Magia e Tecnica. Conversazione con Federico Campagna
“Forse un mattino andando in un’aria di vetro,” scriveva Eugenio Montale nel 1925, “arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me, con un terrore da ubriaco. / Poi, come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto / alberi, case, colli per l'inganno consueto. / Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto / tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto”.
Quello che mi ha sempre colpita di questi versi è la loro capacità di raccontare attraverso la parola poetica un’esperienza per definizione incomunicabile. Il dubbio che la realtà che diamo per scontata possa all’improvviso rivelarsi fragile e sottile come l’aria del mattino è allo stesso tempo miracolosa e terrificante, al punto che chi sopravvive a questa rivelazione non può far altro, secondo il poeta, che ritirarsi nel silenzio. Da parte mia, per una ragione autobiografica, ho sempre vissuto il concetto di realtà con una con una certa diffidenza: in diverse occasioni della mia vita ho sofferto di un disturbo di “derealizzazione” che mi ha portata a rifiutare la nozione che le cose e le persone che mi circondavano fossero reali. Come ricorda chi ha dovuto attraversarla, l’esperienza di questa dolorosa frattura tra sé e il mondo possiede sempre due volti: il terrore e la liberazione, la distruzione della realtà come la conosciamo e l’opportunità di ristabilire un ordine nuovo.
Davanti a questo scetticismo viscerale, la domanda “che cos’è la realtà?” smette di essere un problema filosofico in senso stretto e si traduce nell’urgenza di mettersi in cerca di un fondamento più profondo alle cose che ci circondano. Nel suo saggio Magia e Tecnica. La ricostruzione della realtà, pubblicato nel Regno Unito per Bloombsbury nel 2018 e pubblicato in Italia da Tlon, il filosofo Federico Campagna avanza una proposta articolata e poetica per rispondere a questa stessa domanda, con l’obiettivo di tracciare un cammino percorribile verso la ricostruzione di una realtà perduta. Oggi, infatti, la “perdita della realtà” non è soltanto una calamità che colpisce pochi soggetti patologici: si tratta piuttosto di un male pervasivo, radicato in profondità nella stessa struttura del nostro mondo. Sempre più immersi in flussi tecnologici che trasformano le nostre identità in dati e i nostri corpi in trasmettitori passivi di informazione, ci riscopriamo intrappolati in un girotondo di segni che vortica incessantemente attorno a un centro vuoto.
Già a partire dagli anni ’40, l’antropologo Ernesto De Martino, studiando le usanze rituali di numerose culture, cominciò a formulare l’idea che la pratica magica fosse uno strumento di ricostruzione ontologica volto a proteggere la realtà collettiva da quella che definiva “crisi della presenza”. Anche per Campagna, che prende le mosse proprio dagli scritti di De Martino, la Magia non è tanto un insieme specifico di pratiche culturali, ma è “quel percorso metafisico/terapeutico che consente di abbracciare un particolare sistema di realtà alternativo” (p. 27): consiste cioè nella possibilità di ridefinire le condizioni di esistenza di un mondo sempre più svuotato di senso. Da questa prospettiva, la proposta di Campagna segna una tappa fondamentale nel recupero contemporaneo della Magia come strumento di opposizione individuale al sistema capitalista e tecnocratico dominante. Se Silvia Federici evidenzia la persecuzione delle streghe come punto di partenza per disintegrare le comunità rurali e dare forma al capitalismo patriarcale moderno, Campagna ripropone la Magia, dal misticismo arabo all’alchimia, come un nuovo paradigma di resistenza ontologica.

Magia e tecnica. La ricostruzione della realtà
In Magia e tecnica, Federico Campagna compie un viaggio alla ricerca dei diversi princìpi di realtà che creano il mondo. Da un lato, il sistema oggi vigente, la Tecnica, quel modo di intendere la realtà per il quale soltanto ciò che è riducibile al linguaggio esiste davvero, mentre quanto sfugge a ogni classificazione è mera superstizione. Dall’altro la Magia: un sistema di realtà alternativo e possibile, il cui mondo si sviluppa sulla base del principio che l’esistenza stessa, in qualunque forma si mostri, sfugge sempre a ogni linguaggio.
