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Leggere possedere vendere bruciare

Di Vanni Santoni • luglio 04, 2022

Antonio Franchini è uno degli editor italiani più noti e rispettati – già a capo della narrativa italiana di Mondadori per oltre due decenni, ora dirige quella di Giunti e Bompiani – ma è anche un autore apprezzato dai palati più fini, da poco in libreria con un nuovo libro (pubblicato, come tutti i suoi, da Marsilio), Leggere possedere vendere bruciare, in cui parla proprio di editoria e libri.

Franchini, c'è una frase che non passa inosservata, in Leggere possedere vendere bruciare, in cui lei dice che la vera età d'oro dell'editoria italiana erano… Gli anni Zero.

… E ce ne siamo accorti solo dopo che era finita! Quella battuta deriva da un fatto oggettivo: in quegli anni ci furono una serie di cosiddetti "megaseller", ovvero libri da mezzo milione di copie in su. Un fatto che non aveva precedenti, a quella frequenza, nella storia dell'editoria italiana, e che non si sarebbe ripetuto dopo. L'ironia sta nel fatto che nessuno di noi addetti ai lavori aveva la reale percezione che fosse un momento particolarmente glorioso della nostra editoria – e, certo, valutandolo con altri parametri, magari non lo era.

Tutto il suo libro tende a smitizzare le varie ipotetiche "età dell'oro", quasi che nulla sia cambiato veramente…

Pure, le cose sono molto diverse rispetto a quando ho cominciato. Sono entrato in Mondadori nel 1986 e ricordo bene che in quel periodo uscì Ballo di famiglia di Leavitt, un libro di racconti che vendette quasi ventimila copie; Giancarlo Bonacina era l'editor di straniera e girava per i corridoi con aria di legittima di soddisfazione… Tengo tuttavia a precisare che Leggere possedere vendere bruciare non è un libro delle mie memorie editoriali, non parlo dei libri a cui ho lavorato, mi interessava una riflessione di ordine più generale sui libri dal punto di vista da cui li ho considerati io per la maggior parte della mia vita. Si noterà che l'unica azione potenziale da farsi rispetto ai libri non contemplata nel titolo è proprio quella di scriverli.

Eppure alcuni suoi libri sono tenuti in alta considerazione dalla critica, dagli altri scrittori e dai lettori avveduti. Sia L'abusivo che Cronaca della fine figurarono nella top-100 del Canone stilato da oltre 600 addetti ai lavori per la rivista "L'Indiscreto". Non le è mai venuta la tentazione di mettere lo scrittore davanti all'editor?

È una tentazione che non mi viene, perché ho sempre fatto altro come attività primaria. Lei che è uno scrittore sa che cosa significa fare lo scrittore, e cioè dedicare il grosso del proprio tempo ai libri che si stanno scrivendo e a pensare i successivi. Io, nella mia vita, questo non l'ho mai fatto: è vero che mi sono sempre conservato un progetto letterario da tenere vicino, ma ho sempre considerato la mia scrittura un'attività privata, un'attività dilettantesca. Ne faccio molte, del resto: le arti marziali, la scrittura, la discesa dei fiumi in canoa… Va da sé che le attività dilettantesche possono essere prese molto sul serio, ma ciò non basta a farle diventare professionali, è una questione di approccio, e il mio approccio, ripeto, è quello di un dilettante.

Non negherà che alcuni dei suoi libri hanno anticipato tendenze rilevanti nella nostra narrativa, come quella degli ibridi saggio-romanzo e quella dell'autofiction.

Ammetto che questo è vero, succede qualche volta di essere dentro lo spirito del tempo o addirittura di anticipare una parte dello spirito del tempo, del resto è qualcosa che nella storia della letteratura si è verificato spesso; pure, non ho mai riflettuto sul perché sia accaduto questo con me, sul perché abbia scritto degli "ibridi" o sul perché al loro interno abbia fatto quella che anni dopo si sarebbe chiamata "autofiction"…

Qualche giorno fa ho letto un'intervista in cui un autore si sentiva in dovere di specificare che non svolgeva il mestiere del suo protagonista...

