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L'ultima cosa bella sulla faccia della terra

Di Matteo Moca • ottobre 09, 2023

Milan Kundera, parlando di Le palme selvagge di William Faulkner, ha scritto dell'unicità di questo romanzo, non solo all'interno dell'opera dello scrittore americano, ma anche nell'orizzonte più generale della forma romanzesca. Le palme selvagge è in effetti un romanzo enigmatico, giocato su due storie che non comunicano tra loro, si alternano tra un capitolo e un altro ma non si incrociano mai, tanto da far riflettere su quale possibile collegamento segreto nascondano le vicende di due amanti in fuga e di un carcerato che aiuta gli alluvionati del Mississipi. Poco importa però perché il lettore attento non farà fatica a immergersi nell'abilità manipolatoria del tempo di Faulkner, nella precisione dei dettagli che regna in ognuna delle due storie e nella, proverbiale nella sua opera, modalità di condurre il racconto.

Se si pensa proprio alla possibilità che offre la letteratura di intervenire sulla struttura del tempo, modellandone lo scorrimento e facendo aderire alle sue pieghe lo svolgersi delle storie, non sarà difficile ravvisarne un esempio straordinario in L'ultima cosa bella sulla faccia della terra di Michael Bible (da poco pubblicato da Adelphi con la traduzione di Martina Testa), un romanzo dove gli anni si incrociano e le varie linee temporali si sommano senza però mai consegnare al lettore un intero. Di Bible si sa poco e questo certo contribuisce al gioco di ricerca di risonanze all'interno di questo suo breve romanzo ambientato nel Sud degli Stati Uniti, in un coacervo di credenze e bugie, in una società dove nessuno si mostra per quello che è davvero e qualsiasi allontanamento dallo standard (e cioè casa e chiesa) viene interpretato come un tradimento imperdonabile, ma è indubbio (e lo ha confermato, se mai ce ne fosse bisogno, anche l'interessato in una recente intervista) che Faulkner figuri tra gli ispiratori di questa scrittura.

“Eravamo innocenti. Convinti di essere speciali. Sbronzi tutti i weekend al centro commerciale. Il mondo era nelle nostre mani. Non ci importava del tempo. L'amore era una cosa scontata. La morte aveva paura di noi. Adesso abbiamo il grigio sulla barba. Il cielo è un livido viola. Il centro commerciale è morto. Siamo i vecchi che avevamo giurato di non diventare mai” recita l'incipit già iconico di L'ultima cosa bella sulla faccia della terra che subito suggerisce come il tempo perda di importanza per chi abita nei luoghi del romanzo trasformandosi in un'eterna ripetizione a perdere con stazioni poco edificanti (il sabato scandito dallo stordimento procurato, il centro commerciale come decadente luogo di relazioni, l'inevitabile processo che rende i figli sempre uguali ai padri). Al centro della vicenda, che si muove tra il 2006 e il 2019 se si considerano i racconti dei vari protagonisti, ma che si spinge indietro e in avanti senza soluzione di continuità, c'è un ragazzo, Iggy, che un giorno per protesta radicale vuole darsi fuoco all'interno di una chiesa: armato di benzina, approfitta del silenzio e del raccoglimento della preghiera per recarsi al centro della navata, cosparge di benzina sé stesso e prepara il fiammifero ma per la sua natura maldestra (e forse per un improvviso richiamo alla vita) a causa di un movimento incerto perde di mano la fiamma e incendia la chiesa intera provocando la morte di venticinque persone; lui si salverà, sarà arrestato e condannato a morte.

