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Nella Natura si cela il sacro. Le poesie di Emily Dickinson

Di Maria Concetta Cariello • febbraio 10, 2025

"Fosse vissuta nel ‘600 nel New England, l’avrebbero bruciata viva come le streghe".


Così sostiene Allen Tate, critico americano. È lei stessa, in realtà, a definirsi strega, oltre che regina, monaca ribelle, zingara, e mendicante. Approcciarsi alla figura di Emily Dickinson è avvicinarsi a tentoni a un mistero, un universo trapuntato di articolati enigmi che danzano tra loro. Leggerla espone all’essenziale ed esistenziale esperienza del non- capire, come afferma la scrittrice e critica letteraria Nadia Fusini.

E allora, nel percorrere le sue 1775 poesie o frammenti, è bene seguire il consiglio di Sara De Simone (autrice e traduttrice) e adottare con umiltà una visione periferica e un’andatura interrogativa, senza pretendere di afferrare e trattenere tutta la sabbia dell’arcano dickinsoniano nel pugno di una mano.

Nata il 10 dicembre 1830 ad Amherst, Massachusetts, trascorre gran parte della sua vita nella tenuta paterna della Homestead, nella quale gradualmente si isolerà dal mondo esterno. Il contesto storico è quello di un’America in bilico tra puritanesimo e romanticismo. Lei è invece un’eretica (da intendere come libera, dal greco airetikos, “colui che sceglie”), come lo erano, appunto, le streghe.

Nella poesia 435 scrive:

Consenti – e sei sano – / Obietta – e diventi pericoloso subito – / da legare in catene –.

Lei, dunque, sembra stare dalla parte di chi obietta e si ribella alle dottrine che abitano la sua casa e la società in cui vive: con spirito blasfemo dialoga con un Dio Ladro, e geloso: “Per me io scapperei / via da Lui – dallo Spirito Santo – da tutto” -.

Decisa a non pubblicare le sue opere in vita, ci lascia post-mortem un ingente capolavoro letterario: da una parte l’incanto delle sue poesie e dall’altra il privilegio delle sue lettere, due apparati testuali che si interfacciano e alcune volte dialogano tra loro. Se nell’epistolario, recita sé stessa nei ruoli di figlia, sorella, amica, amante; nell’opera poetica, invece, la sua identità sociale si spezza e, al suo posto, prende piede “una vastità di identità inesplose che [la] poeta ospita in sé come visitatori misteriosi da altri mondi” – come scrive Marisa Bulgheroni nella prefazione a Tutte le poesie (I Meridiani, Mondadori).

Così adotta pronomi diversi, sia per sé stessa, sia per gli elementi naturali che popolano le sue poesie. Tutto il suo componimento è tappezzato di identità multiple, cangianti, ora animali, ora umane, ora maschili, ora femminili, in un sottile – e talvolta ironico – gioco di ambiguità sensuale e onirica. Questo suo desiderio – sia esso poetico, spirituale o probabilmente personale – di attraversare e superare i confini dell’identità di genere dei suoi tempi, potrebbe essere un tentativo di esplorare con fluidità la dualità dell’esperienza umana e in qualche modo trascenderla. Si pensi a come in alcune culture ancestrali e sciamaniche, il cambio simbolico di genere attuato dallo sciamano (ad esempio attraverso travestimenti rituali) venga utilizzato come mezzo per entrare in contatto con gli spiriti, per acquisire saggezza, o per favorire la guarigione – come scrive lo studioso e critico Clifton Snider. In tal senso la fluidità di genere assume un significato sacro e cosmologico. Questa lettura ci restituisce l’immagine di una Dickinson appunto libera, non necessariamente o unicamente motivata da ideologie femministe – come si è spesso pensato – ma sostenuta da una consapevolezza spirituale che vede annullarsi qualsiasi limitante differenza (di genere o di specie) tra gli esseri. Dunque, oltre che libera, si potrebbe dire risvegliata.

Lo scenario dickinsoniano presenta un bestiario e un erbario molto ricchi – animali di segno arcaico; animali esotici; fiori e piante; ma anche creature mitiche e fiabesche come elfi, gnomi, folletti, sirene –, presentando la natura come materia prima dell’osservazione e della conoscenza, e dipingendola come teatrale, magica e sacrale. All’interno di questo paesaggio imaginìfico, Dickinson delinea, con accuratezza geometrica da maga giardiniera – che lascia intravedere la sua effettiva competenza in ambito botanico – una Natura che si fa Divinità e di cui lei stessa è a servizio.