Per molto tempo, nel Novecento, c'è stato un certo qual senso d’inferiorità da parte di chi scrive con un io direttamente autobiografico o vicino a esso. Oggi non è più così, ma è stato così dalla fine dell’Ottocento in poi. Prima no, prima questo senso di inferiorità non c'era, si prenda ad esempio il grande "io letterario" settecentesco, un nome per tutti Rousseau – o, ancora prima, Montaigne. Quel senso di inferiorità lì non c'era di certo: è qualcosa che arriva più tardi, perché la grande tradizione romanzesca ottocentesca, imponendosi, fa sì che l'io autobiografico appaia come un indebolimento o una contrazione rispetto all'ampia creazione di personaggi e mondi che sta alla base del romanzo inteso alla maniera ottocentesca.

Tanto forte è stata l'influenza del romanzo ottocentesco, che i suoi modelli si sono trasformati in una sorta di super-io anche per i narratori del Novecento: quando ne trasgrediscono le regole, ecco che lo fanno consapevolmente, e con un senso quasi di impaccio o vergogna. Poi, come è normale, si arriva a un punto in cui le cose si rovesciano e diventa normale il contrario, e nel momento in cui scrivi in una prima persona che dice di svolgere un certo mestiere, ti trovi quasi in dovere di dire che tu non lo svolgi… Ed eccoci a oggi.

Io, comunque, non sono mai stato particolaramente interessato a un "io" da autofiction, il mio io mi interessa veramente poco. Quello che mi interessa è un io narrante che possa raccontare di altri, come avviene nell'Abusivo con Siani: il centro del racconto è lui, mentre il mio io narrante serve anzitutto a rappresentare un certo tipo di borghesia napoletana che familiarmente è, di fatto, pronta ad accettare il fenomeno della camorra. Lo stesso accade in Cronaca della fine: c'è un personaggio-me, ma il protagonista è sempre Dante Virgili. In fondo anche in Leggere possedere vendere bruciare quello che mi interessa è evocare certi personaggi…

Come "El Gordo" Cheli.

Eh eh, qualcuno potrebbe chiedere cosa c'entri Cheli, perché proprio Cheli, i bravi giornalisti culturali sono stati tanti… Il fatto è che Pietro Cheli era a ogni effetto un personaggio, e infatti lo tratto come un personaggio di finzione: anche se esisteva pure nella realtà, per me era una figura simbolica, che incarnava certe caratteristiche profonde delle pagine culturali, una certa tendenza a sviluppare idiosincrasie, sofferenze, odi, fisse… Se passi i pezzi di cultura, inevitabilmente diventi idiosincratico, così come, per quanto tu possa amare i libri degli altri, se fai l'editor non puoi non sviluppare tutta una serie di allergie, e magari pure certe idiosincrasie…

Quali sono le sue?

