Le ceneri di Pasolini
Per comprendere la portata dell’opera e della figura di Pier Paolo Pasolini, figura tra le più discusse, scandalose e influenti del secondo Novecento italiano, non si può prescindere dalla sua tempestosa e tragica biografia.
Solo meditando sull’intreccio inestricabile di vita e opera, di pubblico e privato, di sacro e profano, solo abitando questo dissidio ossessivamente dichiarato (in un fiero capovolgimento, insieme narcisistico e masochista dello schema borghese di “vizi privati e pubbliche virtù”). vissuto fino alle estreme conseguenze dall’autore, possiamo cogliere tutta la sua grandezza, tutta la sua complessità, tutte le sue dolenti contraddizioni.
Scandalo e contraddizione, temi portanti fin dalla sua prima raccolta poetica in italiano, Le ceneri di Gramsci, che sancirà l’inizio del “Pasolini” più noto.
Scandalo e contraddizione che hanno segnato come uno marchio infamante e, insieme, un dono carismatico qualsiasi possibile discorso inerente alla figura dell’intellettuale bolognese, cresciuto in Friuli e cantore della Roma sottoproletaria.
Pasolini ha rappresentato una figura osteggiata con furore persecutorio in vita, derisa e oltraggiata nella morte, eretta a santino di martire laico e, pur comprensibilmente, di “profeta” inascoltato, secondo una formula ormai obbligatoria quanto inerte.
Musealizzare Pasolini, irreggimentare in una celebrazione istituzionale la sua dirompente carica eretica significa neutralizzare, sterilizzare l’urgenza apocalittica delle sue visioni.
Proprio per questo, appare impossibile riassumere, in questa sede, l’imponente vastità, frammentaria e multiforme, dell’opera pasoliniana: parliamo di un intellettuale che ha espresso le sue riflessioni in poesia, romanzi, film, articoli, saggi, conferenze, e pur all’interno di questa espressività proteiforme ha continuamente cambiato stile, genere, per l’appunto, forma.
D’altro canto, è evidente come, proprio nel costante, irrequieto divenire della sua urgenza espressiva, Pasolini abbia sostanzialmente ripetuto sempre la stessa cosa: ovvero la testimonianza incessante (in forma di poesia autobiografica, di analisi sociologica, di rilettura dei classici tragici) di questa sua lacerante e feconda contraddizione umana, filosofica, ideologica, si ardirebbe dire ontologica.
Dunque, in occasione del centenario di una figura così irriducibile alla retorica celebrativa, è proprio attraverso questa lente che intendiamo leggere la sua biografia.
Contraddizione che dilania, sia ideologicamente che sentimentalmente, il giovanissimo Pasolini fin dal rapporto con la figura, ossessivamente amata, del fratello, partigiano della Brigata Osoppo ucciso durante la Resistenza dai partigiani comunisti della Brigata Garibaldi.
Contraddizione che appare germinale e fondativa in clamorosa evidenza leggendo à rebours le stupende poesie giovanili in friulano raccolte ne La meglio gioventù: l’innocenza prossima al Pascoli (poeta sul quale Pasolini stava preparando la tesi in quegli anni), l’incanto musicale di una vera e propria lingua locale (al cui studio il giovane autore aveva dedicato una piccola accademia, appunto l’Academiuta di lenga furlan), il rapporto sognante idilliaco e sognante con la natura sono l’Alfa di un produzione che avrà nell’inferno sadiano di Salò- Le centoventi giornate di Sodoma il suo Omega.
Non è un caso che un genio cultore dell’estremo e dell’eccesso come Carmelo Bene vedrà proprio in questi opposti irriconciliabili le vette dell’opera pasoliniana: “il miglior Pasolini è in Salò-Sade, se si esclude il Pier Paolo traduttore e filologo, miglior fabbro di sua lingua friulana” (da Contro il cinema).
Eppure, quell’innocenza verrà proprio infranta dalla prima grave accusa, il primo processo che, al di là dell’esito giudiziario, condannerà Pasolini al dolente esilio verso la Capitale: il famoso processo del Ramuscello, le accuse infamanti di corruzione dei minori (stigma che gli rimarrà marchiato addosso per tutta la vita), poi ridotte ad atti osceni in luogo pubblico per assenza di denunce, e la conseguente espulsione dal Partito Comunista “per indegnità morale e politica”.