Visualizza eBook[Laura Tripaldi] Uno dei fondamenti di Magia e Tecnica è il concetto di “reality settings”: l’idea che non solo ciò che risiede all’interno della realtà, ma anche ciò che ne definisce le condizioni, possa essere oggetto di uno studio culturale ma anche, e soprattutto, di una forma di azione personale e politica. Nel primo capitolo di Magia e Tecnica, scrivi:
La realtà stessa è fragile e fluttuante come qualsiasi valore culturale e il suo ciclico crollare e rinascere è l’archetipo della catastrofe, il kata-strophein, il “dimettersi” di ciò che pensavamo fosse la sostanza del mondo, seguito dalla sua discesa nell’oscurità del caos.
In effetti, esperienze psicopatologiche come la “derealizzazione” ci riconducono a una sorta di stupore primordiale, una condizione atavica in cui la nostra posizione di soggetti in relazione con un mondo è suscettibile di una continua negoziazione. Anche nel mio caso, l’esperienza perturbante della derealizzazione è stata l’occasione che mi ha portata ad avvicinarmi ad alcune tradizioni esoteriche, il cui simbolismo mi ha fornito un linguaggio per affrontare la lotta della soggettività nel ridefinire continuamente i propri confini in relazione a ciò che le è estraneo. Questi confini, nel mondo magico, sono sempre porosi: anche i sistemi più chiusi rivelano strade nascoste e sono sensibili ai sussurri dell’abisso. La perdita della realtà ha anche un significato politico: il fatto che il collasso della struttura del reale resti un’opzione possibile è di per sé sufficiente ad aprire uno spiraglio nella claustrofobia di una realtà “senza alternativa”. Questa idea, mi sembra, richiama per alcuni aspetti l’operazione dello scrittore Hakim Bey che, con la sua Associazione per l’Anarchismo Ontologico (A.O.A.), ha spostato la lotta politica sul piano cosmologico. Uno degli slogan più potenti dell’A.O.A. recita “il caos non è mai morto”: una frase che richiama le antiche cosmologie, a cui anche tu fai spesso riferimento, in cui il caos primordiale instaura una lotta quotidiana con l’ordine del reale senza poter essere mai del tutto sconfitto. Nel momento in cui accettiamo che la realtà è vulnerabile a questa frattura ci viene chiesto di operare una scelta. Secondo Bey, di cui il progetto del Gruppo di Nun ha seguito più o meno esplicitamente le orme, dovremmo schierarci dalla parte del caos. Tu da che parte stai?
[Federico Campagna] Temo che abbiamo avuto esperienze non dissimili. Anche io ho sofferto a lungo dello stesso problema di cui parli e che, nonostante le cure, ogni tanto si ripresenta. È un’esperienza spiacevole, come sanno quanti ci passano, ma è anche un’occasione di imparare qualcosa. Come tu dicevi, si impara innanzitutto che la realtà è porosa e fluida, e che perdere la realtà non equivale a perdere la vita. Mi sono ritrovato più volte colpito dalla domanda ansiosa: “Se quello che mi circonda non è vero, allora io, io in questo momento dove sono davvero?” E mentre restavo paralizzato dalla domanda, da qualche parte una piccola voce saliva a rincuorami: “Forse non sei da nessuna parte; eppure, ancora, sei.” Credo che proprio da questa esperienza sia nato il mio interesse per l’ontologia, ancora prima che per la metafisica. L’ontologia, il discorso sul puro “essere”, è in qualche modo lo studio specifico di quella vocina. Ci sono momenti in cui non si può contare su nient’altro che il proprio puro esistere – a volte, un esistere talmente dislocato e solitario da non potersi definire un “esserci”, visto che a mancare è proprio il “ci”, quel “dove” e quel “mondo” che consentono di dare delle coordinate al proprio agire. Quando si è e basta, non lo nascondo, si sta terribilmente scomodi. A volte prende una paura da far svenire. Si ha l’esperienza, non tanto