La scienza e la bomba. Come Oppenheimer ha cambiato il mondo
In una scena di Oppenheimer di Christopher Nolan, il fisico Isidor Rabi spiega al suo amico e collega perché non intende prendere parte al progetto Manhattan: “Non voglio che il coronamento di trecento anni di fisica sia un’arma di distruzione di massa”. Un’osservazione che, anche qualora non fosse mai stata fatta davvero, di sicuro doveva essere presente nella testa di Oppenheimer se non durante il progetto Manhattan, sicuramente in seguito, quando iniziò a prendere coscienza della terribile eredità di Los Alamos.
Conosciamo bene l’Oppenheimer direttore di Los Alamos e l’Oppenheimer travolto dalle accuse di filo-comunismo negli anni successivi, che ne provocarono la caduta “politica”. Tendiamo oggi invece a dimenticare l’Oppenheimer scienziato (ancora nel film di Nolan, Edward Teller gli rimprovera di “aver smesso di fare fisica molti, molti anni fa”) e l’Oppenheimer intellettuale impegnato che, dopo la guerra, non solo prese parte agli sforzi per porre gli armamenti nucleari sotto controllo, ma cercò di promuovere una visione della scienza che lavasse l’onta di Los Alamos. Perché questo fu il vero peccato che J. Robert Oppenheimer sentì di aver commesso: non tanto le drammatiche conseguenze dei bombardamenti atomici sul Giappone, che egli attribuiva alla responsabilità politica e militare, ma la consapevolezza che la costruzione della bomba atomica aveva assestato un colpo durissimo alla reputazione della comunità scientifica mondiale, creando una sfiducia e una disillusione del grande pubblico nei confronti degli scienziati che non sarebbe più andata via. È a questo che Oppenheimer fece riferimento in un discorso tenuto nel 1947 dal titolo “La fisica nel mondo contemporaneo”, poi riproposto nel volume Scienza e pensiero comune ripubblicato in questi giorni da Bollati Boringhieri:
“La fisica che ebbe la parte decisiva nello sviluppo della bomba atomica venne fuori direttamente dai nostri laboratori di guerra e dai nostri rapporti scientifici. Nonostante la previdenza e la lungimiranza dei nostri capi di stato del periodo bellico, i fisici provarono un senso molto particolare di responsabilità personale nel suggerire, nell’aiutare e, infine, in larga misura, nel realizzare concretamente le armi atomiche. (…) In un senso un poco rozzo, che nessuna volgarità, nessun umorismo, nessuna esagerazione possono cancellare completamente, il fisico ha conosciuto il peccato”.
Come fu possibile che i grandi sforzi teorici che avevano portato, nei primi decenni del Novecento, alla rivoluzione della fisica con lo sviluppo della meccanica quantistica, attraverso l’apporto di geni come Max Planck, Niels Bohr, Werner Heisenberg, Wolfgang Pauli, Max Born, Paul Dirac, condussero alla costruzione della più potente arma di distruzione di massa progettata dall’essere umano? Cosa fece deragliare la comunità scientifica dai suoi nobili intenti di conoscere la realtà del mondo mettendo quelle conoscenze al servizio di un progetto di morte? È un quesito su cui molti in seguito si sono interrogati, soprattutto filosofi e sociologi della scienza, ma che, leggendo Scienza e pensiero comune, scopriamo essere stata anche una delle preoccupazioni di Oppenheimer negli anni successivi a Los Alamos.
La biografia di Ray Monk Robert Oppenheimer. L’uomo che inventò la bomba atomica, anch’essa ripubblicata in questi mesi da Bompiani sull’onda del film di Nolan, ha il vantaggio, rispetto alle altre – tra cui quella da cui è stato tratto il film, vincitrice del premio Pulitzer, di Kai Bird e Martin J. Sherwin – di dare molto spazio agli anni, oggi dimenticati, in cui Robert Oppenheimer fu uno dei co-protagonisti della grande impresa della fisica quantistica. Il suo lavoro di dottorato sulle molecole fu un pionieristico tentativo di aprire un nuovo filone di ricerca, quello della chimica quantistica, che ancora oggi si fonda su un risultato fondamentale, noto come “approssimazione di Born-Oppenheimer”, che permette di maneggiare gli aspetti quantomeccanici delle molecole separando l’apporto dei componenti del nucleo da quello degli elettroni. Nei suoi anni in Europa, dapprima a Cambridge e poi a Gottinga, Oppenheimer ebbe modo di collaborare fianco a fianco con i giganti della nuova fisica. Tuttavia, il suo approccio non era esente da problemi. Non si trattava tanto degli errori di calcolo matematici che compiva e che spesso comparivano anche negli articoli pubblicati su rivista (era comune allora come lo è oggi, e la matematica di Oppenheimer non era peggiore di quella di altri: per esempio a Los Alamos egli subito si accorse di un clamoroso errore di calcolo di Teller che non aveva tenuto conto dell’apporto relativistico, ossia portato a zero la velocità della luce). Paul Dirac, che a Gottinga Oppenheimer frequentò più di ogni altri fisico, riteneva che si occupasse di questioni minori anziché concentrarsi sulle fondamenta della fisica quantistica; più concretamente, gli mancava la necessaria intuizione.