Ad Harmony, questo il nome della cittadina e questa la voce, collettiva, come quella di un coro che accompagna la storia, che narra la vicenda, questo evento ovviamente segna ogni momento che verrà dopo, segna sia chi ha avuto la fortuna di salvarsi sia chi ha visto i suoi amici e famigliari morire tra le fiamme, segna l'immaginario di chi continua a interrogarsi (il luogo da cui scaturiscono tutte le storie) e infrange la regola aurea di Harmony, quella che dice: “non succedeva mai niente. Non cambiava mai niente”. Il nucleo centrale del libro è occupato dalla confessione, lucida e delirante allo stesso tempo, di Iggy, il responsabile del disastro: Iggy è quanto di più Harmony non possa sopportare né vedere, è lontano dai dettami cristallizzati della società in cui vive, si innamora, e vive un amore totalizzante, con una ragazza e con un ragazzo (Cleo che sogna di andare lontano e Paul, di buona famiglia, dedito agli eccessi), fa uso di droga ed è continuamente in cerca di una fuga impossibile. Il racconto dei momenti che precedono la sua esecuzione sembra ricordare il folle percorso a ritroso di un altro condannato a morte, il protagonista del racconto La muta di Tommaso Landolfi: ma se lì il gesto imperdonabile si tingeva, attraverso la scrittura di Landolfi e i rimandi metaletterari del racconto, di una metaforica insufficienza della possibilità di raccontare, qui in realtà non c'è niente che esca dal dolore profondo, sordo e inarrestabile dell'incomprensione. Cleo e Iggy danno anche un nome a questo orizzonte spento, lo chiamano “La Costante”: “è qualcosa a metà fra uno struggimento continuo e un improvviso terrore” e assomiglia a “un pomeriggio di pioggia in cui splende il sole o il ronzio misterioso di una strada deserta di notte”. Questa percezione del reale che accompagna la spirale distruttiva di alcool e droga diventa l'unica risposta alla “Costante” in un viaggio di non ritorno fino al tentato suicidio, al fuoco che purifica, che avrebbe dovuto trasformare il corpo di Iggy in testimonianza (è il ricordo di un libro che raccontava di monaci che si davano fuoco per protesta a convincere Iggy al gesto assieme ai “versi di un'antica poesia zen sulla cremazione. Ho provato grande gioia nel mio corpo. Spargete le ceneri”).

I giovani, teneri, disperati e folli, del romanzo di Bible sono il prodotto di un mondo che non li riconosce e non li accoglie, anime in pena davanti a un deserto di significato e di futuro sono l'epifenomeno grottesco, deformato, eppure così aderente alla realtà, di un'intera generazione di incompresi e drop-out. Sono, da questo punto di vista, parenti dei protagonisti di Ohio di Stephen Markley, un gruppo che, abbandonato a sé stesso, trova la propria ragion d'essere nell'opposizione frontale, deviata, senza un domani: così la città di Harmony è come l'Ohio di Markley, è un luogo che non esiste e che è tutti i luoghi, è un paese della provincia americana qualunque dove la depressione va a braccetto con la religione e la noia con lo svago estenuante garantito da agenti esterni.

L'ultima cosa bella sulla faccia della terra è convincente anche grazie alla voce di Bible alla manipolazione delle parole e alla costruzione di un universo narrativo impeccabile: il Libro dei Salmi, con la sua parola «costantemente nel deserto, in una luce che angaria d'assoluto» per usare le parole di uno dei più straordinari traduttori del libro, Guido Ceronetti, fiammeggia nel dettato di Bible che nella concisione della parola ne racchiude tutti gli abissi, in un andamento da tragedia classica che apre all'empatia, perché il dolore dei protagonisti è il dolore di tutti. Edgar Morin, in Le star, e in particolare parlando dell'imperituro divario tra giovani e adulti, scrive che “l’adulto delle società burocratiche e imborghesite è colui che accetta di vivere poco per non morire molto, il segreto dell’adolescenza è che vivere significa rischiare la morte, che la rabbia di vivere è l’impossibilità di vivere”: risuonano queste parole leggendo il libro di Bible, autore che sa di cosa parla e sembra aver incamerato e fatta sua la lezione dei maestri americani (Flannery O'Connor su tutti verrebbe da dire, quella dei romanzi e racconti e quella degli scritti teorici) in un libro che esplora i segreti e le forze che la letteratura offre per affondare nella morte e tornare a vivere.

L’ultima cosa bella sulla faccia della terra di Michael Bible

Michael Bible è un giovane scrittore ma ha già un mondo e una voce, che modula con sapienza per prestarla alle sue creature dolenti, dando vita a una ballata visionaria, calibratissima, carica di poesia concreta e di accenti biblici, con la quale sembra essersi già guadagnato un posto fra i grandi narratori del Sud americano.

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Matteo Moca, dottore di ricerca in Italianistica, è insegnante e critico letterario. Ha pubblicato la monografia, Tra parola e silenzio. Landolfi, Perec, Beckett (La scuola di Pitagora, 2017) e ha curato Madonna di fuoco e Madonna di neve di Giovanni Faldella (Quodlibet, 2019). Si occupa in particolare dell'opera di Tommaso Landolfi, e, tra gli altri, di Elsa Morante, Anna Maria Ortese e Georges Perec, oltre che delle convergenze tra letteratura e scienze umane. Scrive di letteratura contemporanea su quotidiani e riviste.

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