di essere morti, ma di un morire che non finisce. Eppure, in qualche modo, anche quello prima o poi finisce. Per quanto nascosti nell’abisso del puro essere, senza un dove o una direzione, in qualche modo la vita non si spegne allo spegnersi del mondo. Ma questa rassicurazione ontologica non è sufficiente a ridarci quello che ci viene portato via da una disintegrazione della realtà. Il problema è che una vita interamente priva di mondo è una vita spogliata di ogni piacere. Io credo che il piacere abbia bisogno di un minimo binario di senso – di un minimo “dove”, per quanto artificiale e incerto – su cui poter scorrere. Per questo motivo, nella distinzione tra gli adepti del caos e quelli del cosmos, mi trovi dal lato di questi ultimi. Quando scrivo, sicuramente cerco di rassicurare sulla “normalità” dell’apocalisse di una certa idea di realtà e di mondo – cerco di fare la parte di quella piccola voce rincuorante. Ma il mio vero obiettivo è di cercare di capire come sia possibile ricostruire la realtà e come ci si possa ridare un mondo, quando ogni cosa si disintegra e il puro essere morde senza guardia.
[Laura Tripaldi] Al cuore della proposta di Magia e Tecnica c’è una riflessione sul linguaggio. Lavorando quotidianamente come scienziata e coltivando un interesse per le tradizioni magiche, condivido con te l’impressione che entrambi questi mondi, quello della tecnica e quello della magia, possano essere circoscritti in base al modo in cui si approcciano all’uso del linguaggio. In particolare, nella prima parte del tuo libro, sottolinei il fatto che la cosmogonia della Tecnica è fondata sul principio del linguaggio totale, che si potrebbe riassumere in un malfunzionamento della relazione naturale tra significanti e significati: il linguaggio della Tecnica smette di essere simbolico, smette cioè di agire come un sistema di “segnaposti” per una realtà più autentica, e diventa una produzione continua di strutture significanti autonome e alienate da qualsiasi significato. Questa alienazione si declina in molte emanazioni successive; tra queste, quella che ho trovato più interessante riguarda la relazione della tecnica con il numero. In questo contesto, sottolinei la differenza tra l’approccio matematico e quello numerologico. Mentre nel primo caso, tipico della Tecnica, i numeri sono semplici “attivatori” di posizioni equivalenti di una serie, nel secondo caso, caratteristico delle tradizioni magiche, ogni numero trattiene un significato simbolico irriducibile: nella numerologia, “entità quali l’uno monade, il due diade, il tre triade e così via siano allo stesso tempo cose, principi, ma anche simboli di qualcosa al di là del linguaggio” (p. 115). Tuttavia, in alcune occasioni, il confine tra questi due approcci non è stato così rigido. In diverse forme di magia rinascimentale la gematria, cioè l’arte cabalistica che permette di trasformare le parole in numeri attraverso un processo aritmetico, si è svincolata dalla sua funzione simbolica diventando il punto di partenza per una produzione automatica di significanti “vuoti”. Penso alle numerose ibridazioni della magia con la crittografia, che sono culminate nelle indecifrabili conversazioni angeliche di John Dee e Edward Kelley. Molte forme di esoterismo contemporaneo (mi riferisco, tra le altre cose, alla proposta del filosofo Nick Land nel saggio Qabbala 101 contenuto nell’antologia Fanged Noumena) hanno rivendicato l’affinità dell’approccio cabalistico al linguaggio della tecnologia e della cibernetica. Del resto, seguendo l’interpretazione di Frances Yates, proprio queste espressioni più occulte della tradizione ermetica rinascimentale hanno contribuito alla nascita della modernità. Qual è il tuo rapporto con queste forme più “tecniche” di magia?
