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Le Giovani Parole di Mariangela Gualtieri

Di Rosa Carnevale • febbraio 09, 2022

La poesia è la rivelazione di un sentimento che il poeta crede che sia personale e interiore e che il lettore riconosce come proprio.

(Salvatore Quasimodo)

C’è qualcosa nella poesia che la rende forse la forma più adatta e perfetta per cogliere gli avvenimenti e i piccoli battiti di ali nelle pieghe del nostro tempo: è la sua sinteticità ma anche il suo incedere frammentato, a volte discontinuo. La schizofrenia del nostro vivere quotidiano si riflette perfettamente nel linguaggio poetico. La poesia è la lingua del contemporaneo, un contemporaneo frantumato, affilato come uno specchio rotto. I versi sono la testimonianza perfetta di questa rottura ma sono anche il collante, l’anello di congiunzione che salda e tiene uniti, che ci riavvicina a un senso del tempo meno rapace e più lento.

Con la musica, la poesia condivide quasi gli stessi binari, procedendo su rette che, anche quando appaiono distanti, a volte convergono momentaneamente per incontrarsi.

In entrambi i casi, oralmente, di fronte a suoni e parole, una comunità si mette all’ascolto. È quello che è successo solo pochi giorni fa sul Palco dellAriston, durante la quarta serata di Sanremo dedicata alle cover, quando Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, ha dedicato un pezzo del suo monologo a Mariangela Gualtieri, scrittrice originaria di Cesena, leggendo una delle sue poesie.

“In questi due anni di pandemia - ha dichiarato Jovanotti - mi ha aiutato la poesia. La poesia riempie i vuoti, ti lascia davanti ad un abisso, al cielo. Tu sei lì in mezzo ma riesci a non sentirti solo, ti accorgi che nel tempo, anche il più lungo, la poesia ha parlato di cose che neanche tu sapevi, risponde a domande che neanche tu ti sei fatto. È stata una compagnia importante”.

È con la poesia che entriamo in contatto con noi stessi e con la creazione. Ce lo ricorda il termine stesso con la sua etimologia greca che fa riferimento al "fare" e al "creare". E la creazione, da sempre, ha a che fare con il femminile.

Tra le voci contemporanee legate alla poesia oggi ci sono diverse donne, fortunatamente. Anche nel nostro Paese. Da Antonia Pozzi ad Amelia Rosselli, passando per le più vicine Chandra Livia Candiani o Maria Grazia Calandrone. La poesia ai nostri giorni è finalmente anche un mestiere per donne, anche se i manuali scolastici, che raramente arrivano al contemporaneo, non sembrano ancora volercelo insegnare. La scarsità di figure femminili nel panorama letterario non è mai stata dovuta infatti all’assenza di talento creativo ma sempre a fattori storico-ambientali che per molti secoli hanno tenuto le donne lontane da attività di questo tipo, impedendo a molte di potersi esprimere liberamente. Oggi, i loro versi possono essere apprezzati e a volte riscoperti.

Tra queste voci c’è anche quella di Mariangela Gualtieri, che Jovanotti ha voluto far conoscere al largo pubblico di Sanremo. Con Gualtieri, in particolare, Lorenzo Cherubini ha stretto un sodalizio che dura da qualche anno. I suoi versi hanno tanto affascinato il musicista da spingerlo a chiedere alla scrittrice alcuni testi per la sua rivista Sbam! Nel 2018, poi, i due avevano aperto insieme la rassegna a cura del Teatro Valdoca dal titolo Ciò che ci rende umani.

Bello Mondo, la poesia letta a Sanremo, è tratta da una raccolta di Gualtieri del 2015, Le Giovani Parole, edita da Einaudi. Si tratta di un lungo componimento di 94 versi liberi per cui l’autrice è stata insignita dei premi Mauro Maconi nel 2015 e Brancati nel 2016. La poesia è un vero e proprio inno alla vita e ai suoi doni, che ricorda da vicino il Cantico delle Creature di San Francesco.