Ed è proprio questo trauma seminale a far esplodere nella piena lucidità dei versi de Le Ceneri di Gramsci la citata contraddizione.
Giunto a Roma, ormai da anni, davanti alla tomba del padre fondatore del comunismo italiano, Pasolini, in un simbolico atto di cesura col passato, testimonia la sua scissione interiore con versi memorabili:
“Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere”.
Da ciò scaturisce il perenne divenire della contraddittoria e furente “disperata vitalità” pasoliniana.
Come ebbi modo di scrivere poco più che ventenne nel libro Novecento Letterario Italiano e Europeo, antologia letteraria coordinata da Giovanni Casoli per Città Nuova: “Tutta la complessa e multiforme grandezza del percorso pasoliniano nasce da questa originaria lacerazione, nel suo ripetersi ossessiva, ma di volta in volta arricchita e ulteriormente complicata nelle innumerevoli variazioni inseguite dalla sua continua, inappagabile ricerca formale: ricerca che non si esaurisce nel passaggio vorticoso tra differenti linguaggi artistici (dalla poesia alla critica ai romanzi al cinema al teatro), ma conosce un’incessante tensione sperimentale anche all’interno dei singoli linguaggi stessi (la poesia dal dialetto alla lingua, dalla terzina dantesca al magma beat, ma analogo discorso si può fare, con la crescente acquisizione tecnico-stilistica, per il cinema).”.
Come è ben noto, la scoperta della Capitale per Pasolini rappresenta l’incontro con due realtà antitetiche: l’epifania dei “ragazzi di vita” nelle periferie, adorati nella loro paradossale innocente ferocia; il rapporto di amore/odio con l’intellighenzia dei salotti e dell’industria cinematografica.
La realtà quotidiana di Roma, nel suo barocco contrasto di gloria e degrado, di violenza e sacralità, di corruzione e umanità, sarà il teatro provvidenziale e tragico per vivere sulla scena pubblica le laceranti scissioni interiori dell’autore.
Da un lato questo porterà, dopo il congedo dagli anni della gioventù friulana ne Il sogno di una cosa, ai celebri romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta, il cui grande valore storico è anche nell’aver infranto l’ipocrita distanza tra letteratura e realtà, grazie al loro ardito e impressionante realismo, fin dal linguaggio, attraverso un uso del vernacolare romanesco diverso dal barocco espressionismo gaddiano, più improntato a una restituzione fedele, benché trasfigurata letterariamente, della brutale legge della sopravvivenza nella periferia capitolina.
Se è vero che Belli, secondo Bruno Cagli, è l’unico poeta accostabile nella storia della letteratura italiana a Dante (ma a quello dell’Inferno), dopo Belli forse nessuno ha compreso, amato e testimoniato l’anima popolare romana quanto Pasolini.
Come scrisse in Vie nuove nel ‘58: “la pura vitalità che è alla base di queste anime, vuol dire mescolanza di male allo stato puro e di bene allo stato puro: violenza e bontà, malvagità e innocenza, malgrado tutto”.
Dall’altro, la riflessione sul linguaggio (che è sempre “linguaggio della realtà” come gli aveva insegnato l’ereticamente amato Marx) condurrà via via Pasolini a trasporre la sua ricerca sul piano cinematografico, mettendo in scena i corpi amati dei giovani sottoproletari in Accattone e Mamma Roma e teatrale, con la creazione del Teatro di Parola contrapposto al “Teatro di Chiacchiera” (di disimpegno) e al “Teatro di Gesto-Urlo” (d’avanguardia).
Questa tensione formale si scioglierà solo, in un’intuizione poetica stupenda per la sua semplicità quasi zen, in quella sintesi tra teologia negativa e saggezza popolare che è il finale di Che cosa sono le nuvole?, quando Totò-Iago dice a Ninetto-Otello “La verità…appena la nomini, non c’è più”; una teologia negativa rovesciata nello stupore mistico dell’ultimo verso, in cui gli uomini-burattini, gettati come in un’apocalisse gnostica da un indifferente demiurgo nella spazzatura, prima di morire orribilmente sospirano: “O straziante meravigliosa bellezza del Creato!”.