[Federico Campagna] Ti ringrazio sinceramente di aver letto così attentamente quello che ho scritto. Oserei però fare una distinzione sulla questione del rapporto simbolico tra il linguaggio e il proprio oggetto. Il linguaggio della Tecnica è interamente chiuso su sé stesso e al centro della propria significazione ha il nulla: è un contenitore di significato senza un oggetto al proprio interno. Preferirei riservare la definizione di “simbolico” per un linguaggio diverso da quello della Tecnica. Mentre questo parla solo di sé stesso, il modo simbolico del linguaggio ha un rapporto profondo con qualcosa di esterno da sé. A mio modo di vedere, il simbolo è quella forma di linguaggio talmente cosciente dei propri limiti, da limitarsi a “indicare” il proprio oggetto, senza avere alcuna pretesa di descriverlo o di catturarlo con una definizione. Penso ad esempio al grande fondo d’oro che circonda i mosaici bizantini, come li possiamo trovare nelle absidi di tante chiese del Sud Italia. Mentre le figure dei mosaici rappresentano qualcosa di preciso (un tale santo, un tale evento biblico, una tale qualità rappresentata in forma allegorica), l’oro del fondo sta per qualcosa di assolutamente irrappresentabile. L’oro dei mosaici bizantini è il simbolo della “grazia di Dio”, della charis, ovvero di quel miracolo definito ontologicamente come “esistenza”, che sta al di là di qualunque tentativo di cattura da parte del linguaggio. Ovviamente, l’oro non ha nulla in comune con il miracolo dell’esistenza e non lo “significa” in alcuna maniera, né diretta né indiretta. Eppure, quell’oro, in quanto simbolo, ci indica qualcosa di indicibile – qualcosa che sta “al di qua” di ogni significazione, poiché sta “al di qua” del nostro stesso atto di pensarlo. Esso è il “noi”, in noi, che pensa, vede e parla. È solo in quanto “esseri” (un termine più adeguato, a mio parere, della dizione limitante di “essenti”) che siamo in grado di pensare, vedere e parlare; ma l’essere puro è tanto vicino al nostro pensare, vedere e parlare, che non possiamo né pensarlo, né vederlo, né nominarlo. Possiamo solo “ricordarcene”. In questo senso, le acrobazie della Qabbalah, con il loro stravolgere il linguaggio al di là della significazione, servono a ricordarci del nostro “essere” ineffabile – ancora prima del nostro “esserci” all’interno di un mondo costruito dal linguaggio. I modi qabbalistici per sfigurare e trasfigurare il linguaggio sono sicuramente molto complessi e “tecnici”, nel senso di “artistici” (secondo l’etimologia del termine). Ma in essi ritrovo pochissimo che li avvicini al modo della Tecnica di approcciarsi al linguaggio. Nel linguaggio della Tecnica, per come lo ritroviamo ad esempio nel sistema dei passaporti (per cui un “essere” è ridotto alla spunta di una certa categoria di cittadinanza, e può venire sacrificato senza batter ciglio se questa spunta viene a mancare o è sbagliata), il linguaggio viene assolutamente rispettato e non è per nulla sfigurato o trasfigurato. La Tecnica ha una devozione letteralmente idolatrica nei confronti del linguaggio, al punto che le sue parole non significano nulla al di fuori del proprio linguaggio (cosa significa, ad esempio, essere “Italiani” o “Inglesi”, al di là dell’invenzione linguistica della “Italianità” e della “Inglesità”? Lo stesso degli 1 e 0 dell’informatica, che comunicano solo il proprio “darsi” o “non darsi”). Il linguaggio qabbalistico, invece, in quanto linguaggio simbolico (e dunque magico), si svincola dal rapporto di significazione per poter “indicare” qualcosa che esiste al di là di qualunque linguaggio, incluso il proprio. In questo senso, definirei il linguaggio qabbalistico non tanto come “tecnico”, ma piuttosto come “virtuosistico” – al modo del virtuosismo di un violinista, il cui sfregare di corde non ha nulla in comune con i mondi che la sua musica è in grado di evocare.
