La scrittura mi salva. Conversazione con Yasmina Reza
Con Yasmina Reza parlo con un piglio fin troppo spontaneo che forse non dovrei permettermi. Avrei la tentazione di farle un’intervista come quella di Mónica Maristain a Roberto Bolaño, uscita nel luglio del 2003 sull’edizione messicana di Playboy – «Ha mai camminato qualche volta in mezzo al deserto?», «Ha mai visto la donna più bella del mondo?», «Ha sperimentato la fame feroce, il freddo che gela le ossa, il caldo che lascia senza respiro?» – e invece finisco a chiederle di Céline Dion. È per caso ossessionata da lei, o cosa? Ride e mi spiega che suo figlio aveva la stessa tessitura vocale e le stesse ottave della Dion (e infatti è diventato cantante), quindi per anni a casa l’hanno ascoltata senza tregua. «Non ne potevamo più. Aveva per forza diritto a un posto nella mia letteratura. Peraltro la ritroverai pure nella mia ultima pièce!» (James Brown si metteva i bigodini, ndr).
L’idea che la musica abbia molto a che fare con la scrittura della Reza ce l’ho dalla prima volta in cui l’ho letta: d’altronde è figlia di un ingegnere e di una musicista, il che mi fa pensare che l’ingranaggio sonoro dei suoi testi sia in qualche modo ereditario. Domanda stupida? Può darsi. La faccio, perché qualcosa in questa donna mi spinge ad averci a che fare con schiettezza e lei ribatte spiegando quanto, ai suoi occhi, il ritmo, nella scrittura, abbia a che fare con la libertà, senza aggiungere molto altro. «Lei è una di quelle rare scrittrici che non amano dare la propria opinione sulla contemporaneità; oggi è molto raro. Purtroppo».
«Mi piace molto il tuo ‘purtroppo’! Non do la mia opinione perché non è particolarmente interessante e non ha alcuna legittimità pubblica. Non ci credo proprio allo scrittore visionario. È una nozione artificiale. E non credo nemmeno che lo scrittore sia un intellettuale, nel senso che danno alla parola i francesi: qualcuno che legge il mondo con più pertinenza degli altri. Lo scrittore legge il mondo con la sua soggettività, la sua intuizione e i suoi umori. Mette in scena istanze contraddittorie e pone ogni genere di questione. Fare in parallelo affermazioni su un argomento ics mi sembrerebbe idiota».
Se non pensasse tutto questo, non scriverebbe come scrive, in effetti, e probabilmente le sue pagine non sprigionerebbero quella strana voglia di vivere tra la gente, possibilmente stramba, che mi sembra di sentire ogni volta che apro un suo libro: «Quando leggo le sue storie, sento un immenso amore per il mondo, ho proprio voglia di stare in mezzo alle persone. I suoi libri mi fanno anche molto ridere, ma non è un riso cinico. Provo anche tenerezza, perché lei non guarda i suoi personaggi dall’alto, ma dal basso: è in mezzo a loro. Forse questa dote viene anche dalla sua esperienza a teatro, perché è proprio come se lei fosse in scena insieme agli attori».
«Ti ringrazio di cuore di questo. È tutta la vita che sulla stampa leggo il contrario (anche a mo’ di elogio, soprattutto anzi a mo’ di elogio), cioè che la mia è una visione a strapiombo sui personaggi, che sono un’entomologa crudele dei miei contemporanei. Mi è sempre sembrato ingiusto, e spesso ci ho pure un po’ sofferto».
«Infatti» – ribatto «spesso sottolineano che lei sia molto cattiva e sarcastica, come se far ridere solo per il gusto di farlo fosse una vergogna, qualcosa che ti bolla come letteratura di serie B, in particolare se sei una donna».