Per esempio, di fronte alla scoperta che l’equazione di Dirac prevedeva soluzioni con elettroni dotati di energia negativa, Oppenheimer respinse l’ipotesi di Dirac che ciò suggerisse l’esistenza di particelle ancora sconosciute, con stessa massa ma carica opposta rispetto a quella dell’elettrone, e concluse che era la teoria ad essere sbagliata. Ciò gli impedì di anticipare la scoperta del positrone, che senz’altro gli avrebbe valso il Nobel insieme a Dirac. Ancora peggio, quando Oppenheimer iniziò a dedicare la sua attenzione al mistero dei raggi cosmici, propose che dietro le alte energie provenienti dal cosmo dovessero esserci particelle che chiamò “neutroni magnetici”, fece confusione – come molti in quel periodo – tra il neutrone del nucleo atomico e il neutrone che in seguito sarebbe stato chiamato neutrino, e soprattutto non si accorse della possibilità che invece le particelle responsabili potessero essere proprio i positroni. Fu il suo unico studente al Caltech, Carl Anderson, a capirlo e a scoprire i positroni nei raggi cosmici; e Oppenheimer se ne rese conto solo molti mesi dopo.
Non bisogna però dimenticare che proprio il precoce interesse per l’astrofisica spinse Oppenheimer a compiere la sua più importante escursione nei territori ancora inesplorati della relatività generale, intuendo l’esistenza di quelli che in seguito John Wheeler avrebbe chiamato “buchi neri” (così sono chiamati anche nel film di Nolan, per semplicità, anche se il termine fu inventato molti anni dopo: all’epoca si parlava solo del “processo di collasso gravitazionale continuo di Oppenheimer-Snyder”). L’articolo pubblicato in collaborazione con Hartland Snyder è stato definito “uno dei più grandi documenti della fisica del ventesimo secolo”; ma apparve il 1° settembre 1939, giorno dell’invasione della Polonia da parte della Germania nazista, e attrasse ben poca attenzione. Al di là di questo, è sintomatico il fatto che John Wheeler, quando negli anni Sessanta provò a spiegare a Oppenheimer che quella sua ipotesi poteva descrivere un fenomeno reale, non ottenne alcun interesse da parte sua: anche allora, egli non capì le potenziali conseguenze della scoperta e il fatto che non si trattasse solo di una curiosità dell’applicazione della gravità relativistica alle stelle, ma di qualcosa di più profondo.
Tutto ciò forse aiuta a spiegare perché, nonostante i continui avvertimenti di Leo Szilard, Isidor Rabi, Niels Bohr e molti altri fisici, Oppenheimer non comprese se non troppo tardi le conseguenze della bomba atomica. Szilard era stato il primo a intuirla, quando nel 1933 ebbe notizia del primo successo nella scissione atomica, in un nucleo di litio. Anche l’uomo della strada sapeva che la scissione dell’atomo produce un’enorme energia, ma i fisici sapevano che quell’energia non era utilizzabile per scopi civili o militari perché non produceva reazioni a catena in grado di autosostenerne la produzione. Ma Szilard intuì che, se nel processo di fissione si fossero prodotte particelle in eccesso in grado a loro volta di innescare la fissione di altri nuclei atomici, allora una reazione a catena sarebbe stata possibile. Quando giunse la notizia della fissione dell’uranio di Otto Hahn e Fritz Strassmann nel 1938, Oppenheimer fece i calcoli e concluse che non era possibile. Ma i calcoli erano, come spesso gli accadeva, sbagliati. Fu Niels Bohr a ricostruire il meccanismo del processo di fissione insieme a Wheeler, ma negò recisamente che da ciò si potesse produrre una bomba, “a meno di non trasformare gli Stati Uniti in un’unica enorme fabbrica”. Oppenheimer, invece, dal momento in cui capì la fattibilità della fissione iniziò a occupare le menti dei suoi studenti a Berkeley con progetti per la fabbricazione di una bomba; e quella di Bohr dovette sembrargli una sfida che in seguito, con il progetto Manhattan, decise di vincere.