[Laura Tripaldi] In Magia e Tecnica c’è una riflessione molto profonda sul significato del dolore. Tutti gli esistenti intrappolati nel regime oppressivo della Tecnica conservano una forma intima e silenziosa di resistenza che si esprime come una sofferenza irriducibile; proprio questa ferita nascosta è la scintilla, per quanto debole, che conserva le tracce di quella luce ineffabile che si irradia dal cuore della realtà della Magia. Dal mio punto di vista, l’idea di capovolgere l’esperienza del dolore in una possibilità di emancipazione è particolarmente urgente: anch’io ho riflettuto sulla capacità del dolore di opporre una resistenza alla violenza del capitalismo patriarcale. Citando il filosofo Byung-Chul Han, si potrebbe dire che viviamo in una società senza dolore, in cui all’esperienza del dolore è continuamente negata la rilevanza culturale e spirituale che merita:
“Una caratteristica cruciale dell’odierna esperienza del dolore consiste nel fatto che esso venga percepito come privo di senso. Non vi sono più nessi in grado di fornirci appiglio e orientamento dinanzi al dolore. Abbiamo disimparato l’arte di patire il dolore […] In forma di mero supplizio corporeo, esso abbandona del tutto l’ordine simbolico.”
Forse ciò avviene perché nella potenzialità di trasfigurazione e rigenerazione offerta dal dolore, che passa attraverso un dispendio gratuito di energia emotiva e corporea, c’è qualcosa che minaccia il regime di produttività costante a cui siamo sottoposte e sottoposti. Ho scoperto che anche De Martino si è occupato di questo tema, analizzando, nel suo saggio Morte e pianto rituale, la funzione antropologica del compianto funebre. De Martino sottolinea come il “saper piangere” che era caratteristico delle culture dell’antichità, particolarmente quelle dell’area mediterranea, permetteva di affrontare e risanare l’esperienza paradossale della morte. Mi ha colpita osservare come la pratica del pianto rituale sia inestricabilmente connessa alla dimensione femminile, dall’Iside egizia fino alla Mater Dolorosa, figure da cui si irradia un enorme potere “magico” manifestato attraverso la vulnerabilità. Un altro aspetto interessante della pratica del compianto funebre è la sua capacità di trasfigurazione del linguaggio, proprio perché il dolore è ciò che sfugge continuamente all’egemonia del linguaggio totale, restando sempre essenzialmente inesprimibile. La parola góos, che nella Grecia antica indicava il lamento funebre delle donne per i defunti, è la radice etimologica dell’Ars Goetia, la pratica demonologica medioevale i cui princìpi sono illustrati nella Piccola Chiave di Salomone, uno dei grimori magici più conosciuti al mondo. Anche nell’Ars Goetia, il linguaggio umano deve trasfigurarsi in un grido o in un pianto per riuscire ad accedere al mondo nascosto degli spiriti. Nel sortilegio che apre Demonologia Rivoluzionaria, siamo invitati a “comprendere il dolore come una forma radicale di insurrezione”. In che modo possiamo instaurare una relazione virtuosa con questa sofferenza profonda?
