Lo sguardo obliquo di Vitaliano Trevisan
Comprendere il mondo di Vitaliano Trevisan ha bisogno di uno sguardo volto a due diverse prospettive, di per sé opposte, una macro (il contesto sociale, urbano, economico, il suburbio vicentino) e una micro (le infime pieghe del suo cammino, gli scarti, i ganci intertestuali). La scrittura si rivela non catalogabile, ma in essa sono chiaramente individuabili delle influenze, svelate da lui stesso, che emergono, sia pure fagocitate dalla sua personalità. Il nume tutelare dello scrittore è Thomas Bernhard che ha dato il “ritmo” alla sua scrittura ridondante, circolare, ossessiva, come emerge già dal romanzo della consacrazione, I quindicimila passi. Un resoconto, del 2002. Come nei seguenti Un mondo meraviglioso e Il ponte, il protagonista si chiama Thomas, forse il segnale più grossolano di tale filiazione. Emulare lo stile di Bernhard in toto era una follia o una ingenuità e, da un punto di vista della resa letteraria, un potenziale suicidio. Dunque, ecco come tale vicinanza-distanza è delineata dallo stesso Trevisan in un’intervista:
«Del paragone con Bernhard sono conscio e me ne frego. La presenza della sua scrittura nei miei ultimi libri non è più così evidente. Comunque, non è fondamentale. L’imitazione è insita nell’uomo. L’opera d’arte è imitazione»
L’apparentamento tra i due è anzitutto stilistico: il periodare ridondante, avvitato su sé stesso, il rapporto simbiotico e graffiante con il territorio, con la città, i luoghi. Il pensiero si fa materia, sovverte il paradigma diegetico: non descrive, non suggerisce, esiste come materia vivente, ha statuto autonomo. Penso che Trevisan avesse il romanzo Camminare di Thomas Bernhard come sottotesto per la sua scrittura. Camminare è una tensione verso un centro che, disintegrato, rimane solo superficiale e che si compie come analogo della circonferenza baconiana, altro artista caro al vicentino e ampiamente citato nel romanzo I quindicimila passi, sulle connessioni di contatto, sul contaminarsi e produrre altra materia. Le pagine sgorgano e si generano per partenogenesi l’una dall’altra. Nel corpo del libro si ha una derivazione rizomatica che si interseca nel discorso: gambe dalle spalle, ventre che irradia arti, testa dalle gambe, mani dalla testa.
«Nulla è più istruttivo del veder camminare uno che pensa così come nulla è più istruttivo del vedere pensare uno che cammina, per cui possiamo dire senz’altro che vediamo come cammina colui che pensa, perché vediamo camminare colui che pensa e viceversa vediamo pensare colui che cammina […]camminiamo con le nostre gambe, diciamo, e pensiamo con la nostra mente . Ma potremmo anche dire che camminiamo con la nostra mente»
Allo stesso modo Thomas nel romanzo di Trevisan conta meticolosamente i passi: quelli che lo portano da casa alla questura, da casa al bosco, dal bosco alla casa di famiglia, da casa al tabaccaio, da casa al municipio:
«Quasi tutti i giorni io cammino per molti chilometri, inoltrandomi e percorrendo nelle più svariate direzioni il bosco di roveri e la palude, ma in realtà da dieci e passa anni sono paralizzato ma solo incatenato. O forse non sono paralizzato, ma solo incatenato. Camminare in pace è praticamente impossibile e il risultato è che i conti non tornano mai. Il numero di passi non è mai uguale all’andata e al ritorno perché qualcosa o qualcuno riesce sempre a disturbarmi, facendomi perdere il conto, o peggio ancora, facendomi perdere il ritmo»
La camminata urbana o periurbana, nella provincia vicentina ha valore catartico, terapeutico, serve per non morire o per differire la morte. Il suicidio è compagnia perenne esorcizzata dal conteggio ossessivo dei passi compiuti. Giustamente in Arabeschi Trevisan dice di non essere un fottuto flâneur: ogni attitudine contemplativa e onirica è sostituita da una lucidità cinica e caustica. La camminata designa la volontà di frantumare i nessi spazio-temporali e di vedersi dal di dentro mentre si compie il percorso. L’indiretto libero non è solo il resoconto del personaggio che cammina per Vicenza e registra meticolosamente ogni passo compiuto, delinea un percorso che non è quello del classico flâneur, bensì quello legato all’esperienza estetica della psicogeografia. Il corpo esplorante della pratica psicogeografica sceglie lo strolling o passeggiata urbana come pratica elettiva. Nella ridefinizione attraverso il corpo ambulante, lo stalker/scrittore ridefinisce se stesso e i rapporti di potere inscritti in questa scrittura binaria (corpo/spazio). La pratica del camminare consente una riappropriazione dei tempi fisiologici, di una scansione ritmica, di un programma di viaggio, di una decelerazione psicofisica:
«Chissà, pensavo, forse un tempo passeggiare per i colli poteva anche essere rilassante, un immergersi nella natura poteva anche essere rilassante, un immergersi nella natura, eccetera. Ma ora, pensavo, camminando in questi anni, oggi, adesso, il nostro camminare si è trasformato in un aggirarsi furtivo per un territorio dominato da una sovrastenia di ordine superiore, perennemente costretto sulla difensiva da un latente, ma costante, stato di assedio»
Il primo indizio è la non casualità del tragitto a piedi, rigorosamente conteggiato nei passi. Il disegno sottostante prevede la recita di un copione, il vero nerbo del plot, dipanato lungo le direttrici di un cortocircuito spazio-temporale tra il ricordo, il passato, le ossessioni onnipresenti, e la litania che le riporta in vita. Nella scrittura riecheggiano la derive psicogeografica e le mappature esperienziali che hanno modificato la letteratura del cammino.
In Trevisan lo spazio circostante, decadente, della provincia vicentina è filtrato da una soggettività esclusiva, che non permette ad altri l'interazione. Tutto è visto attraverso lo sguardo obliquo di Thomas. Il labirinto psichico dello spazio è costellato da simboli di morte non respinta con atto di volizione, ma ripercorsa e così rimandata all’ infinito. La conta dei passi non è mai pertanto la stessa:
«Pensare di continuo alla morte e al suicidio non vuol dire che si debba arrivare a togliersi davvero la vita, anzi, pensavo, non è escluso che proprio questo continuo pensare al suicidio e alla morte non ci preservi, se non dalla morte, almeno dal suicidio. La rassicurante coscienza di avere un’ultima carta da giocare, pensavo, sempre pronta in qualsiasi momento, per qualsiasi evenienza. Una scelta c’è sempre, aveva detto mio fratello, sempre, pensavo camminando, possiamo riservarci quest’ultima possibilità»

I quindicimila passi
Thomas conta i passi. Da casa alla questura, millecinquantatre passi. Da casa al tabaccaio, settecentonovantuno, da casa allo studio del notaio Strazzabosco a Vicenza, quindicimila passi. Conta con una precisione metodica, senza mai lasciarsi distrarre, perché il vuoto che si porta dentro va riempito di incombenze continue, contare camminare calcolare. Gesti esatti, netti, in un tentativo ossessivo di guarigione dal tema che lo incalza della solitudine e della morte.
Visualizza eBookI meccanismi dell’infernale macchina della postmodernità, traumatica, con il passato della città moderna, frutto di progetto razionale, causano la trasformazione delle metropoli in agglomerati diffusi, in cui le periferie insistono come residui, minacce in espansione, la creazione di ciò che Koolhas definisce “generic city”, organismo in perenne processo di mutazione/cancellazione, come un palinsesto infinito. Nel caso delle città italiane, il processo di trasformazione da ciò che si presentava come una realtà semi-rurale, con le contraddizioni locali definibili con “cento città”, si è attuato con più lentezza rispetto ai ritmi delle metropoli europee. La storia post-unitaria ha “disegnato” una geografia di città che hanno “subìto” il processo di industrializzazione piuttosto che organizzarlo razionalmente. Vitaliano Trevisan è stato particolarmente sensibile alla descrizione del paesaggio che nel romanzo I quindicimila passi e più compiutamente in Tristissimi Giardini viene definito sprawl, o periferia diffusa. La geografia italiana si è configurata assecondando le tendenze territoriali presenti dal primo dopoguerra: la presenza della piccola e media impresa nell’area prevalentemente nordorientale della penisola, lungo la direttrice Marche Abruzzo, ha creato centri industriali, mentre il Mezzogiorno, in parte escluso da un processo industriale, ha un altro paesaggio. In pratica, l’Italia è dimidiata, dal punto di vista geopaesaggistico. In questi contesti, dove i retaggi storici hanno giocato un ruolo chiave, la persistenza della mezzadria a discapito di una modernizzazione di piccola e media impresa, la relazione città-campagna è rimasta ancora forte e ha avuto una forte ricaduta nella “rappresentazione” dello spazio e del paesaggio, anche urbano, in letteratura.