Né Bohr né Heisenberg, che in Germania si occupò del progetto della bomba nazista concludendo per la sua infattibilità pratica e puntando invece alla produzione di energia per scopi civili, avrebbero mai potuto dar vita alla bomba atomica. Perché Oppenheimer sì? Perché fu lui a permettere che il culmine dell’esaltante stagione della nuova fisica fosse la bomba atomica? Possiamo scadere nello psicologismo, ricordando i gravi problemi mentali di cui fu afflitto a Cambridge; possiamo proporre una spiegazione “nazionalista”, secondo cui Oppenheimer, che intendeva fare degli Stati Uniti il centro della nuova fisica per sottrarre lo scettro all’Europa, acquisì a Berkeley e al Caltech una capacità manageriale che non gli si confaceva ma che si sarebbe rivelata di enorme utilità a Los Alamos; possiamo guardare, di nuovo forse in chiave freudiana, all’enfasi posta all’epoca sulla necessità di rompere con violenza gli atomi per svelarne il segreto, in un approccio brutale che il matematico Ian Malcolm di Jurassic Park avrebbe chiamato “uno stupro del mondo della natura”.
Così ancora nel 1954 Oppenheimer spiegava l’obiettivo della fisica atomica: “Che cosa è, noi ci domandiamo, in fisica, la materia; di che cosa è fatta, come si comporta quando viene disintegrata sempre più violentemente, quando cerchiamo di estrarre dalle cose che ci circondano gli ingredienti che soltanto la violenza libera e rende manifesti?”. Sempre in Scienza e pensiero comune, Oppenheimer provò a dare una spiegazione del problema guardando a quella dicotomia cara ai filosofi tra scienza e tecnica, e ammettendo che in passato non la si era presa con molta serietà. E tuttavia propose anche, tra le righe, che la colpa di quella deriva tecnica della scienza fosse da attribuire non agli scienziati, ma alle persone comuni:
“In realtà la maggior parte delle persone, quando pensa che la scienza sia una cosa buona, quando pensa che essa meriti ogni incoraggiamento, quando vuole vedere il governo stanziare grandi somme per essa, quando tributa onori agli uomini che nella scienza hanno raggiunto una certa celebrità, ha sempre in testa che le condizioni della propria vita sono state alterate solo da quella tecnica, di cui sarebbero riluttanti a essere privati.”
Per cercare di invertire la rotta, l’Oppenheimer della maturità proponeva un nuovo metodo di insegnamento delle scienze basato sul metodo storico, per dimostrare agli studenti come si sia giunti a certe scoperte e attraverso quali esperimenti, possibilmente riproducibili, anziché fornir loro un bagaglio di conoscenze e saperi bell’e pronti da utilizzare per ricavarne nuovi sviluppi tecnici. Una idea non nuova, il cui vantaggio consiste nel fatto che, ricostruendo la genealogia delle idee scientifiche, diventa possibile ricostruire anche i dibattiti e i problemi che ne accompagnarono lo sviluppo, inclusi i dilemmi etici e le implicazioni filosofiche. Gli sviluppi della fisica quantistica furono ricchi di queste discussioni, che ebbero un ruolo determinante nelle scoperte successive. Gli esperimentali mentali di Einstein e Bohr fecero compiere alla comprensione della realtà molti più passi in avanti del ciclotrone di Ernest Lawrence.
Quando, dopo la guerra, si tornò a fare meccanica quantistica, agli studenti americani furono fornite le teorie e gli strumenti matematici depurati da tutto l’apparato di questioni filosofiche aperte, secondo un approccio che divenne noto come “zitto e calcola”. Occorsero decenni prima che si tornasse a riflettere sui fondamenti della meccanica quantistica. Ma quell’approccio era nato a Los Alamos, quando l’esigenza di fabbricare la bomba spinse a mettere da parte ogni possibile distrazione etica o riflessione teorica e ad assumere un approccio pragmatico teso solo a risolvere problemi, senza pensare al fatto che quei problemi riguardavano il modo migliore per uccidere centinaia di migliaia di persone.
Più profondamente, in Scienza e pensiero comune Oppenheimer intuì che era stata proprio la rivoluzione della nuova fisica a creare le premesse della tragedia. Essa aveva messo in crisi la comprensione della realtà fondata sul senso comune, per esempio con l’idea per cui non è possibile ricavare la velocità di una particella senza influenzarne la posizione o viceversa, come afferma il principio di indeterminazione. Questa crisi del senso comune ha avuto come effetto di isolare lo scienziato dal resto del mondo, impedendo la proficua condivisione di conoscenze e saperi che si sarebbe altrimenti verificata. I pionieri della fisica quantistica venivano da un mondo in cui esisteva ancora uno stretto collegamento tra scienza e filosofia, secondo i princìpi di quella che all’epoca di Newton si chiamava “filosofia naturale”; le loro cognizioni filosofiche furono fondamentali per comprendere e accettare le implicazioni delle loro scoperte, come nel caso della complementarità onda-particella di Bohr. Il venir meno di questa stretta relazione non poteva che produrre disastri.