Questo rapporto col Sacro, intriso di contemplazione pittorica e di estetismo (Bene parlerà anni dopo di “dannunzianesimo inconfessabile" ma Pasolini stesso aveva ammesso: “la mia cultura è inseparabile dal mio estetismo”), animerà la restituzione fedele de Il Vangelo secondo Matteo, la potente allegoria de La Ricotta il recupero in chiave freudiano-marxista delle tragedie greche in Medea ed Edipo Re, l’urlo ferino al termine dell’iniziazione erotica in Teorema.
Pasolini, l’autore blasfemo per definizione secondo il bigottismo imperante nell’Italia dell’epoca, sarà il primo a sancire, discutendo di un progetto mancato su un film ispirato a Paolo di Tarso: “Io sono sempre più scandalizzato dalla mancanza di senso del Sacro dei miei contemporanei”.
Del resto, per tornare ad avvitarci sulla contraddizione feconda e letale dell’animo pasoliniano, sarà sempre lui ad affermare: “Dio è lo scandalo”, parlando del già citato di Teorema: film che mette in scena le conseguenze devastanti quanto illuminanti dell’irruzione seducente e violenta del Divino, l’Adorabile di Rimbaud incarnata da Terence Stamp, dalle fattezze apollinee ma dall’animo dionisiaco, nella quotidianità borghese.
E proprio sul rapporto tra Sacro ed Eros si giocherà la scommessa più ardita e drammaticamente perduta della “profeticità” pasoliniana: non parlo de Il Pci ai giovani!, la polemica poesia-manifesto del ‘68 in cui, commentando gli scontri di Valle Giulia, si schierava con i poliziotti contro gli studenti, e che gli meritò gli sputi in quanto “fascista di sinistra” da parte di militanti esaltati quanto miopi:
Avete facce di figli di papà/ Vi odio come odio i vostri papà./ Buona razza non mente./ Avete lo stesso occhio cattivo./ Siete pavidi, incerti, disperati./ Benissimo! Ma sapete anche come essere/ prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:/ prerogative piccolo borghesi, cari./ Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte/ coi poliziotti, /io simpatizzavo coi poliziotti./ Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Non parlo nemmeno nemmeno del celeberrimo articolo “Io so” del 14 novembre 1974, pubblicato sul Corriere della Sera:
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68 (...) Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
(da Scritti Corsari)
O dell’altrettanto celebre frammento di Petrolio sulla bomba alla stazione di Bologna:
“La bomba e’ fatta scoppiare: un centinaio di persone muoiono, i loro cadaveri restano sparsi e ammucchiati in un mare di sangue, che inonda, tra brandelli di carne, banchine e binari. (…) La bomba viene messa alla stazione di Bologna. La strage viene descritta come una ‘Visione””.
(da Petrolio)
Insomma, non mi riferisco alle litanie più celebri con cui si invoca in preghiera il Santo Profeta Martire Pier Paolo. Mi riferisco alla riflessione per me più radicalmente e tragicamente profetica, ovvero l’Abiura della Trilogia della Vita:
La lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza. Secondo: anche la “realtà” dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico; anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana.
(da Lettere Luterane)
Lo sdoganamento dell'erotismo e della pornografia, mascherata da tolleranza, per Pasolini rappresentavano la vittoria definitiva del Potere.
