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La rinascita delle montagne

Di Francesco Boer • maggio 01, 2025

Ogni montagna è una montagna sacra, perfino quelle che a uno sguardo superficiale si definirebbero minori.

Ci si accorge del valore che hanno quando si sale sulla loro schiena di pietra. Soltanto allora ci si fa un’idea di quanto le radici di una montagna penetrino nelle profondità della terra. E quando dopo mille fatiche si arriva sulla cima, si comprende che quello è un confine, e appena oltre c’è il cielo.

Arrampicarsi è al tempo stesso un sacrificio e una catarsi: la sommità non è solo un luogo geografico, ma uno stato dell’essere, a cui accede solamente la parte più pura di sé, mentre le scorie che ci pesavano sull’anima restano a valle.

Ogni montagna costituisce poi l’asse che fa da perno al mondo. Per convincersene, basta guardarsi in giro, una volta raggiunta la vetta. L’orizzonte attorno forma un anello, come se il cosmo fosse un cerchio: ci troviamo proprio nel punto dove si pianta l’ago del compasso. Qualunque sia la cima che abbiamo scelto, tramite essa possiamo salire al centro dell’esistenza.

Ecco, tutto questo sarebbe meraviglioso, se non fosse che soffro di vertigini.

Riesco a tollerare un sentiero appena esposto; ma quando si parla di ferrate o strapiombi, do forfait ancora prima di iniziare. La sensazione di accedere alla cima del mondo la provo solo con le montagne più dolci e accessibili, e riesco appena ad immaginare cosa si possa provare nel salire sulle spalle di giganti come la Civetta o il Monviso.

Nella società della performance, la fobia diventa automaticamente un tratto negativo del carattere, che occorre a tutti i costi superare, anzi, “vincere”, come se pure questa fosse una battaglia. Con la mia paura dell’altezza, al contrario, ci vado abbastanza d’accordo: la considero una forma di rispetto, che invece di riguardare soltanto i pensieri si esprime facendo tremare le gambe.

Si può avvertire la sacralità di una montagna anche guardandola dal basso, con quel misto di desiderio e paura che attanaglia chi come me sceglie di rimanere a valle. Quando mi trovo così, con lo sguardo verso l’alto e i piedi ben piantati a terra, mi vengono in mente le parole di un improbabile coppia di scalatori dello spirito: Mosè e Lovecraft.

Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!”: con queste parole il Signore ammonì il profeta, quando salì sul monte Oreb.

Il solitario di Providence scriveva invece così, nel suo racconto “Gli altri dei”:

In cima alla più alta vetta del mondo dimorano gli dei della Terra, e non permettono che alcun uomo possa raccontare di averli spiati. Un tempo abitavano vette minori, ma sempre, gli uomini delle pianure avevano scalato le pendici di roccia e di neve, spingendo gli dei verso montagne più alte: infine, non rimase che l’ultima.


C’è un verbo, che finora ho appositamente evitato, ma che è quello più usato quando si parla di una cima: conquistare.
 

In questa parola si condensa un intero modo di concepire il mondo; una prospettiva di sapore colonialista ed espansionista, che concepisce il limite come qualcosa che per forza va superato. La vetta appare come una sfida che occorre vincere, e che perciò perde di significato nel momento stesso in cui la si è raggiunta: il conquistatore è già con la mente a nuove sfide, sempre più difficili e pericolose. È così che molti cercano e al tempo stesso ricacciano il sacro. Riprendendo le parole di Lovecraft, gli dei “son divenuti più severi, non essendo rimasta loro alcuna altra vetta su cui rifugiarsi di fronte all’avanzata degli uomini”.

In un passo de Il richiamo della montagna, Matteo Righetto denuncia senza mezzi termini il narcisismo insito in questo approccio: “Sono ancora molti gli alpinisti che guardano alla montagna come luogo di personale realizzazione, impresa individuale, scalata, arrampicata esclusiva, conquista epica di una vetta. Questo, a mio modo di vedere, appartiene a una antiquata e retrograda visione dell’alpinismo, carica di retorica, eroismi grandi e piccoli, machismo e competitività che oggi, coi tempi che corrono, risultano addirittura ridicoli: più che amore per la montagna nella sua complessità, ricordano l’amore per sé stessi.

Le radici di questa mentalità si intrecciano con la storia della cultura europea. Dal XVIII secolo in poi, le Alpi divennero la frontiera di una specie di colonialismo culturale, trasfigurandosi nell’immaginario intellettuale come un mondo selvaggio in cui lo spirito illuminista poteva penetrare, con un’azione al tempo stesso esploratrice e civilizzatrice.

Ne parla Andrea Zannini nei primi capitoli del suo libro Controstoria dell’alpinismo, descrivendo dapprima “la rappresentazione estetica della montagna fatta di cavalli e carrozze che scivolano in burroni innevati, massi che precipitavano da pareti strapiombanti, tempeste di neve e incontri con fiere”, che si era diffusa fra il Cinquecento e il Settecento. Accanto a questo dipinto a tinte fosche, però, era presente anche un ritratto delle Alpi di segno opposto, un’esagerazione positiva che vedeva nelle montagne un Eden inviolato; è in particolare dal XVIII secolo che questa narrazione idilliaca prende piede.