«Sì, e così! Spesso si confonde il comico con la presa in giro, mentre io penso che non ci sia traccia di presa in giro nel mio modo di trattare i personaggi. È davvero sufficiente fare un piccolo passo a lato delle cose per scoprire quanto siamo buffi e ridicoli, tutti. Però su quanto questo sia aggravato dal fatto di essere donna non ho mai davvero riflettuto», risponde, e come potrebbe non essere così, per una scrittrice che sulle proprie opinioni non fa alcun affidamento e che non ci tiene proprio a comunicarle a chicchessia.
«La maggior parte dei suoi personaggi mi dà l’impressione di essere sfinita. Mi sembrano persone stanche che si muovono nella vita con la naturalezza e la fluidità di chi non ha niente da perdere. Per questo sembrano allo stesso tempo stanchi e vivaci, non so bene come spiegarmi. Questa impotenza di fronte alle cose li rende davvero vivi, è come se fossero sempre un tantino ubriachi. Lo sa che in italiano il suo nome suona un po’ come la parola ‘resa’, ovvero ‘capitolazione’, ‘abbandono’ di fronte al nemico?»
«Beh non ho molto da aggiungere a quello che dici. In effetti quando ho cominciato a scrivere, scrivevo istintivamente di persone molto più attempate di me, arrivate un po’ alla fine della corsa. Dentro questa materia potevo attingere a una densità molto più grande di quanta ne trovassi nei personaggi giovani, impegnati nel loro diventare esseri sociali; la trasformazione esistenziale mi ha sempre interessato molto di più. La presenza della morte era già lì, anche allora, quando muovevo i primi passi come scrittrice. Stranamente la morte è anche una presenza vivificante. Ti permette di avere uno spazio per indietreggiare, ti dà un senso di fatalità e di urgenza».
Visto che siamo entrate in argomento, le racconto che di recente qualcuno mi ha detto che avvicinandosi alla morte, ci si ricorda solo delle cose non eccezionali, delle minuzie, e tutto ciò che si desidera è di vivere un’altra giornata normale. Anche questo mi ha ricordato i suoi libri, fondati proprio sul gesto di incrinare la banale patina dell’esistenza, che si tratti di un semplice giro al supermercato, di un’attrice ubriaca in preda a una crisi di gelosia o di un figlio posseduto da Céline Dion. «Che ruolo hanno i particolari e tutto ciò che non è eccezionale nei suoi testi? C’è una dinamica tra queste piccole cose e lo straordinario? Penso ad Auschwitz in Serge, per esempio…».
«Proprio così. Le piccole cose della vita di tutti i giorni, i problemi in casa, l’accartocciarsi del nostro amor proprio, le minuscole ferite, è questa la materia di cui sono fatte le nostre vite. Le miserie elevate al rango di tragedie nel quotidiano. Non sono i grandi eventi. Certo i grandi eventi capitano e ci sconvolgono, ma non sono loro a tessere la vera materia della vita. Questa tensione tra il piccolo, il derisorio e le grandi aspirazioni mi interessa più di ogni altra cosa. Fino a dove l’uomo è capace di districarsi dalle sue miserie in nome di un ideale morale? Non sono sempre, o quasi, le miserie ad averla vinta?».
Forse sì, e a proposito di miserie e problemi quotidiani, non posso che complimentarmi con lei per il suo modo magistrale di descrivere le litigate, in cui a partire da una sciocchezza si arriva alla disperazione più nera, in un effetto valanga al contempo assurdo e incredibilmente vicino al reale: «Ogni volta che litigo ferocemente con qualcuno penso a lei», le confesso, lei mi ringrazia ridendo e finiamo a parlare del controllo, nel campo della scrittura più che delle relazioni umane, visto che quest’ultimo a quanto pare scarseggia. «Ma lei è pienamente cosciente di quello che fa, mentre scrive? Uno scrittore, per essere maturo, deve sapere esattamente quello che sta facendo, mentre lo fa? Spesso si dice che uno scrittore è grande quando arriva a controllare pienamente la sua materia, quando sa esattamente dove sta andando, ma tutto questo non le fa un po’ tristezza? Da come parla mi sembra che sia spesso la scrittura a controllare lei, per fortuna».