Queste sono le riflessioni che condurranno alle più celebri, e definitive, sentenze sul "mutamento antropologico", sull’ ”omologazione” e sull’anarchia del potere, raccolte durante le riprese del suo ultimo film nel 1975 e inserite da Giuseppe Bertolucci nel suo film documentario Pasolini prossimo nostro: “Nulla è più anarchico del potere. Il potere fa praticamente ciò che vuole. E ciò che il potere vuole è completamente arbitrario o dettato da sua necessità di carattere economica, che sfugge alle logiche razionali. Io detesto soprattutto il potere di oggi. Ognuno oggi ha il potere che subisce, è un potere che manipola i corpi in una maniera orribile e che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o Hitler. manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore istituendo dei nuovi valori che sono valori alienanti e falsi. I valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama: “un genocidio delle culture viventi”. Sono caduti dei valori e sono stati sostituiti con altri valori, sono caduti dei modelli di comportamento e sono stati sostituiti con altri modelli di comportamento. Questa sostituzione, non è stata voluta dalla gente, dal basso, ma sono stati imposti dagli illustri del sistema nazionale. Volevano che gli italiani consumassero in un certo modo e un certo tipo di merce e per consumarlo dovevano realizzare un altro modello umano…Il regime, è un regime democratico, però quella acculturazione, quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere, il potere di oggi, il potere della società di consumi è riuscito a ottenere perfettamente, distruggendo le varie realtà particolari. questa cosa è avvenuta talmente rapidamente che noi non ce ne siamo resi conto. È stata una specie di incubo in cui abbiamo visto l’Italia intorno a noi distruggersi, sparire e adesso risvegliandoci forse da quest’incubo e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare…”. Riflessioni scaturite sull’orlo, appunto, dell'abisso sadiano di Salò che, con inquietante coincidenza, aprirà la Trilogia della Morte interrotta proprio per la morte, reale quanto anch’essa profetizzata (in Bestia da stile si vedrà “ebbro d'erba e di morte”), dell’autore.
Sulla morte di Pasolini si è scritto moltissimo, forse troppo: personalmente, spero di aver dato un umile contributo al dibattito, intervistando diverse figure, da David Grieco, Carla Benedetti e Giovanni Giovanetti, che stanno cercando da anni di ricostruire la verità occulta di quella notte maledetta all’Idroscalo in opere come La macchinazione e Frocio e basta.
Dal punto di vista della ricezione critica è significativo ciò che emerso nei decenni successivi alla morte del poeta: dopo la prima ondata di calunnie a sfregiare il cadavere ancora caldo e già sfigurato del poeta, negli ultimi trent’anni si è assistita a una vera e propria renaissance pasoliniana.
Momento cruciale è stata senza dubbio la pubblicazione post-mortem di Petrolio nel 1992.
All’opera, incompiuta, frammentaria, disturbante ma cruciale (che Pasolini definì in una nota lettera una summa “di tutte le mie esperienze, le mie memorie”), è legata la testimonianza di Emanuele Trevi in Qualcosa di scritto: libro intrigante, astutamente ibrido quanto traboccante di sincerità, sospeso tra la memoria personale della ricostruzione filologica di Petrolio, l’autobiografia burrascosa (Trevi descrive i suoi anni al Fondo Pasolini, accanto a Laura Betti, dispotica e commovente) e saggio simbolico sui rapporti tra il tema dell’Androgino e Misteri Eleusini. Trevi scrive di Petrolio: "fin dal momento della prima concezione, è un libro sacro, un annuncio, una rivelazione. Le gesta sovrannaturali dei suoi burattini allegorici rimandano a un processo in atto, a una verità che sta accadendo".
Dal punto di vista cinematografico, non possiamo non citare Pasolini, un delitto italiano di Marco Tullio Giordana (1995) e Le ceneri di Pasolini di Alfredo Jaar (2009). Sorvoliamo, invece, sulla ricostruzione, fedelissima dal punto di vista estetico e documentale ma superficialmente estetizzante, di Abel Ferrara nel film Pasolini, ricordando la conseguente risposta de La Macchinazione di David Grieco, film da vedere non dal punto di vista cinematografico ma come occasione di riflessione sulle relative indagini alla morte del poeta.
Per chi volesse, invece, conoscere del poeta “le suture più delicate dei sentimenti”, come in un suo celebre verso de Le belle bandiere, raccomandiamo la lettura delle lettere.
Ciò che emerge, nei contrasti e nelle incomprensioni con gli amati amici Moravia e Morante, è la lucidità spietata di chi viveva, come spesso detto, il proprio dono “profetico” come una maledizione.
In questo senso, uno dei momenti più drammatici dell’incomprensione tra la “veggenza” pasoliniana e i suoi contemporanei è la polemica con Italo Calvino sul massacro del Circeo in cui si insiste: “la nuova cultura ha distrutto cinicamente (genocidio) le culture precedenti, da quella tradizionale borghese, alle varie culture particolaristiche popolari”.
Un urlo inascoltato e considerato ridicolmente conservatore a sinistra, che solo oggi probabilmente riusciamo a comprendere nella sua disperante lucidità.