In quest’ora della sera
da questo punto del mondo
Ringraziare desidero il divino
labirinto delle cause e degli effetti
per la diversità delle creature
che compongono questo universo singolare
ringraziare desidero
per l’amore, che ti fa vedere gli altri
come li vede la divinità
per il pane e il sale
per il mistero della rosa
che prodiga colore e non lo vede
per l’arte dell’amicizia
per l’ultima giornata di Socrate
per il linguaggio, che può simulare la sapienza
io ringraziare desidero
per il coraggio e la felicità degli altri
per la patria sentita nei gelsomini

Io ringraziare desidero

per Borges

per Whitman e Francesco d’Assisi

per Hopkins, per Herbert

perché scrissero già questa poesia,

per il fatto che questa poesia è inesauribile

e cambia secondo gli uomini

e non arriverà mai all’ultimo verso.

Si tratta di un piccolo talismano di ricchezza da conservare per questi tempi incerti. Solo uno dei regali che ci ha fatto in questi anni Mariangela Gualtieri.

Come per molti scrittori, la poesia per la cesenate è stata da subito un’urgenza. Già da bambina riempiva quaderni e fogli con i suoi versi che teneva accuratamente nascosti da occhi indiscreti, cullata dal senso di liberazione che provava seguendo la parola scritta. Un giorno, all’età di sette anni circa, una compagna della sorella, più grande di lei di età e di cui Mariangela Gualtieri aveva grande stima, vedendo quelle piccole composizioni le chiese perché scrivesse quelle stupidaggini. Questo semplice aneddoto, un’incomprensione nata da uno di quei giudizi feroci che possono dirsi tra bambini, spiega perché la scrittrice abbia smesso di comporre. Fino all’età di quarant’anni.

Terminati gli studi in architettura allo IUAV di Venezia, con Cesare Ronconi, compagno di una vita e “sposo”, come lei stessa ama definirlo, fonda negli anni Ottanta a Cesena il Teatro Valdoca, compagnia teatrale dove la sperimentazione linguistica diventa cardine del lavoro. Dopo alcuni anni passati a fare l’attrice ma senza sentirla come la propria vocazione, Gualtieri inizia a portare sul palco le parole dei grandi poeti. Le recita, le riscrive oralmente. A guidarla ci sono i maestri della parola: Rilke, Eschilo, Celan, Rosselli, De Angelis. Li ascolta a lungo e poi decide che è pronta per dare vita a una sua propria scrittura ispirata. Nascono così i primi testi. Inizialmente con timore e un senso di disagio che la incatena, poi con sempre più naturalezza.

Ecco che arrivano, così, come una sorta di invocazione, i versi di Antenata (Crocetti, prima edizione 1992, ripubblicato dalla stessa casa editrice nel 2020), la prima raccolta dell’autrice.

Parlami che

Io ascolto parlami che

Mi metto seduta e ascolto

Metto una mano sull’altra

Parlami e ascolto.

Una richiesta di scambio con il sacro e con le presenze invisibili del mondo, in un dialogo che è continuato negli anni, mai più interrotto, e che arriva fino a oggi. I versi sembrano scorrere come involontariamente, seguendo un istinto che viene da fuori. C’è qualcosa di magico e ultraterreno che pare guidare la penna. Antenata è un libro misterioso, che nasce da un’urgenza insopprimibile. Un libro criptico, a cui seguiranno, negli anni, versi più chiari. Dopo questa prima raccolta verranno infatti le parole di numerosi testi, alcuni che seguono esigenze drammaturgiche legate al teatro (come Fuoco Centrale o Caino), altri concepiti come classici libri di poesie (Bestia di gioia, Le giovani Parole o Quando non morivo, editi da Einaudi nella celebre collana “bianca”).

Al centro è sempre la ricerca costante fatta sulla parola. Parola che va cercata, che sembra sempre sfuggire, parola che a volte delude, come scrive Gualtieri in Io sono spaccata (Fuoco Centrale, 1995).