[Federico Campagna] L’esperienza del dolore è tremenda. Non trovo in essa niente di nobile nè di purificatorio. C’è veramente poco da salvare nel dolore. O, per meglio dire, il dolore è proprio la voce di ciò che supplica di essere “salvato”. Il dolore ci dà la percezione chiarissima e terrificante della felicità che ci è preclusa: non ce ne dà tanto la forma o i caratteri, che si confondo, ma ci dà l’esperienza dell’intensità di ciò che abbiamo perso. L’esperienza del dolore ci fornisce il negativo nitido di quello che sembra averci abbandonato – e quanto più si intensifica, tanto più aumenta la nostalgia, il “dolore di ritorno”, per l’ombra di una gioia che pare assente. Per quanto questa chiarezza terrificante non basti a redimere il dolore, c’è in essa qualcosa che potrebbe tornare utile, una volta che le si sia sopravvissuti (sempre che si sopravviva). Il ricordo dell’intensità del dolore può darci una traccia di quella “ricchezza” che avevamo percepito come assente, ma non inesistente. Era proprio la nostra certezza che quella ricchezza in qualche modo ancora esistesse, ma che ci fosse stata celata o tolta o totalmente preclusa, che ci procurava tanto dolore. In questo senso, chi sopravvive al dolore è in grado, a volte a lungo, di continuare a vedere l’aura di quella ricchezza che davvero si cela all’interno del reale. E magari può decidere, a un certo punto, di escogitare un modo per mettersi a cercarla.
[Laura Tripaldi] Nel quinto capitolo di Magia e Tecnica dedicato alla cosmogonia della Magia, fai spesso riferimento all’alchimia nel suo significato religioso e spirituale. L’opera dell’alchimista fornisce un modello per il continuo lavoro di ricostruzione del sé e del mondo che ci viene richiesto quando entriamo in contatto con il mondo magico:
“Se mai dovesse smettere di cercare la propria vita, il mondo si tramuterebbe in una riserva di cose morte, in un composto di “caos attualizzato”, mancante sia di ordine che di potenziale. Sotto questa luce, la nozione alchemica di opus (opera) acquisisce una qualità più chiara nel suo riferirsi all’interminabilità del processo attraverso il quale il mondo riemerge costantemente.” (p. 255)
Naturalmente, l’immensa profondità dei simboli alchemici e la trasformazione spirituale che caratterizza l’esperienza dell’alchimista ci impedisce di ridurre questa pratica a una semplice forma di “proto-scienza”. Tuttavia, occupandomi di chimica, mi sono spesso chiesta se nella pratica del chimico contemporaneo si potessero ritrovare le tracce dell’antica esperienza alchemica. Anche se in una forma molto diversa, l’esperienza del laboratorio chimico è ancora profondamente trasformativa, perché è fondata su una forma di apertura dello scienziato alla vitalità ineffabile della materia che lo circonda. Forse non condividerai questa prospettiva, ma molti aspetti della tua critica alla Tecnica, dall’imposizione di una Entità Generale Astratta mai situata in un corpo fino alla creazione di un universo chiuso nel linguaggio matematico, sono profondamente condivisibili anche dal punto di vista epistemologico, nell’ottica di lasciarci alle spalle il riduzionismo della fisica-matematica per costruire una nuova scienza più vitale e virtuosa. Nel suo saggio dedicato all’alchimia Le Meraviglie della Natura, Elémire Zolla scrive:
Il tessere, il coltivare, il discorrere celano miniere di significati. Eseguendo tali opere si riproduce in piccolo la creazione del cosmo. Approfondirli è sapienza.
Esiste un modo in cui queste antiche pratiche, al contempo “tecniche” e “magiche”, possono parlare alla scienza contemporanea?
[Federico Campagna] Di solito, cerco di attenermi a un paio di principi generali. Il primo è che di quello che ignoro, è meglio che non parli. Per questo motivo, e me ne scuso, preferisco non commentare sulla scienza contemporanea: semplicemente, non conosco abbastanza gli ultimi sviluppi teorici per potermi esprimere in maniera sensata. Quello che tu mi dici conferma che dovrei studiarli più a fondo. Il secondo principio, invece, può sembrare una contraddizione di questo primo – ma è piuttosto un modo per rispondere al settimo comandamento di Wittgenstein: di quello di cui non si può parlare, non bisogna tacere. Questa, credo, è la grande lezione che ci offrono le scienze simboliche quali l’alchimia. Da un lato, come dicevamo a proposito della Qabbalah, il linguaggio simbolico si occupa di bucare la parete del pensiero descrittivo, stravolgendone le regole e mandandolo a soqquadro fino a portarlo al silenzio. Dall’altro lato, però, il simbolo è un modo di portare l’assolutamente ineffabile, il divino, “l’al di là”, all’interno di questo mondo, dentro il linguaggio, “al di qua” del limite del silenzio. Il simbolo è una modalità attraverso cui la realtà ci parla, e al contempo è il modo specifico che è necessario assumere se si desidera sentire questa voce.