Erano anni che Pasolini insisteva nella distinzione tra Sviluppo e Progresso.
Erano anni che denunciava l’avvento di una Nuova Preistoria.
Ma più gettava il suo sguardo “in avanti”, più veniva esiliato nel presente, cercando magari in un Altrove solo apparentemente esotico le proprie radici (https://www.kobo.com/it/it/ebook/l-odore-dell-india-1).
Definitiva in questo senso è la sintesi poetica di Poesia in forma di rosa:
Io sono una forza del passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno d'ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.
E in questo nodo drammatico della contraddizione fondativa nell’animo pasoliniano si ritrova tutto il senso tragicamente “religioso” dell’opera pasoliniana: nel senso etimologico (affine a quello di “yoga”) di “rilegare”.
Tutta l’opera appare un tentativo di ricercare il legame con un’unità smarrita nella frattura interiore della giovinezza: dall’incanto naturale delle poesie giovanili alla impossibilità castrante dell’Androginia in Petrolio, passando per la dispersione infinita delle “piccole morti” donate ai ragazzi di vita, dalla contemplazione dei Manieristi alla rilettura di Eschilo, in tutto si avverte il senso della ricerca di un ritorno all’unione creaturale con le proprie radici, con la propria storia e con la propria natura. Probabilmente, è in questa luce che dobbiamo rileggere le parole conclusive dell’intervento con cui Pasolini avrebbe dovuto leggere all’indomani della sua morte al congresso del Partito Radicale.
Parole che, al di là della funerea coincidenza, hanno la forza e la passione di un vibrante testamento intellettuale:
Voi non dovete far altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare.

Scritti corsari
L'invisibile rivoluzione conformistica di cui Pasolini parlava con tanto accanimento e sofferenza dal 1973 al 1975, non era affatto un fenomeno invisibile. Chi ricorda anche vagamente le polemiche giornalistiche di allora, a rileggere questi Scritti corsari può restare sbalordito. Il fatto è che per Pasolini i concetti sociologici e politici diventavano evidenze fisiche, miti e storie della fine del mondo. Finalmente, così, Pasolini trovava il modo di esprimere, di rappresentare e drammatizzare teoricamente e politicamente le sue angosce. di parlare in pubblico del destino presente e futuro della società italiana, della sua classe dirigente, della fine irreversibile e violenta di una storia secolare.
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Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday
Il cinema, il rapporto col cinema e col suo mondo è l’argomento principale di queste conversazioni tra il critico inglese Jon Halliday e Pier Paolo Pasolini. Halliday ritraccia con Pasolini l’intero suo percorso di regista, illustrandone la concezione del «cinema d’autore», affrontando gli aspetti tecnici, analizzando le opere, chiarendo la posizione di Pasolini di fronte alla censura. Ma la ricchezza della personalità dell’intervistato, la curiosità dell’intervistatore, la varietà d’interessi di entrambi fanno sì che la conversazione spesso si dilati, si appropri di altri temi. Si aprono rapidi, vivissimi scorci su certi momenti della vita di Pasolini: gli anni giovanili, il Friuli, Bologna, la scoperta di Roma, il formarsi delle amicizie.
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L’autore di Ragazzi di vita, il regista del Vangelo secondo Matteo, la voce anticonformista degli Scritti corsari. Pier Paolo Pasolini era tutto questo e molto altro ancora. Un intellettuale a tutto tondo, forse l’ultimo grande artista ‘rinascimentale’: poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, editorialista e drammaturgo, ma anche un uomo mite e gentile che sopravvive nel ricordo di molti per la sua genuinità. Scrisse la sua prima poesia all’età di sette anni e non smise più, non durante la Seconda guerra mondiale, né nei suoi primi difficili anni a Roma, né dopo, quando cinema e scrittura lo portarono alla notorietà.
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Visualizza eBookAdriano Ercolani nasce a Roma il 15 giugno 1979. Tra i principali collaboratori di Giovanni Casoli in "Novecento Letterario Italiano e Europeo", nel suo percorso onnivoro e febbrile ha tralasciato ben poco, dalla letteratura alla musica classica e contemporanea, dal cinema ai fumetti, dalla gastronomia alla filosofia orientale. Collabora con Tlon Editore e pubblica interventi e approfondimenti su numerose testate.