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La vera storia di Babbo Natale

Di Francesco D'Isa • dicembre 04, 2017



È facile ignorare la stranezza delle cose a cui siamo abituati: basti pensare a Babbo Natale. Un anziano signore barbuto, con un abito importabile, delle renne volanti e la ricorrente mania di consegnare dei doni a tutti i bambini (buoni) del mondo. Ok, è Babbo Natale; ma pensiamoci come se fosse la prima volta. Come si può inventare (per non dire credere a) un personaggio così strambo?

Le leggende però – come le persone – non nascono dal nulla, ma dall’aggrovigliarsi delle storie, inoculate nelle parole e sparse come polvere nello spazio e nel tempo. A voler seguire Brian Handwerk, autore del National Geographic, la storia di Babbo Natale inizia nel 280 d.C., in un luogo ben lontano dal Polo Nord, ovvero a Mira, nell’attuale Turchia – perché sì, Babbo Natale è turco, con buona pace dei white supremacist in cerca di doni.

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La storia di Babbo Natale inizia nel 280 d.C.


All’epoca si chiama Nicola, è vescovo e fa così bene il proprio lavoro che nel 313 Costantino lo canonizza santo. Inoltre il giovane Babbo Natale è magro, porta una barba molto più corta e ha il naso rotto, forse per via di un incidente durante le persecuzioni contro i cristiani, per cui finì persino in carcere. Difficile immaginarlo nell’atto di distribuire doni ai bambini (per non parlare dei vestiti e delle renne), eppure intorno al 1200 al santo viene attribuito un miracolo che lo investe protettore dell’infanzia. Nicola, infatti, non solo scopre un serial killer dell’epoca, un locandiere che uccide dei bambini e li cucina per gli avventori, ma resuscita anche le vittime – un miracolo ardito, considerato che erano state mangiate.

Il culto di San Nicola si unisce così alla tradizione dei doni per l’infanzia e si diffonde in tutta Europa. Lungo il suo viaggio verso nord il santo conosce nuovi amici, viene scambiato per altri (come il Saturno romano e l’Odino nordico) e cambia spesso nome e abito. Impara a volare, per via della questione dei regali, e già che c’è controlla che i bambini preghino con solerzia. Con la riforma protestante rischia il licenziamento, assieme a molti dei suoi santi colleghi, e il suo compito viene momentaneamente assolto da folletti e demoni quali i nordici Krampus; delle creature infernali che, più che premiare i bambini buoni, amano punire quelli cattivi. In questa fase oscura di Babbo Natale (l’adolescenza?) nascono gli antenati dei suoi futuri e più benevoli associati magici, quali le renne volanti.

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In seguito, come molti europei, anche Nicola emigra in America, dove ingrassa e assume il nome con cui è celebrato dagli emigranti olandesi: Sinterklaas, poi Santa Claus. Nel nuovo mondo il Natale viene celebrato per lo più con delle grandi sbronze ed è solo nell’Ottocento, grazie all’opera di scrittori e poeti dell’epoca, che si trasforma in una festa per famiglie.

Già nel 1809 Washington Irving immagina un Nicola che passa sui tetti con un carro volante, carico di regali per i bambini buoni, ma il ruolo più importante lo rivestono due poesie. La prima è The Children’s Friend (1821), del prete calvinista Arthur J. Stansbury, a cui segue dopo solo due anni A Visit from St. Nicholas, anonima, in cui appare per la prima volta la descrizione fisica di Santa Claus. È grazie al successo di questa filastrocca, infatti, che Nicola sposta le celebrazioni dal 6 dicembre (onomastico del santo) al 24-25 dicembre, perde i caratteri demoniaci e diventa il buontempone cui siamo abituati:

[...] He was dressed all in fur, from his head to his foot,

And his clothes were all tarnished with ashes and soot.

A bundle of toys he had flung on his back,

And he looked like a peddler just opening his pack.

His eyes how they twinkled! His dimples how merry,

His cheeks were like roses, His nose like a cherry.

His droll little mouth was drawn up like a bow,

And the beard of his chin was as white as the snow.

The stump of a pipe he held tight in his teeth,

And the smoke it encircled his head like a wreath.

He had a broad face, and a little round belly

That shook when he laughed, like a bowl full of jelly.

He was chubby and plump, a right jolly old elf,

And I laughed when I saw him in spite of myself.

A wink of his eye and a twist of his head

Soon gave me to know I had nothing to dread. [...]

Tradotto in prosa:

“Era vestito di pelliccia dalla testa ai piedi, con gli abiti tutti macchiati di cenere. In spalla portava un sacco di giocattoli che lo rendeva simile a un venditore ambulante. Gli brillavano gli occhi, aveva delle allegre fossette, guance simili a rose e il naso come una ciliegia. La sua buffa bocca disegnava un piccolo arco, la barba era bianca come la neve. Teneva una pipa tra i denti e il fumo gli circondava la testa come una corona. Aveva il viso largo e un po’ di pancia, che, quando rideva, si agitava come una ciotola di gelatina. Era grassottello e paffuto come un vecchio, allegro folletto, e quando l’ho visto ho riso mio malgrado. Ma lui, con un occhiolino e un cenno della testa, mi ha fatto capire che non avevo nulla da temere.”.

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Insomma, è Babbo Natale. A completare la nuova identità ci pensa l’illustratore Thomas Nast, la cui opera viene in seguito ripresa e rielaborata dai pubblicitari della Coca-Cola. Quanto al carattere del celebre dispensatore di doni, le origini cristiane e pagane vengono dimenticate e il nostro Nicola (ora Santa Claus), giunto al bivio dell’età anziana, tra incattivirsi e rabbonirsi sceglie quest’ultima strada.

Per il mutare del carattere si deve ringraziare soprattutto Dickens, che nel suo Canto di Natale sancisce una volta per tutte “lo spirito del natale” – e lo fa proprio attraverso il suo più terribile detrattore: l’avaro e crudele usuraio Ebenezer Scrooge, il personaggio su cui Carl Barks modellò Zio Paperone. Dalla Turchia al polo, dunque, Nicola ha mutato spesso di abiti, di modi e di ruoli – unica costante, prima ancora del Natale: l’amore per il viaggio.


Canto di Natale di Charles Dickens

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Francesco D’Isa (Firenze, 1980), di formazione filosofo e artista visivo, dopo l’esordio con I.(Nottetempo, 2011), ha pubblicato romanzi come Anna (effequ 2014), Ultimo piano (Imprimatur 2015), La Stanza di Therese (Tunué, 2017) e saggi per Hoepli e Newton Compton. Direttore editoriale dell’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste.



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