Io sono senza aggettivi, io sono senza predicati,

io indebolisco la sintassi, io consumo le parole,

io non ho parole pregnanti, io non ho parole

cangianti, io non ho parole mutevoli, non ho parole perturbanti,

io non ho abbastanza parole, le parole mi si

consumano, io non ho parole che svelino, io non ho

parole che puliscano, io non ho parole che riposino,

io non ho mai parole abbastanza, mai abbastanza

parole, mai abbastanza parole

ho solo parole correnti, ho solo parole di serie,

ho solo parole del mercato

ho solo parole

fallimentari, ho solo parole deludenti,

ho solo parole che mi deludono,

le mie parole mi deludono, sempre mi deludono,

sempre sempre mi deludono, sempre mi mancano.

Perché anche il dire si confronta spesso con la mancanza. E le parole possono inciampare da un verso all’altro, lasciare degli spazi, chiedere di riempire dei silenzi. È soprattutto leggendo ad alta voce che la poesia di Mariangela Gualtieri si mostra nel suo incedere. Con un ritmo che sembra quello di un battito primordiale, fatto anche di pause ed esitazioni. La parola va letta, detta, pronunciata. A sancire anche il rapporto che Gualtieri evidenzia, da sempre esistente, tra teatro e poesia, come tra teatro e canto. “A me sembra - dirà in un’intervista - che poesia e teatro siano fatti l’una per l’altro. Il teatro chiede una lingua festiva, verticale, almeno il teatro così come lo intendo insieme a Cesare Ronconi, regista dei nostri spettacoli, luogo di stupore e meraviglia, di rivelazione e catarsi. La poesia chiede di vivere oralmente, di uscire dalla pagina scritta e farsi canto, e che ciò avvenga davanti ad una comunità provvisoria in ascolto. Eccoli dunque affratellati questi due imperi, per giunta entrambi derelitti ma carichi di potenze”.

Se con il teatro è chiara la sorellanza, con la canzone, invece, c’è una differenza sostanziale. La canzone non contempla quelle pause di silenzio che legano insieme i versi. È il potere del silenzio, nella poesia, a chiamarci e lasciarci davanti a una pagina bianca, da riscrivere. È questo silenzio che, da sempre, Mariangela Gualtieri ci invita a cercare.

Il silenzio è d’oro

Perché incendia le ore

prepara la fuga e azzoppa

conduce per contrade misteriose.

È d’oro e questo oro

sta sotto tutto il rumore

in una arsura di fracasso

come tesoro sepolto dentro

e cercato altrove.

(Bestia di gioia, Einaudi, 2010)

Negli anni la sua produzione si concentra sul perché del nostro essere al mondo e, sempre più, sull’amore per la Natura. Sono gli animali, le piante, il cielo a diventare il centro di un canto gioioso, sempre più francescano. Mariangela Gualtieri sembra raccontarci del mistero che ci portiamo dentro e che da sempre ci collega all’universo tutto.

Lo senti il firmamento? Come è sereno.

Anche noi siamo dentro.

Abbiamo polverine dentro il sangue

antiche come il cielo,

hanno dentro l'impronta d'un andare

semplice e grande, come le grandi sfere.

Predica ai pesci (da Fuoco centrale, Einaudi 2003)

La parola scritta diventa così conoscenza e nutrimento, cibo dell’anima. “Quando recito i miei versi - ha detto Mariangela Gualtieri - ho la sensazione di dare il seno a degli spiriti denutriti. I nostri corpi si ingrossano costantemente ma c’è una parte di noi interna, mingherlina e affamata, che necessita di qualcosa di cui cibarsi. Niente le dà da mangiare se non la natura, gli animali, i bambini, il cielo. Solo la parola e la poesia riescono a cibarla”.

Nel 2020, durante i primi mesi della pandemia che ci ha colpito tutti duramente, costringendoci a rimanere isolati, chiusi a lungo nelle nostre case, lontani improvvisamente gli uni dagli altri, Mariangela Gualtieri ha dato voce alle nostre paure, scrivendo dei versi che ci hanno cullato e confortati nel vuoto disarmante di quei giorni. Nove marzo duemilaventi ha il titolo di una data che non potremo mai più scordare:

Questo ti voglio dire

ci dovevamo fermare.

Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti

ch’era troppo furioso

il nostro fare. Stare dentro le cose.

Tutti fuori di noi.

Agitare ogni ora – farla fruttare.

Ci dovevamo fermare

e non ci riuscivamo.