«È proprio così, infatti io non controllo proprio niente, tranne il ritmo! Ma il ritmo è tutto. È lo scalpello, o la gomma, a scrivere. Insomma, chi se ne frega dell’immagine, quello che voglio dire è che si scrive con tutto quello che ci si decide a tagliare. Scrivi con la materia che tagli. Io faccio così. Rileggo e vado di scalpello, ritmicamente. Questo sì che lo controllo, anche in maniera piuttosto frenetica. La scrittura mi consola e mi salva».
James Brown si metteva i bigodini
Come i fan di Yasmina Reza ricorderanno senz’altro, nella variegata congerie di personaggi che animavano le pagine di «Felici i felici» spiccavano i coniugi Hutner: una coppia equilibrata, affiatatissima, alle prese con una tragedia dai risvolti farseschi – il ricovero in un istituto psichiatrico del figlio Jacob, fermamente convinto di essere Céline Dion. Se il romanzo ci lasciava con il dubbio di cosa ne fosse stato di loro, questa pièce «leggera e impalpabile come una meringa» (così l’ha definita un critico teatrale del «New York Times») ce li fa ritrovare - affranti e smarriti, ma risoluti a fare buon viso a cattivo gioco - in visita alla clinica, immersa in un parco lussureggiante, dove Jacob / Céline trascorre quello che considera semplicemente un periodo di riposo in vista di una lunga tournée.
Visualizza eBookSerge
Yasmina Reza possiede un orecchio assoluto per «la musica degli uomini e delle donne», e il talento di riprodurla creando personaggi indimenticabili, di cui mette a nudo i lati comici non meno di quelli patetici. Senza sarcasmo, tiene a precisare lei stessa, ma con profonda empatia, poiché tutti sono minacciati dall’insignificanza e dalla malinconia, dallo sfacelo della vecchiaia e dal tempo, che incessantemente ci sottrae la memoria pur non riuscendo a cancellarla completamente.
Visualizza eBookIl dio del massacro
Fin dalle primissime battute di questa commedia al tempo stesso esilarante e feroce appare chiaro perché Roman Polanski abbia deciso di portarla sullo schermo – e perché attori come Isabelle Huppert, Ralph Fiennes e James Gandolfini abbiano voluto interpretarla a teatro. Poche volte, infatti, un autore è stato capace di squarciare con altrettanto soave crudeltà i veli destinati a ricoprire la costitutiva barbarie della creatura umana.
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«Felici gli amati e gli amanti e coloro che possono fare a meno dell’amore. Felici i felici»: questa «beatitudine» di Borges, da cui Yasmina Reza ha tratto il titolo del suo romanzo, ci dà subito una chiave per penetrare nel fitto intreccio delle vite che lo popolano. Se infatti uno dei personaggi, una donna, afferma: «Le coppie mi disgustano, mi disgusta la loro ipocrisia, la loro presunzione, la loro vieta connivenza», un altro dichiara al suo analista: «Quando sono a casa ho sempre paura che arrivi qualcuno e veda quanto sono solo». Perché la felicità – nell’amore o nell’assenza di amore, all’interno di una coppia o fuori di ogni legame – è un’attitudine.
Visualizza eBookValentina Maini è nata a Bologna nel 1987. Ha conseguito un dottorato in Lingue e letterature straniere e pubblicato racconti e articoli accademici su varie riviste. Nel 2016 esce la sua prima raccolta di poesie, Casa rotta (Arcipelago Itaca) che si aggiudica il Premio Letterario Anna Osti, sezione poesia. La mischia (Bollati Boringhieri, 2020) è il suo primo romanzo.
Questa intervista è apparsa per la prima volta in lingua brasiliana per Editora Ayiné