Queste prospettive mostrano le due facce di quella che in fin dei conti è una mentalità ambivalente ma unica, per cui il luogo selvaggio diventa al tempo stesso qualcosa di oscuro e seducente, un pericolo di cui ci si innamora: è una sfida in cui ci si può perdere, e da cui non si riuscirebbe a sottrarsi.

Per gli amanti della montagna, il pericolo gioca tutt’ora un ruolo fondamentale. Se ci si appassiona delle montagne non è “nonostante” il rischio che la loro esplorazione comporta, ma anche per questo, per l’irriducibile variabile di imprevedibilità che nessun sistema di sicurezza potrà mai sopprimere. È anche per reagire a una civiltà sovraccarica di regole, rassicuranti ma opprimenti, che si sale in quel regno ancora selvatico e pericoloso. Implicitamente, il desiderio verso le montagne si innesta in un’insoddisfazione, se non una vera e propria ribellione, contro una società di cui si fa parte pur sentendosi estranei nei suoi confronti.

È anche su queste premesse che nei secoli passati si è cementata la narrazione culturale secondo la quale furono gli intellettuali delle grandi città a “scoprire” per primi il valore delle montagne, dando via all’alpinismo come lo concepiamo oggi. Zannini dimostra nel suo libro l’infondatezza di questo stereotipo, sottolineando come la passione per le cime fosse diffusa già da tempo immemore nelle stesse popolazioni di montagna: “Come i conquistadores europei dell’America o del Pacifico «scoprirono» terre e continenti che erano stati scoperti e abitate da decine di migliaia id anni da popoli di altre culture, i solerti borghesi e aristocratici europei che inventarono le Alpi tra Sette e Ottocento aprirono gli occhi su uno dei territori che erano invece tra i più civili e colti d’Europa e del mondo, le cui popolazioni conoscevano palmo a palmo da secoli le terre sulle quali vivevano, cime comprese. Che gli uni e gli altri abbiano pensato di conquistare queste terre «incognite» – cioè incognite solo a loro – dimostra la natura intrinsecamente imperialista di entrambe le operazioni.

Gli stereotipi sono duri a morire, perché sono animati da una scorciatoia del credere, per compensare a una mancanza dello spirito. Evidentemente la nostra cultura sente tuttora la necessità di misurarsi contro una frontiera selvatica, anche a costo di allucinare una sorta di far-west interno. Per sentirsi conquistatori è necessario qualcosa da conquistare.

Accanto alla “riscoperta” della bellezza delle montagne si è affermato lo stereotipo del montanaro, tutt’ora in auge fra turisti e appassionati di montagna. Nel panorama nostrano svolge il ruolo del “nobile selvaggio”: più una figura letteraria che una persona reale, il montanaro è rude ma sincero, brusco e di poche parole, eppure di buon cuore; ignorante nei confronti delle faccende cittadine ma sapiente negli aspetti pratici della montagna, che non escludono una certa affinità con la spiritualità naturale.

Immaginare questo stereotipico montanaro serve ai cittadini come una consolazione per interposta persona. Ci basta sapere che c’è qualcuno che vive ancora genuinamente, “come una volta”, affrontando a cuor sereno le aspre difficoltà della vita rurale. È una vita che non vorremmo mai condurre, ma che ci affascina, e perciò desideriamo che la faccia qualcun altro al posto nostro; e così non vogliamo che i borghi alpini si spopolino, ma ci dispiace se in qualche maniera si modernizzano, come se la comodità che a valle sono date per scontate fossero invece una sorta di inquinamento quando giungono nelle “terre alte”.

La Rivoluzione industriale ci ha dato in eredità sia la visione romantica di un luogo nobile e immobile da preservare a tutti i costi, sia quella capitalistica di una regione da sfruttare come parco giochi per cittadini nel weekend.

– Così si legge nella prefazione del volume dedicato alle Alpi di The Passenger, collana di reportage geografici, inchieste e saggi narrativi. All’idealizzazione colonialista che sovrascrive la realtà vivente è seguita infatti una conquista turistica fatta di piste da sci e impianti di risalita, parcheggi pieni di automobili e corriere, casamenti che coniugano lo stile da chalet con un brutalismo di stampo sovietico, ristoranti che recitano esagerate tipicità locali, negozi di souvenir carichi di paccottiglia. Tutto a uso e consumo di villeggianti e turisti occasionali.

In Assalto alle Alpi, Marco Albino Ferrari traccia la storia e l’inattualità del modello turistico di massa a cui le montagne sono state e sono tuttora sottoposte. Dagli anni ‘60 le valli più incantevoli hanno subito una trasformazione epocale: l’idea trainante era che la montagna dovesse cessare di essere un privilegio per pochi viaggiatori, aprendosi a un turismo di massa, “democratico”. Ma quel modello ha finito per rovinare lo stesso Eden idealizzato che si proponeva di commercializzare: i cittadini potevano sì salire in montagna, ma si trovavano immersi in una replica della città, con traffico, asfalto e inquinamento.

