La rinascita del fantastico
Non molti anni fa fantasy e fantascienza erano roba da maschietti sfigati, ma col tempo la situazione si è ribaltata. Dal Trono di Spade a Black Mirror, dal Signore degli Anelli a Star Wars, il fantastico ha conquistato classi e generi, fino a perdere l’ingiusta nomea di “fuga dalla realtà” – a meno che l’evasione non sia diventata di massa.
Le ragioni di questo capovolgimento sono interessanti, ma per individuarle non si deve cadere nell’errore di identificare la propria vita con la storia, dato che il genere fantastico ha avuto molte vite lungo i millenni. Le prime forme di narrazione umana, scritte e orali, sono impregnate di fantastico: mi riferisco alla mitologia e al folklore, che, da Circe ai draghi cinesi, passando per Gilgamesh e Beowulf, più che un genere letterario fondano la lingua e la cultura globale. Ma, parafrasando la storia del fantasy di Edoardo Rialti, non si può definire “fantasy” se non è esplicitamente finzionale. Se scrittori e lettori credono davvero ai draghi, insomma, non si tratta di un racconto fantastico, ma realistico. Anche adottando questo vincolo la nascita del genere non è recente: si può dire che inizi con la saga di re Artù e che venga canonizzato nientemeno che da Dante nella Divina Commedia ("Noi leggiavamo un giorno per diletto/di Lancialotto come amor lo strinse") e nel De Vulgari Eloquentia. Anche le radici della fantascienza si possono ritrovare nella mitologia, come ad esempio nel Rāmāyaṇa induista (il VI - III secolo a.C.), con i suoi Vimana, degli aerei-sommergibili in grado di percorrere cielo e acqua, o la misteriosa arma che d’un colpo avrebbe potuto distruggere un’intera città.
Lo scopo di questa parentesi non era però delineare una mappatura storica, ma semplicemente tracciare alcune coordinate per affrontare la questione contemporanea. Tornando al presente, dunque, a cosa si deve questa rinascita del fantastico? Le cause sono molteplici e si differenziano in base a generi, sottogeneri e ibridazioni. Giusto per dare la misura del fenomeno, si potrebbe citare il caso del Partito Comunista Cinese, che, dopo aver bandito la fantascienza per due volte, negli anni ’60 della Rivoluzione Culturale e nel 1983 in quanto fonte di “inquinamento spirituale”, la rivaluta nel 2007 perché «i governanti cinesi si erano resi conto che il loro paese non era in grado di innovare e così inviarono una delegazione negli Stati Uniti per studiare da vicino le persone che lavoravano in aziende come Google, Microsoft, Apple: molti di loro erano lettori di fantascienza».

La portata innovativa si adatta alla fantascienza, ma non al fantasy, per lo meno per quel che riguarda gli sviluppi tecnologici che interessano i leader cinesi. C’è però un elemento che potrebbe convenire a entrambi i generi: l’irriducibile stranezza della realtà, che, all’indagine di discipline molto eterogenee tra loro, risulta di una complessità crescente, in rapido allontanamento dalle convinzioni del senso comune. Insomma, più la realtà è incredibile, più il fantastico coincide col realismo.
Non parlo solo delle bizzarrie della fisica, né tantomeno delle nuove tendenze in filosofia, che di stramberie ne ospita sin dalla nascita, ma soprattutto di quei fenomeni la cui portata è troppo vasta per essere abbracciata nella sua totalità. Un filosofo inglese contemporaneo, Timothy Morton, li chiama iperoggetti. Semplificando il concetto (e ripulendolo da qualche goffaggine metafisica) si tratta di fatti troppo complessi e in cui siamo troppo addentro per capirci qualcosa. Un esempio tipico è il riscaldamento globale: un fenomeno di importanza vitale, di difficilissima gestione e la cui portata è impossibile da assorbire nella vita quotidiana.
È stato notato che Annientamento, il libro di Jeff Vandermeer da cui è stato tratto l’omonimo film (distribuito da Netflix) restituisce bene – aggiungo, in modo realistico – questo aspetto destabilizzante della scienza. La misteriosa Area X in cui si aggira la protagonista, con la sua ecologia invadente e aliena, disposta a dare delle risposte a patto di portare alla luce misteri ancor più vertiginosi, è, in effetti, un inquietante iperoggetto. Nelle parole dell’autore: «Il suo effetto non può essere compreso se non ci si trova lì. Neanche la sua bellezza può essere capita; quando vedi la bellezza nella desolazione qualcosa dentro di te cambia. La desolazione tenta di colonizzarti». E ancora: «È così che la follia del mondo tenta di colonizzarti: dall’esterno verso l’interno, obbligandoti a vivere nella sua realtà».
La fragilità del confine tra fantastico e realismo è oggetto anche degli ultimi due romanzi di Vanni Santoni. Nell’ultimo, L’Impero del sogno (Mondadori), il fantastico invade dichiaratamente la realtà, fino a un’inevitabile confusione dei piani. Ne La stanza profonda (Laterza) invece, il fantastico, frutto di un gioco, resta più o meno al suo posto, ma riesce a descrivere l’esistenza dei protagonisti con maggior forza della loro vita quotidiana («si torna al dungeon perché è il luogo del subconscio. Di più: perché è il subconscio, dove il dettaglio si scioglie in archetipo e il tempo si riorganizza a sistema di scelte»). Il gioco di ruolo a cui si dedicano i protagonisti non è una fuga dalla realtà della provincia, ma un modo per indagarla e oltrepassarla. Le mappe del mondo fantastico non si inventano, si scoprono, esattamente come quelle del mondo reale.