La cosa importante da tenere a mente, a mio parere, è che il linguaggio simbolico (per esempio, nell’alchimia) e quello descrittivo (ad esempio, nella chimica), pur restando totalmente alternativi, non richiedono l’esclusione l’uno dell’altro. Mi viene in mente Sir Isaac Newton, grande scienziato e… primo traduttore inglese della Tavola Smeraldina di Ermete Trismegisto. La realtà stessa “parla” numerose lingue, e dunque ciascun oggetto (così come ogni attimo di tempo) ci si rivela attraverso diversi registri. Sicuramente, il linguaggio scientifico non manca il proprio bersaglio, quando “ascolta” le cose sintonizzandosi sulla propria particolare frequenza. Ma ogni cosa del mondo, come lo spettro sonoro, risuona autenticamente su più di un livello. Se, ad esempio, la si approccia con lungo la frequenza simbolica dell’alchimia, ecco che iniziano a sentirsi anche altre cose – alternative e irriducibili a quelle rivelate dalla scienza, eppure non inconciliabili con esse.
L’obiettivo epistemologico da porsi, io credo, non è tanto la dedizione esclusiva a un solo linguaggio (che sia simbolico o scientifico), ma piuttosto la capacità di sviluppare un ascolto “sinfonico” della realtà, simile a quello sguardo “stereoscopico” di cui parlava Ernst Junger. L’obiettivo finale dell’alchimia – in quanto lavoro dell’alchimista sul proprio pensare e esperire, piuttosto che sulla materia – è proprio il raggiungimento di una composizione degli inconciliabili: una coincidentia oppositorum, in cui si sia in grado di cogliere in maniera “sinfonica” le diverse voci della realtà, dal silenzio al rumore.
[Laura Tripaldi] Prima di chiudere la nostra chiacchierata vorrei chiederti un’ultima cosa. Riprendendo il titolo di uno dei miei brani preferiti dei Death In June, "But what ends when the symbols shatter?”, volevo riproporti la domanda: cosa finisce quando i simboli si infrangono?
[Federico Campagna] Per risponderti, vorrei tornare indietro di un passo. Come dicevo, il simbolo è sia uno dei registri vocali della realtà, sia uno dei modi possibili di porsi al suo ascolto. La possibilità che i simboli si infrangano non può applicarsi al primo senso del termine, poiché tutte le molteplici voci della realtà continuano comunque a “cantare”, a prescindere dal nostro ascolto, e non c’è modo di zittirle. Può invece applicarsi al secondo, con l’insorgere di un’improvvisa “sordità” nel nostro modo di ascoltare le cose. E’ possibile, ed è già successo tante volte, che l’ “orecchio” metafisico di una certa società diventi sordo alla voce simbolica dell’esistente. La sinfonia del mondo perde una voce, il volume generale si abbassa – mentre le voci rimaste, come quella che canta sulle frequenze del linguaggio descrittivo, si fanno più forti e distinte.
Allo sparire del modo di ascolto simbolico, il riassetto “acustico” (ovvero metafisico) di una società comporta un cambiamento equivalente anche nel modo di vivere. La forma stessa della realtà viene modificata, mentre il campo di ciò che è possibile pensare o fare, ma anche amare o desiderare, si restringe vistosamente. In molti soffrono, alcuni si adattano alla nuova condizione – ma c’è, sempre, anche qualcuno che non si rassegna.