Il turismo alpino di massa ha subito diverse crisi e trasformazioni; ogni volta si è lasciato alle spalle le esuvie di cemento della propria muta, sotto forma di impianti abbandonati e appartamenti che cadono a pezzi. Ma l’idea che la montagna sia un paradiso vicino e raggiungibile a buon mercato è rimasta, e pare tuttora un dogma indiscutibile. È proprio questo desiderio che ha contribuito e contribuisce ancora oggi ad avvolgere la montagna in un metaforico packaging di plastica, falsificandola in un prodotto da svendere sulla vetrina del mercato turistico.

La confusione fra la democrazia e l’ampiamento del mercato è tuttora irrisolta: la pressione con cui il turismo di massa trasfigura la montagna è difficilmente arginabile senza scadere in elitismi che vorrebbero riconsegnare le terre alte a una fruizione riservata a pochi eletti – ancora una volta, trascurando nell’equazione la variabile fondamentale di chi quelle terre le abita.

Certi paesi di montagna, i rifugi più famosi, certi sentieri e addirittura certe vette: è facile comprendere che l’eccesso di turismo può risultare soffocante, persino degradante. Ma come stabilire chi può accedervi e chi invece deve restare a casa?

Per valorizzare le Alpi, scrive Marco Albino Ferrari, basta poco. E i responsabili delle politiche territoriali dovrebbero saperlo. Alla fine basta saper vendere ciò che connota più di tutto la montagna con i suoi paesaggi e i suoi ambienti naturali: il silenzio. Il silenzio non è un’esperienza facile: non piace a tutti. Il silenzio è come il buio e la notte, e indica un’assenza. È come il vuoto che mette le vertigini, perciò attira tanto chi conosce la montagna. Il silenzio ci mette di fronte a noi stessi: è il grande spartiacque per chi riesce ad apprezzare le Alpi per quello che sono.

È l’esatto opposto degli aperitivi con dj-set nei rifugi, o dei grandi concerti che trattano la montagna come un accessorio, una semplice cornice pittoresca.

Silenzio, come quando si entra in un tempio. L’aspetto sacro della montagna può essere in questo una guida, che riconsegna a ciascuno di noi la responsabilità del nostro anelito alla montagna. Il sacro, è bene chiarirlo, non è per forza seriosità. Come ricorda Andrea Zannini, l’alpinismo ha una forte componente ludica, che non sminuisce per nulla la sua portata culturale: al contrario, fin dalla storia antica i rituali sacri si sono spesso espressi tramite il divertimento e la competizione che sono tipici del gioco. Ma anche nel gioco, il rispetto è una parte fondamentale.

“Togliti i sandali”: l’avviso che ricevette Mosè è tutt’ora valido.

Non vuol dire rinunciare al cammino, ma fare attenzione che i propri passi non diventino un calpestare ciò che vorremmo trovare. Non servono leggi o regolamenti calati dall’alto: abbiamo la capacità di capire autonomamente quando la nostra ricerca del divino finisce per scacciare altrove gli dei. Allora basterebbe saper rinunciare, capire che il sacro non lo si raggiunte così, e che anzi violandolo lo si fa fuggire. Se un sentiero è già affollato, perché doversi unire alla fila? Cercare il silenzio vuol dire anche rispettare il luogo che ci ospita.

Sulle montagne ci si può camminare e anche arrampicare, senza per questo dimenticare il rispetto; anzi, è proprio tramite l’abbandono delle pretese che si può frequentarle più significativamente. Le montagne non sono lì per noi, né per essere conquistate né per fornirci una fuga dalla routine. È proprio quando smettiamo di pensare che il mondo sia fatto per servirci, che la realtà ci si dischiude: non più come un asservimento, ma come un rapporto fraterno.

Nei confronti della montagna, si può e si deve aver cura anche nel modo in cui la si immagina. Nell’amore, l’idealizzazione del partner è una forma di narcisismo; e anche la montagna non andrebbe amata soltanto per quello che ci aspettiamo da lei, ma anche per quello che è. E come l’intimità è fatta anche di rispetto, di silenzi, nel saper osservare alcune distanze, così anche la montagna andrebbe avvicinata con delicatezza. Se le imponiamo con la violenza le nostre brame, finiamo per rovinare tanto la montagna, che i nostri desideri.

Il richiamo della montagna di Matteo Righetto

Silvaticus significa appartenente alla selva, alla foresta, e si contrappone a domesticus. È una voce, un richiamo profondo che si manifesta talvolta in brivido di piacere, oppure smarrimento o, addirittura, estasi, misticismo, esperienza sublime e spirituale. È questa l’idea di “selvatico” che Matteo Righetto pone al centro delle sue riflessioni: il richiamo che ognuno di noi sente per un tempo in cui gli uomini non erano addomesticati e non avevano ancora sottomesso e domato la Terra. Come vivevano un tempo le persone in questi luoghi solo in apparenza inospitali?

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