Nei limiti del possibile cerco di tenermi lontano dalle idiosincrasie: le temo e faccio di tutto per evitarle perché sono cresciuto professionalmente in un'epoca in cui cominciavano a essere considerate un lusso. Erano normali in quella che viene comunemente detta – per tornare all'espressione con cui abbiamo cominciato la nostra conversazione – la vera età dell'oro dell'editoria italiana, l'epoca, per capirci, in cui comandavano gli Einaudi i Feltrinelli i Garzanti e i Mondadori in persona. Ecco, quegli editori erano molto idiosincratici. Forse, tra tutti, quello che lo era meno era proprio Arnoldo, che non a caso aveva una formazione non intellettuale; gli altri lo erano tanto, era una bella gara… Erano editori e non editor ovviamente, ma anche le persone che lavoravano con loro erano a loro volta idiosincratiche, prenda un Pavese, era certamente un personaggio idiosincratico, sia quando protestava contro Einaudi sedendosi sulla scrivania in mutande, sia quando sceglieva i libri. Pochi editor, allora, rientravano nel modello del letterato-funzionario: penso anche a Filippini, in Feltrinelli, o a Bianciardi ovviamente, erano tutte figure non riducibili a un modello funzionariale, quel modello che comincia inevitabilmente a diffondersi quando il mercato viene a prendere il sopravvento, se non sul gusto degli editori, su una parte sempre crescente delle loro scelte. Anche gli editori che più ostinatamente, a volte per diversi decenni, hanno cercato di piegare il mercato al loro gusto e alla loro missione, a un certo punto hanno cominciato a seguirlo. Ecco allora che diventava più difficile essere idiosincratici, specie per chi entrava in quel momento in quel mondo. Immagino che un po’ di idiosincrasie me le potrei concedere ora che sono vecchio, di certo mi verrebbe perdonato qualcosa; ma in una Mondadori anni '80 e '90 non te le potevi proprio permettere, il Bianciardi potevi farlo al massimo se eri un collaboratore esterno, non certo se stavi dentro. È anche vero, però, che per anni sono stato convinto di esser stato molto più "funzionario" di quanto non sia stato veramente…

A un certo punto è stato addirittura identificato con la "Mondadorizzazione" dell'editoria, intesa proprio come progressivo orientamento verso logiche di mercato…

… Ma quello che non viene mai ricordato è che quando sono entrato in Mondadori, come junior editor di Parazzoli agli Oscar, la Mondadori era tutto. Non esistevano i gialli fuori da Mondadori, non esisteva il noir, non esisteva nulla fuori da Mondadori. Non esisteva, che so, una Sellerio, oggi importantissima e con un sacco di best-seller – la numero uno forse nel mondo, nel rapporto tra best-seller e dimensioni della casa editrice –: c'era solo il giallo Mondadori, e Laura Grimaldi, che lo dirigeva, era la regina del giallo e del noir. Ricordo che nel 1987 ci fu un’edizione del MistFest di Cattolica dedicata al noir, in cui tutti i libri e gli autori erano Mondadori. Ed è solo un esempio tra tanti: stiamo parlando di anni in cui Panorama vendeva ottocentomila copie la settimana, in cui Epoca era considerato il giornale più bello d'Italia, in cui i direttori delle collane o dei periodici camminavano nei corridoi come se stessero camminando al centro dell'universo – ed era in effetti il centro dell'universo, almeno per l'editoria italiana. Adesso non è più così, e forse il vero cambiamento è quello: c'è stata una multipolarizzazione, c'è una grande quantità di luoghi in cui si fanno cose importanti, a volte anche luoghi piccoli, case editrici con pochissimi dipendenti che in determinati momenti possono avere una posizione da protagoniste prima impensabile.

Il mercato però è cambiato: si fanno più libri, e durano meno.

È vero, ma è anche vero che la lamentela sui troppi titoli rispetto a ciò che riesce ad assorbire il mercato la sento da quando ho cominciato a lavorare in editoria, è una sorta di rumore di fondo che mi accompagna da sempre, come il "c'è crisi"… Da questo essere sempre in crisi viene anche la mia battuta sull'età dell'oro: probabilmente ci fu un solo anno, o due, a metà anni Zero appunto, in cui non si sentiva dire continuamente che c'era crisi, ma addirittura ci si azzardava a dire che era una grande annata.

Ora, di certo il controllo sulla quantità di uscite è qualcosa che ogni editore dovrebbe fare e se non lo fa sbaglia, ma è innegabile che i titoli annui continuino ad aumentare, e anzi tale aumento si accompagna a un altro problema: per darle un’idea, quando divenni responsabile della narrativa italiana Mondadori, nel 1991, assunsi la gestione di una redazione che comprendeva un editor, una segretaria, un junior editor, un caporedattore e tre redattori, quindi 7 persone per fare dai 20 ai 25 titoli all'anno; quando ho lasciato Mondadori nel 2012, quella stessa redazione era composta da me, dalla mia junior editor Giulia Ichino e da mezza segretaria perché era condivisa con la redazione dei classici: quindi 2,5 persone per fare 50 titoli. Certo, con vari redattori esterni e molto lavoro dato fuori, ma questi sono i numeri: le persone col posto fisso in editoria sono sempre meno e il numero dei titoli aumenta.