In uno dei Frammenti Postumi, Nietzsche scriveva che “quando scetticismo e desiderio struggente si accoppiano, nasce il misticismo.” Nella sua interpretazione, l’emergere del misticismo accompagnava il progressivo occultamento della realtà e l’automutilazione che gli esseri umani si sono inflitti con le lame del pensiero trascendente. A me pare, però, che questa diagnosi si apra anche a un’altra lettura del misticismo. Quando gli “dèi” sembrano smettere di cantare, e le cose del mondo si rivelano solo in maniera chiara e univoca come puro linguaggio (un “nulla” auto-significante), i mistici si sollevano in guerra contro la sordità metafisica della loro società. In loro c’è lo scetticismo nei confronti della propria epoca e lo struggimento di chi sospetta, o ricorda, l’esistenza concreta di qualcosa ormai inaudibile. Con i loro modi antisociali e paradossali, i mistici sono spesso gli unici in grado di far ricordare a una società tutto quello che ha perso lungo la strada del proprio “progresso”.
Bisogna però riconoscere che anche il misticismo è il sintomo doloroso di una patologia del sentire. Il mistico, generalmente, reagisce alla povertà della propria epoca andando in cerca di quello che più di tutto si trova all’opposto del mondo delle convenzioni, del linguaggio e delle identità. Un mistico non è una figura del mondo, ma cela al suo interno (in maniera più o meno esplicita), un’ostilità tipicamente Gnostica nei confronti di quelle dimensioni della realtà che si “danno” in maniera univoca e letterale, ovvero in maniera “mondana”.
Nel corso della mia ricerca, pur seguendo con grande attenzione i sentieri tracciati dai mistici (tra di loro tanto affini, in ogni luogo o epoca, da sembrare una sola confraternita di pellegrini), ho provato piuttosto a interrogarmi su come sia possibile immaginare una via intermedia tra questi due estremi: tra la sordità di una società come la nostra, e il rumore ultramondano che riempie l’orecchio mistico. Ovviamente, il mio non vuole essere un processo di invenzione originale: è possibile trovare questo modo di ascolto intermedio nelle opere culturali di diverse civiltà, dal mondo “pieno di dèi” raffigurato nell’Iliade, fino all’antropocentrismo radicale delle cosmologie Amazzoniche. Il mio ultimo libro, Prophetic Culture, parte da queste tradizioni per esplorare quel certo metodo di ascolto attraverso il quale, forse, è possibile armonizzare le voci della realtà.

Morte e pianto rituale
In questo libro Ernesto De Martino risale alle radici dell'esigenza umana di rifiutare la morte nella sua scandalosa gratuità e, di riflesso, procurare al defunto una «seconda morte» culturalmente definita, mediante il ricorso a determinate pratiche rituali. Tra queste, l'istituto del lamento funebre, rivolto ai vivi non meno che ai defunti, poiché la piena del dolore rischia di compromettere l'integrità della presenza dei sopravvissuti. Qui sta la funzione piú profonda del pianto rituale, che non cancella la crisi del cordoglio ma l'accoglie in sé, trasformandola in disciplina culturale capace di mantenere il pathos al riparo dall'irruzione della follia.
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La società senza dolore
Il mondo contemporaneo è terrorizzato dalla sofferenza. La paura del dolore è cosí pervasiva e diffusa da spingerci a rinunciare persino alla libertà pur di non doverlo affrontare. Il rischio, secondo Han, è chiuderci in una rassicurante finta sicurezza che si trasforma in una gabbia, perché è solo attraverso il dolore che ci si apre al mondo. E l'attuale pandemia, argomenta il filosofo tedesco-coreano, con la cautela di cui ha ammantato le nostre vite, è sintomo di una condizione che la precede: il rifiuto collettivo della nostra fragilità.
Visualizza eBookLaura Tripaldi è scienziata e scrittrice. Collabora con diverse riviste online. Ha contribuito come coautrice all'antologia Demonologia Rivoluzionaria (NERO, 2020). Il suo primo libro, edito da effequ, è Menti Parallele. Scoprire l'intelligenza dei materiali (2020)