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L’idiozia è contagiosa. Parola di Dostoevskij

Di Francesco D'Isa • agosto 29, 2018

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Durante la stesura de L’idiota, Dostoevskij esprime il desiderio di «raffigurare un uomo assolutamente buono». Il risultato dei suoi sforzi è, per l’appunto, un idiota. Intendiamoci, non uno scemotto qualsiasi, ma un idiota grandioso, immenso, messianico: l’incarnazione della perfezione della bellezza morale.

Da un punto di vista più prosaico però, l’incarnazione della perfezione della bellezza morale si comporta in modo abbastanza stupido, per lo meno socialmente. Ciononostante – e qua risiede parte della sua grandezza – il nostro idiota non risulta quasi mai antipatico, né all’esterno né all’interno del libro; un po’ come il Dougie Jones del secondo Twin Peaks di David Lynch, l’alter ego idiota (appunto) del celebre agente Cooper.

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Una scena più di altre veicola tutto ciò: quella del vaso cinese – anche nota come l’unico caso in cui si rimedia a una brutta figura con una figura ancor peggiore. Ma andiamo con ordine. L’idiota del romanzo è il principe Myškin, un nobile decaduto con la prospettiva di una cospicua eredità, in virtù della quale viene introdotto nella buona società. Dato che Myškin è noto per la propria goffaggine, la sua quasi-fidanzata Aglaja lo mette in guardia:

«Sentite, Aglaja, credo che voi siate in pensiero perché avete paura che io, domani, possa farmi bocciare».

«Io essere in pensiero per voi? Perché, anche se voi vi copriste di vergogna, a me, cosa volete che importi? E come fate a esprimervi in questo modo. Cosa significa “farsi bocciare”? È una parola bassa e volgare».

«Così si diceva a scuola».

«A scuola, sì, fra ragazzini maleducati. Scommetto che anche domani avete intenzione di parlare così. Perché, mi raccomando, fate in modo di usare sempre parole simili: vedrete che effetto! Peccato che sappiate presentarvi con una certa disinvoltura. Dove l’avete imparato? Ma sarete capace, invece, di bere una tazza di tè mentre tutti gli altri non faranno altro che guardarvi?»

«Credo di sì».

«Mi dispiace, perché mi sarei divertita un mondo. Almeno fate in modo di rompere il vaso cinese del salotto. Costa molto, sapete? È un regalo. Maman ci è così affezionata che sarebbe capace d’impazzire e di mettersi a piangere davanti a tutti, se lo faceste cadere. Fate uno dei vostri soliti gesti: andate a sbattere contro il vaso e mandatelo in pezzi. Fate in modo di mettervi seduto proprio lì vicino».

«Cercherò di starne il più lontano possibile. Vi ringrazio di avermi avvisato».

«E allora, già che ci siete, fate in modo di evitare di gesticolare come un mulino a vento. E se avete intenzione di mettervi a spiegare a tutti una delle vostre tesi impegnative, scientifiche, trascendentali.».

«Sarebbe stupido, una cosa del tutto fuori posto»

A difesa di Aglaja, che qua sembra antipaticuccia, si deve ammettere che non parlare di politica né rompere un vaso costoso sono due consigli fin troppo buoni. Alla festa però ritroviamo il principe che si infervora in discorsi come questo:

«Il Cattolicesimo predica l’Anticristo, ve lo assicuro, ve lo giuro! Questa è la mia opinione personale e io so quanto ho sofferto nel rendermene conto! Il Cattolicesimo romano crede e proclama che, senza un potere temporale capace di abbracciare tutta la terra, la Chiesa non possa sussistere. Nonpossumus! No, il Cattolicesimo romano non è una religione, è la continuazione dell’Impero Romano d’Occidente. Nel Cattolicesimo, infatti, tutto è subordinato a questa idea. Il Papa si è impadronito della terra, ha occupato un trono terrestre, ha impugnato la spada e si è circondato di un seguito composto da menzogne, intrighi, imposture, fanatismi, superstizioni e scelleratezze. [...].»

La nobiltà russa non vede di buon occhio il cattolicesimo, ma in ogni caso il nostro supera di molto il bon ton (e fa quasi venire un colpo alla sempre-meno-fidanzata). E il vaso? Eh, il vaso... Quando aveva fatto il suo ingresso nel salotto, il principe era stato attento a mettersi seduto il più lontano possibile dal vaso cinese che spaventava tanto Aglaja. Incredibile, ma vero: quella paura aveva inoculato in lui la certezza che, per quanto fosse stato attento a evitare il pericolo, il vaso sarebbe andato in frantumi lo stesso. Durante la serata, altre forti impressioni avevano distratto il principe da quel presentimento. Quando aveva sentito parlare di Pavliščev e quando il generale Epancin lo aveva presentato a Ivan Petrovič una seconda volta, il principe, cambiando posto e avvicinandosi alla tavola, si era andato a mettere seduto su una poltrona addossata al grande vaso cinese che dava bella mostra di sé, assiso sul suo piedistallo.