Detto ciò, il problema della scarsa durata dei titoli in libreria non deriva a mio avviso tanto dall'aumentare del loro numero, quanto da altre questioni strutturali – anzitutto il fatto che la letteratura non ha più, nella civiltà contemporanea, la centralità che aveva cinquanta o anche solo venticinque anni fa. Allora pubblicare un libro aveva una rilevanza simbolica maggiore rispetto a oggi; l'aura del libro è, insomma, diminuta.

Pure, nel capitolo con protagonista Procolo Falanga, sembra dirci che i libri non saranno mai solo merci.

Quel penultimo racconto, con quel venditore di libri che è ovviamente la trasfigurazione – neanche troppo trasfigurata – di una persona da me frequentata, conosciuta e amata, penso sia molto emblematico. Lui, un tizio che parlava dei libri in modo sempre merceologico e sempre apocalittico, come merci, e merci che non si vendono e non si sono mai vendute, in una sorta di negativismo universale – "Ma perché scrivete le poesie? Non le compra nessuno…" –, un uomo insomma che alla prima apparenza pareva di una brutalità infinita, di certo un vero commerciale, un vero venditore, ecco, quando "Procolo" entrava in una libreria stagionale, in uno di quegli empori da villeggiatura che vendevano le creme solari ma anche i gli Oscar Mondadori e qualche romanzo nuovo, be’, quando i proprietari lo vedevano arrivare, lo trattavano come un sacerdote, come l'emissario terreno di un dio: quello non era il rappresentante delle altre merci, quello era il rappresentante dei libri. C'era un vero timore reverenziale e lui era ben cosciente di interpretare un certo ruolo; in realtà era un uomo molto colto, che si faceva schermo della sua brutalità, e aveva lui stesso una considerazione del prodotto tale da non sentirsene all'altezza. Ma quando entrava in quei negozi si trasformava nel rappresentante di libri, e la sua sola presenza dimostrava che anche il libro più commerciale non è mai solo una merce, e nemmeno il venditore più venditore, se vende libri, è mai solo un rappresentante.

Ma allora l'aura c'è ancora!

È vero, è vero. Lo ammetto. Il libro ne ha persa e ne perderà, ma non la perderà mai tutta.

Leggere possedere vendere bruciare di Antonio Franchini

L’oggetto di questi racconti sono i libri. Quattro azioni molto diverse che si possono fare con i libri, azioni che talvolta escludono le altre: non è detto, infatti, che chi è animato dalla smania di possedere libri sia un accanito lettore, e non sempre i grandi lettori sono anche bibliofili. Allo stesso modo vendere libri potrebbe tranquillamente non contemplare il fatto di leggerli, così come il desiderare di averne. Infine, bruciare libri – l’azione più estrema e delittuosa – potrebbe essere non soltanto l’oltraggio di chi teme la parola scritta, di chi l’ha in sospetto e la odia quando diffonde idee che avversa, ma anche l’atto supremo di un amore tanto esclusivo e assoluto da diventare perverso, omicida o forse liberatorio

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Vanni Santoni (1978), dopo l’esordio con Personaggi precari, ha pubblicato, tra gli altri, Gli interessi in comune (Feltrinelli, 2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza, 2011), Muro di casse (Laterza, 2015), La stanza profonda (Laterza, 2017, candidato al Premio Strega) e I fratelli Michelangelo (Mondadori 2019), oltre alla trilogia Terra ignota, uscita per Mondadori tra il 2013 e il 2017. Collabora con numerose testate giornalistiche. Il suo ultimo libro è La verità su tutto (Mondadori, 2022).

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