"Giri per il mondo, hai la mappa del mondo. Entri in una città, un quadratino nero sulla mappa del mondo, ed ecco da lì aprirsi una mappa della città. Fai uno scontro in una taverna, e subito si disegna la mappa di quello stanzone, tavoli e sedie e banco, per permettere posizionamenti e spostamenti tattici. Qualunque quadratino bianco, qualunque dungeon, è sempre pronto a dipanarsi in dedalo, in formicaio di mostri e trappole, cunicoli oscuri e sale mirabolanti. Se la parola crea il mondo, la mappa circoscrive il possibile, l’area specifica delle vertigini: ogni bosco può nascondere una strega, ogni villaggio adoratori del demonio, ogni pozzo, grotta o tomba un dungeon, ma non vi saranno streghe fuor dai boschi, sette là dove non ci sono villaggi, dungeon sulla terra sgombra e compatta… Ogni volta, prima che il gioco cominciasse, riordinavi il tavolo e mettevi in mezzo la mappa, come a ricordare che il mondo era quello e aspettava di essere vissuto".
Uno sconfinamento che pur restando (quasi sempre) all’interno del realismo tratta la materia del fantastico, è Cometa di Gregorio Magini (Neo). I due protagonisti, Raffaele e Fabio, sono confinati in un mondo claustrofobico che viene letteralmente preso d’assalto da quel che giace al di fuori. Per il primo l’esistenza coincide con la ricerca smodata di partner erotici, in una bulimia amorosa a cui è subordinato ogni altro aspetto dell’esistenza, professionale come spirituale. Il secondo invece vive un eremitaggio videoludico, in cui i mondi virtuali sopravanzano per interesse e importanza il mondo sociale. Queste bolle speculari non reggono l’isolamento e vengono sfondate (o per lo meno incrinate) dalla pressione dello sfondo. Raffaele subisce in particolare la pressione delle sostanze psichedeliche, quando le visioni manifestano la limitatezza della propria monomania.
"M’inventai che la mia affannosa ricerca di bellezza, amore e godimento era stata solo lo stadio infantile di una tensione verso ciò che trascende la realtà sensibile: ciò che è divino, ciò che è assoluto, quelchessia. Mi lasciai trasportare da questa fisima per la ricerca mistica dello spirito, e anzi la fomentai a suon di musicaccia psytrance e a forza di enteogeni. Vidi così tanti dèi che mi venne il dubbio che esistessero realmente. A un certo punto considerai perfino di abbandonare tutto per andare a svernare nudo nell’Antelope Canyon in Arizona, o a imparare a suonare una DAW presso un dj-sadhu non troppo autoritario".
Per Fabio invece l’attacco è più sottile. Da buon nerd, il ragazzo ha una certa dimestichezza con i mondi irreali e di conseguenza subisce meno la scossa delle visioni psichedeliche. L’invasione in questo caso proviene dall’interno, ovvero dalla scoperta che gli strumenti informatici, oltre a creare mondi fantastici, intrecciano, modificano e inglobano il proprio. Sono, di fatto, degli iperoggetti, davanti alla cui incomprensibile potenza crollano persino i loro artefici. In entrambi i casi cade la speranza di una visione che non faccia i conti con la complessità del mondo, troppo vasto per poter essere narrato solo con gli strumenti del realismo o del fantastico. Sono necessari entrambi, in un balletto in cui i danzatori mutano di ruolo in continuazione e che trova un’eco in un passo del romanzo:
"La vita di questo corpo, che è uguale alla vita di tutti, è attraversata da onde che sono illusioni, alcune durano poco e sono pensieri, altre durano mesi e anni e sono le strade per cui mi perdo. Forse c’è un’onda globale immensa impercettibile che coincide con tutto, ma non ci credo. È solo passando da un’onda all’altra, nell’immediatezza del salto, che tocco la realtà. La prima cosa che so, dunque, è che mi perdo sempre in illusioni. La seconda è che non posso uscirne: pensare di farlo sarebbe scambiare la cresta dell’onda per una realtà fittizia. La terza è che va bene".
La crescente osmosi tra fantastico e realismo in romanzi come Cometa (all’estero potremmo citare l’opera di Cormac McCarthy e Mircea Cărtărescu) è forse lo specchio dello sgretolarsi di una visione monolitica della realtà. È una reazione all’impasse del materialismo, che, attraverso la sua pur efficace indagine del mondo si rende man mano consapevole dei propri limiti, punti ciechi e ambiguità morali. In un certo senso si può parlare di un ritorno alla mitologia, al momento in cui “ai draghi si crede davvero” – non tanto in virtù della loro esistenza concreta, ma perché ci sono cose che si capiscono, accolgono e spiegano con maggiore efficacia attraverso il linguaggio fantastico.
Francesco Orlando, nel Soprannaturale letterario, scrive che “la letteratura apre uno spazio immaginario fondato sulla sospensione o neutralizzazione della differenza tra vero e falso, uno spazio in cui vige il diritto di rispondere al piacere dell’immaginario. L’apertura stessa di un tale spazio costituisce una formazione di compromesso tra le istanze opposte del reale e dell’irreale”. Ed è forse proprio il bisogno di questo compromesso tra reale e irreale a segnare la rinascita e l’innovazione del genere fantastico.