Pronunciando le ultime parole del suo discorso, il principe si alzò di scatto, fece un gesto improvviso, scosse una spalla e un urlo unanime si levò tra gli ospiti degli Epancin. Il vaso ondeggiò un po’, quasi temesse, indeciso, di cadere sulla testa di uno fra quei vecchi che stavano seduti sotto di lui, poi, di botto, si chinò dal lato opposto, verso il tedesco - che si salvò facendo un salto mortale - e andò a frantumarsi a terra con un gran tonfo. Il rumore, le grida, i cocci preziosi sparsi sul tappeto, lo spavento. impossibile immaginarsi o descrivere come il principe ci rimase. Non possiamo, però, fare a meno di dire che la strana sensazione che colpì il principe, non fu la vergogna o la paura per lo scandalo, ma l’oscura fatalità di quella profezia, che si era immancabilmente avverata. Che cosa ci fosse di impressionante in questo, il principe non avrebbe saputo dirlo; però si sentiva colpito al cuore, ed era invaso da un terrore quasi mistico. Un minuto dopo gli sembrò non solo di respirare meglio ma di vedere più luce e, anziché sentirsi atterrito, si sentì colmo di gioia, rapito da una sorta di estasi. Allora riprese fiato e cominciò a guardarsi intorno.

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Adesso cercate nella vostra memoria, perché è probabile che la maggior parte di voi abbia un “vaso cinese” che preferirebbe rimuovere: qualcosa assolutamente da NON fare che, per questo e a dispetto di tutto, immancabilmente viene fatto. Personalmente credo di averne a sufficienza da fracassare il vasellame di un’intera dinastia Ming. Quel che succede in seguito, però, probabilmente può accadere solo a un idiota che coincide con la perfezione della bellezza morale:

Per un pezzo, non capì la tumultuosa agitazione che si era impossessata di quelli che lo circondavano. Vedeva e capiva tutto, ma se ne restava lì per conto suo, isolato e indifferente, come se fosse il protagonista di una fiaba che, invisibile agli occhi del mondo, si era ritrovato tra gente estranea, di cui non gli importava nulla. Vide raccogliere i cocci, udì le frasi che gli ospiti di scambiavano tra loro, notò Aglaja, pallida, che lo fissava con uno sguardo molto strano: non era uno sguardo irato o nemico. no, era uno sguardo smarrito ma pieno di simpatia per lui e, al tempo stesso, molto severo per gli altri. Di fronte a questa visione, il cuore del principe venne sopraffatto dalla dolcezza. Alla fine, con sua enorme sorpresa, vide che tutti si rimettevano seduti e continuavano a ridere come se non fosse successo niente. Un momento dopo, le risate diventarono generali: si rideva proprio dello sbalordimento del principe, ma senza ironia, amichevolmente; parecchi gli rivolsero parole cortesi, specialmente Elizaveta Prokof’evna, che fu la più buona e la più amabile di tutti. Il generale Epancin gli batté una pacca sulla spalla; Ivan Petrovič aveva ripreso a ridere; ma il più simpatico e il più cordiale, fu il vecchio dignitario che, presagli una mano, gliela strinse leggermente, battendola sul palmo dell’altra mano e, cercando di spiegargli che non era successo niente, lo pregava di riprendersi usando delle bellissime parole - cosa che piacque moltissimo al principe - e, alla fine, lo fece perfino sedere accanto a sé.

A questo punto il caro principe si profonde in ringraziamenti a tal punto esagerati da tornare nuovamente in zona-brutta-figura, ma il ricevimento giunge al termine, e i partecipanti porteranno a casa soltanto una lieve irritazione nei confronti di Myškin. Qualcosa, però, è successo: il principe, con amabile candore e incredibile ingenuità, ha ripetutamente sfondato il muro delle convenzioni sociali, per arrivare, in un modo o nell’altro, a una comunicazione di assoluta sincerità. Il metodo Myškin è semplice: dire sempre la verità e credere che gli altri facciano altrettanto. Nella società altamente formalizzata di un qualunque gruppo sociale elitario – e l’alta nobiltà lo è per definizione – non c’è errore peggiore. Come scrive Gombrowicz nel suo diario (1953), «Il mondo superiore ha il potere di imporsi proprio perché tutti si comportano come se nessuno volesse imporre niente».

Elizaveta, la madre di Aglaja, non può che respingere un tale atteggiamento; eppure, quando la giovane forse-non-più-fidanzata sostiene di non aver fatto alcuna promessa allo sconveniente principe, la madre ha un moto di inaspettata sincerità:

Elizaveta Prokof’evna non si contenne: «Questo da te non me l’aspettavo!», esclamò con amarezza. «Come fidanzato è impossibile, lo so; e ringraziamo Dio che le cose siano andate così. Ma non credevo che avrei sentito parole simili da te: mi aspettavo ben altro. Io, l’altra sera, avrei cacciato tutti dal primo all’ultimo, tranne lui. Ecco che uomo è per me!».

Qui tacque, spaventata dalla sua involontaria confessione. Sembrerebbe che il miglior motivo per essere sinceri, a seguire il buon Myškin, sia che anche l’idiozia è contagiosa.

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Francesco D’Isa (Firenze, 1980), di formazione filosofo e artista visivo, dopo l’esordio con I.(Nottetempo, 2011), ha pubblicato romanzi come Anna (effequ 2014), Ultimo piano (Imprimatur 2015), La Stanza di Therese (Tunué, 2017) e saggi per Hoepli e Newton Compton. Direttore editoriale dell’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste.

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