Sono proprio i suoi compagni animali e vegetali a diventare i protagonisti di riti e cerimonie. Dunque è proprio nella Natura e in tutte le cose terrestri che si cela il sacro: “Udire un rigogolo che canta / può esser cosa comune / o divina”. E, allo stesso tempo, le dimensioni celesti si manifestano proprio nella mondanità del quotidiano e del domestico: “Portami il tramonto in una tazza, / conta le anfore del mattino, / le gocce di rugiada".

Così, l’ambiente del giardino della Homestead si fa microcosmo rappresentativo non solo dell’animo umano ma del tutto che è Uno, indistintamente sacro, naturale, e ordinario. Un luogo in cui i confini tra il mondo esterno e il mondo interiore si sfrangiano, e miracolosamente si schiudono per la poeta i misteri e le verità nascoste del cosmo. Gli elementi naturali sono i maestri, e gli antenati:

Il monte sedeva sulla piana / [...] / Le stagioni gli giocavano ai ginocchi / come piccoli intorno a un genitore – Nonno dei giorni è lui / avo di aurore.

Qui Dickinson nomina il monte: nonno, avo; proprio con quello stesso devoto rispetto con cui gli sciamani si rivolgono, ad esempio, alle pietre impiegate per la cerimonia dell’inipi. Dunque la Natura insegna, ma non solo: la Natura dickinsoniana è vera e propria Divinità (le montagne, ad esempio, divengono “potenti madonne”). Come afferma Steven B. Herrmann, autore e psicoanalista junghiano, Emily Dickinson crea una teologia naturale fondata sull’amore per il mondo naturale e per la Divinità femminile (non più per la tradizionale trinità tutta al maschile).

In questa cornice, Dickinson scrive la sua lettera al mondo da umile messaggera, quasi trascrivendo “semplici annunzi che dà la natura / con tenera maestà”. I suoi versi – oltre che la Natura stessa – agiscono come strumenti di trasformazione e cura, tanto per il lettore quanto lo sono stati per l’autrice. “Malati! Abbiamo bacche, per placare la sete! [...] Prigionieri! Vi offriamo un’amnistia di rose! / Deboli! A voi borracce d’aria!”. E la poeta desidera ardentemente portare guarigione:

Se allevierò il dolore di una vita / o guarirò una pena – [...] / non avrò vissuto invano.

Lei scrive, o meglio canta per “scacciare la tenebra” - di questa vita terrestre. Così la poesia diventa preghiera; la Natura, il nettare divino cui attingere.

In tal senso, Dickinson sembrerebbe configurarsi come un’intermediaria tra mondi, una figura quasi sciamanica – o Medicine Woman, come definita da Herrmann. È lei stessa a designare le sue poesie come diagrammi di rapimento, lasciando intuire che esse emergano da uno stato di trance creativo-divina, in cui i suoi sensi risultano acuiti in mirabolanti sinestesie, permettendole di percepire la vera essenza della realtà al di là del velo illusorio. Una capacità di percezione e di visione così intensificata che porta all’estasi. Un’estasi non circoscrivibile né misurabile, una benedizione traboccante che si fa “limite del sogno, / centro della preghiera, / godimento perfetto, trafiggente”.

Il rapimento a cui allude l’autrice può rievocare il volo dello sciamano, in cui la poeta-medicina sperimenta un’ascensione spirituale, accedendo a dimensioni “superiori” da cui attingere informazioni preziose per la guarigione o evoluzione di sé e dell’altro. Ma prima del volo, bisogna che si attraversi la cosiddetta crisi o malattia sciamanica, con un momento di totale smembramento da parte degli spiriti: il neofita attraversa una fase di dissoluzione o perdita delle sue normali identità e abilità. In Dickinson questo motivo si manifesta tanto nella produzione poetica quanto nella sua vicenda biografica.

Particolarmente rilevante risulta il periodo a partire dall’autunno del 1861, quando iniziò a sperimentare episodi di fotofobia la cui diagnosi rimane ancora oggi incerta. Ancora più interessante, in tal senso, risulta essere l’ipotesi – congetturata dalla biografa Lyndall Gordon – che la poeta soffrisse di epilessia; malattia sacra, è così che la indicavano gli antichi. D’altronde essa è spesso associata, negli studi antropologici sullo sciamanesimo, alla chiamata o crisi sciamanica; l’epilessia (e altre malattie): un’iniziazione che trasforma “l’uomo profano [...] in un tecnico del sacro”, come scrive Mircea Eliade nel suo monumentale volume Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi. Lo smembramento e la crisi sciamanica sembrano rispecchiarsi vividamente in alcune poesie dickinsoniane che alludono a una frammentazione dell’io, una morte simbolica dai caratteri rituali, (“come un tamburo, un rito – / batteva – batteva senza requie – / finché pensai / che la mente s’intontiva”), e un’immersione in una realtà sconosciuta dove “l’anima viene catturata” e “spinta da delirio [...] tocca la libertà, e non sa più nulla”.