Andava fatto insieme.

Rallentare la corsa.

Ma non ci riuscivamo.

Non c’era sforzo umano

che ci potesse bloccare.

La sua preziosa riflessione distillata in piccole frasi lapidarie è quello che la poetessa ci offre per fare luce anche su questi tempi, sui momenti sospesi che abbiamo vissuto, accomunati da un unico destino, quello di essere fratelli sotto lo stesso cielo. Anche in questa tragedia che ci ha investito “c’è dell’oro, forse ci sono doni. Se ci aiutiamo, un forte richiamo, un comune destino”. Siamo uomini. Ed è la poesia a ricordarcelo, è la parola che ci contraddistingue dagli altri esseri.

E se può essere utile la voce di un grande rapper italiano per far conoscere a un pubblico più ampio le parole intagliate di Mariangela Gualtieri, ben venga. Jovanotti a Sanremo ha attraversato il muro della distrazione degli italiani comportandosi come una sorta di cavallo di Troia. Dopo aver cantato e scambiato qualche battuta con Amadeus, ci ha tenuto a declamare i versi di una delle nostre migliori scrittrici e poete.

“Considero la poesia la cosa più importante che esista”, ha dichiarato più volte Lorenzo Cherubini durante incontri e interviste. Ad affascinarlo sono i margini di libertà che ancora sopravvivono in una produzione quasi artigianale, che non vive di meccanismi legati al marketing e al consumo. La poesia non ha vincoli e ha parole che scuotono o che rassicurano, ha silenzi sacri, da custodire anche quando si spengono le luci sulla platea dell’Ariston.

Noi siamo solo confusi, credi.

Ma sentiamo. Sentiamo ancora.

Siamo ancora capaci di amare qualcosa.

Ancora proviamo pietà.

C’è splendore in ogni cosa. Io l’ho visto.

Io ora lo vedo di più.

C’è splendore. Non avere paura.

(Bambina mia, da Quando non morivo, Einaudi, 2019)

Antenata di Mariangela Gualtieri

Mariangela Gualtieri ha dichiarato che la sua carriera di autrice di poesie nasce con i versi “parlami che / io ascolto parlami che / mi metto seduta e ascolto”: è l’incipit di Antenata, la raccolta d’esordio pubblicata da Crocetti nel 1992. Sono versi che risuonano come un’invocazione e una richiesta di scambio con il sacro e con le presenze invisibili del mondo, in un dialogo che è continuato negli anni, ininterrotto.

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Quando non morivo di Mariangela Gualtieri

Prima persona plurale del verbo essere: «siamo» è la voce verbale che attraversa tutta la nuova raccolta di Mariangela Gualtieri. Una voce, per l'appunto, prima ancora che una forma. Una voce che parla da non si sa dove e pronuncia l'essere e l'esserci come evidenza e nello stesso tempo come mistero. Né punto di partenza né punto di arrivo, ma consapevole e accidentato percorso.

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Le giovani parole di Mariangela Gualtieri

È un respiro largo quello che attraversa quest'ultima raccolta poetica di Mariangela Gualtieri, fatto del ritmo delle stagioni e delle generazioni, ascolto del silenzio, risveglio primaverile della terra, ebbrezza di vita connessa a ogni forma della natura. Ma nel libro non manca il lato ombroso, il vento che scuote, le «formiche mentali» che intasano la testa e impediscono il senso più leggero e piú compiuto della gioia.

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Caino. Il buio era me stesso di Mariangela Gualtieri

L'enigma del male, il mysterium iniquitatis, è un fondale che non possiamo non indagare, anche se non siamo capaci dell'immensa apnea che richiede. Questo è il mio primo tentativo, ancora impregnato dell'ombra che ho cercato di attraversare, colpita dalla reticenza di questo tema ad avere una parola definitiva. Non la si potrà mai pronunciare, per fortuna. Nessuno la possiede per intero: chi ha creduto di possederla ha troppo spesso seminato dolore. Io ho potuto solo balbettare.

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Rosa Carnevale (1983), giornalista. Ha collaborato con Artribune, L'Officiel, Rolling Stone Italia, Zero, Grazia.it.

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