paure, debolezze e una forza antica e senza nome.
Visualizza eBookPaolo Zardi è nato a Padova nel 1970. Ingegnere, ha esordito nel 2008 con un racconto nell’antologia Giovani cosmetici (Sartorio). Successivamente ha pubblicato le raccolte di racconti Antropometria (Neo 2010) e Il giorno che diventammo umani (Neo 2013), il romanzo La felicità esiste (Alet 2012) e il romanzo breve Il Signor Bovary (Intermezzi 2014). I suoi racconti sono stati pubblicati su “Primo Amore”, “Cattedrale”, “Rivista Inutile” e “Nuovi Argomenti”. È il primo autore italiano ad essere stato tradotto e pubblicato sulla rivista “Lunch Ticket” dell’Università di Antioch (Los Angeles). Cura il blog grafemi.wordpress.com.