Queste immagini suggeriscono un distacco dall’approccio razionale alla conoscenza (“e poi un’asse si spezzò, nella ragione, / e io precipitavo giù, nel fondo – / e urtavo contro un mondo, a ogni strapiombo, /e smisi di sapere – allora”), verso un sapere, o meglio, un non-sapere intuitivo e ancestrale più “potente” della razionalità:

Nell’intuizione, le cose più potenti / si rivelano – non nelle parole.

Ad accompagnare armoniosamente siffatto attraversamento dei mondi, vi è, appunto, il veicolo della poesia, e al suo interno, più precisamente, l’elemento mistico del suono; una peculiarità centrale sia nella produzione poetica dickinsoniana sia nelle pratiche sciamaniche. Nel caso di Emily Dickinson, emerge chiaramente una dimensione acustica, in cui la melodia assume un ruolo terapeutico intrinseco, non solo nell’evocazione di scenari ed immagini sonori, ma anche nel suono delle parole e nel loro accostamento, che sfociano in allitterazioni, anafore e altre figure retoriche; delle specie di scioglilingua che somigliano a indovinelli, e che ricordano i canti di bardi e cantastorie, o gli icaros degli sciamani. Questa evidente prospettiva musicale della sua poesia si riflette nella struttura stessa del suo componimento a frammenti, caratterizzata da un linguaggio compresso ed ellittico, in cui l’interruzione e la rottura sintattica (che potrebbero eventualmente richiamare l’intermittenza spasmodica dagli episodi epilettici), insieme a un uso innovativo della punteggiatura – come con la famosa “lineetta” dickinsoniana – dominano il ritmo del verso. Tale approccio al linguaggio richiama in modo notevole la qualità della musica sciamanica, caratterizzata da “una ragionata ‘oscillazione ritmica’ che destabilizza [...] qualsiasi nozione di periodicità o di struttura, e quindi di sicurezza, di prevedibilità, di previsione” (come descrive Giovanni De Zorzi in Beggiora, Il cosmo sciamanico).

Io canto per riempire l’attesa.

scrive nel frammento 850; e sta parlando dell’attesa per antonomasia, ossia quella della morte. Nelle poesie su questo tema, la poeta sembra assumere il ruolo di psicopompo, agendo come guida che conduce, proprio con le parole e la loro musicalità, attraverso l’esperienza di passaggio nell’aldilà. E lo fa per sé stessa, e per i lettori che – capaci di trapassare l’ostilità delle parole – incarnano quelle mani invisibili a cui lei consegna il suo cantare.

È commovente leggere Dickinson ritrarre la morte come “il più profondo esperimento / Destinato agli Uomini" - dipingendola come benigna e ardita, e vedendone chiaramente il ruolo esplicativo e illuminante: “Dalla brava esibizione della morte / abilitati a intendere / in modo più preciso cosa siamo / e la funzione eterna”. Certamente ogni singolo frammento della sua opera aiuta a varcare le soglie dei mondi – siano esse le porte del mondo degli spiriti o dei regni animali, i confini di genere, o i limiti della razionalità – e si configura caratteristicamente come poesia della liminalità.

Emily Dickinson traghetta sé stessa e chi legge, nell’altrove; e sembra incredibile lo faccia stando ferma nella sua piccola stanza. Nascosta sotto il suo vestito bianco. La sua vita, un canale travolgente di eruzione. Un suono, quello delle sue sillabe, che squarcia il caos dell’oscurità come un canto di Verità che benedice e cura.

Verso te scorre il mio fiume di Emily Dickinson

Verso te scorre il mio Fiume –
Mare blu! Mi accoglierai?
Al mio Fiume, su, rispondi –
Mare – guardami benigno –
a te porterò Torrenti
da reconditi frangenti –
Su, dài – Mare – Prendimi!

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Maria Concetta Cariello si dedica all’arte del movimento come artista della danza, performer e ricercatrice indipendente, integrando la pratica somatica e olistica nel suo percorso professionale. La sua indagine si colloca all’intersezione tra arte, spiritualità e benessere, con un profondo interesse per le culture indigene.

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