“Ciò che è forse più fastidioso è che esiste un abisso tra la vita dello scienziato e la vita dell’uomo che non è uno scienziato, un abisso pericolosamente profondo”, affermava Oppenheimer. Egli ricordò quando Bertrand Russell, ad Harvard, tenne una conferenza al grande pubblico sulle nuove scoperte della meccanica quantistica, e Alfred North Whitehead lo ringraziò al termine della relazione “per aver portato la profonda oscurità del soggetto fuori dall’oscurità”.
Evidentemente Oppenheimer non si limitava a perorare una migliore divulgazione scientifica solo per spingere più persone a occuparsi di scienza; in questo vedeva uno dei modi con cui la scienza avrebbe potuto affrancarsi dal peccato conosciuto a Los Alamos e invertire la pericolosa china discendente che aveva imboccato. Sono gli anni in cui Edward Teller sviluppa la bomba all’idrogeno e in cui lo spettro di armi sempre più potenti e applicazioni scientifiche sempre più distruttive incombe sull’umanità. Se Oppenheimer decise di non voler avere nulla a che fare con la super-bomba e in generale con lo sviluppo degli armamenti atomici, fu non per gli scrupoli morali per Hiroshima e Nagasaki, ma per il tradimento che aveva compiuto nei confronti della grande impresa della nuova fisica della quale era stato un protagonista, prima di diventare il “padre della bomba atomica”.
Nel film di Nolan, vediamo a un certo punto Einstein restituire a Oppenheimer i fogli con i calcoli di Teller sul rischio di una reazione a catena che incendi l’atmosfera. “Questo è suo, non mio”, precisa Einstein. In questa breve battuta troviamo la sintesi dell’atteggiamento che la vecchia generazione dovette nutrire nei confronti di Oppenheimer. Loro avevano dischiuso al mondo straordinarie verità sulla natura della realtà; Oppenheimer le aveva prese e usate per costruire una bomba. Ma di questo loro non volevano essere responsabili, come chiarirà anche Bohr giunto a Los Alamos dopo la fortunosa fuga dalla Danimarca. Quando divenne direttore dell’Institute for Advanced Study di Princeton, Oppenheimer provò a rimediare: oltre a Einstein, che già era lì, chiamò all’istituto anche Bohr e Dirac. Egli sapeva bene – sottolinea Ray Monk nella sua biografia – che non sarebbero stati certo loro a fare nuove scoperte, né i fisici della generazione di Oppenheimer, ma i giovani: se li volle lì, fu essenzialmente per ricucire con coloro che sentiva nel profondo di aver tradito. Egli stesso decise di impegnarsi nella ricerca sui mesoni, sperando di far dimenticare il suo ruolo nel progetto Manhattan; ma gli avanzamenti del programma atomico sovietico, il suo ruolo nella Atomic Energy Commission e in seguito l’umiliante inchiesta interna a cui fu sottoposto, ricordarono a lui e al mondo che J. Robert Oppenheimer non sarebbe mai stato ricordato per essere stato tra i pionieri della nuova fisica, ma solo ed esclusivamente come il “padre della bomba atomica”.
Sbaglieremmo a credere che Oppenheimer rappresenti soprattutto un monito nei confronti della rinnovata attualità della guerra atomica. Rileggendo Scienza e pensiero comune ma anche la biografia di Ray Monk che ci ricorda dell’Oppenheimer che poteva essere e che non fu, diventa più chiaro che il peccato originale di Los Alamos (che Isidor Rabi nel 1983 definì “un abominio”) aspetta ancora una redenzione, e che tocca a noi provare a lavarne l’onta, vigilando affinché la scienza non commetta più un simile errore.
Oppenheimer
«I fisici hanno conosciuto il peccato e da questa consapevolezza non potranno mai liberarsi.» (Robert Oppenheimer)
Visualizza eBookScienza e pensiero comune
Scienza e pensiero comune affronta in modo semplice il legame esistente tra lo scienziato e il profano, nell’intento di conciliare le esperienze fondamentali della scienza con il senso comune, fornendo al lettore tutti i concetti necessari per capire il profondo rivolgimento avvenuto nel passaggio dalla fisica classica alla teoria atomica.
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Robert Oppenheimer. L'uomo che inventò la bomba atomica
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Visualizza eBookRoberto Paura è presidente dell'Italian Institute for the Future; come giornalista scientifico e culturale, collabora con diverse testate ed è direttore della rivista "Futuri" e vicedirettore di "Quaderni d'Altri Tempi".