Tristissimi giardini
«Si ricordi che qui lavoriamo coi secondi, capisce, coi secondi! Arrivederci, aggiunge».«Una rotazione completa del tamburo rotante della betoniera intorno al suo asse: su questa unità di tempo è tarato lorologio degli umani e dei flussi relativi; o viceversa, in fondo la cosa ha poca importanza: animali, vegetali, persone, sentimenti, pensieri, ovvero merci e flussi di merci, e in definitiva tutto ciò che si muove in e per questo territorio, si regola sullo stesso metronomo».
Visualizza eBookTristissimi giardini è un titolo che evoca uno stato d’animo associato al luogo. L’opera nasce nel 2010, per la collana Contromano, ed è interamente dedicato alla periferia diffusa vicentina raccontata in una sorta di diario in prima persona. Più vicino al genere della non-fiction che del saggio, questo scritto è un lucido e intransigente resoconto del degrado territoriale della provincia vicentina. Lo sguardo dello scrittore, zenitale nelle premesse e nelle conclusioni, si dilegua nel corso della narrazione fino a perdersi in frammenti: la mappa non è il territorio è il leitmotiv che conduce lo sguardo sul territorio:
«Paradossalmente, più il rilievo è preciso, più si evidenzia il fatto che la mappa non è il territorio. La cosa risulta in tutta evidenza confrontando sulla carta la zona oggetto della nostra riflessione, il cosiddetto Nord-Est con una zona d’Europa che, almeno dal punto di vista della densità, presenta delle analogie, ovvero quella parte a nord ovest della Germania in cui le città e le strade si fanno così dense che è davvero difficile distinguere tra l’una e l’altra»
Il riferimento al romanzo La carta e il territorio di Houellebecq, sebbene non sia esplicitato, è avanzato da analogie sullo sguardo disincantato e pessimista dell’artista che tanto più si avvicina al particolare della mappa, più si rende conto della distanza che separa il linguaggio contemporaneo dalla pretesa di rappresentazione della realtà: l’ossessione baconiana, già snocciolata nel primo romanzo della trilogia bernardiana, è un altro possibile punto di raccordo della meta-riflessione che ciascuno dei due attua sull’asfittico mondo contemporaneo. È sempre una questione di sguardi e prospettive: Houellebecq sceglie di autorappresentarsi come scrittore trasversale, che osserva il “campo” (nel senso di Bourdieu) da fuori, Trevisan lo fa in maniera immersiva, cambiando scenari e attori, dalla carne vibrante di chi lavora e sta in bilico, come i funamboli di Works che per una giornata a cottimo si vendono la vita. Per entrambi è questione di scarti e di prospettive tra la realtà e il suo doppio opaco:
«Un conto è tracciare delle linee e disegnare una pianta, tutta un’altra storia è ritrovarsi a camminare su quell’altra pianta, sono ora venti centimetri, e la pianta non è più un’astratta sezione orizzontale, un disegno a due dimensioni, ma, dandosi in vero essere, ha acquisito anche la sua profondità, ovvero, per noi che ci camminiamo e lavoriamo sopra, tutta la sua altezza. E se sbagliamo qualcosa, non sarà più semplicemente questione di cancellare una linea e tracciarne un’altra, ma ogni errore sarà immediatamente e inesorabilmente punito»
Nella narrazione della periferia vicentina, Trevisan, come si è accennato, va oltre la definizione comunemente accettata di città diffusa, adottata all’unanimità per descrivere i cambiamenti della città post-industriale e i processi di riadattamento del tessuto urbano e periurbano. Appare a prima vista problematico applicare un modello così lontano alla realtà italiana, già così peculiarmente caratterizzata da un tessuto urbano piuttosto discontinuo e frammentato. Se, nella realtà americana, il trionfo del suburb e con esso la suburbian way of life rappresenta un modello che diventa importantissimo per l’immagine esterna e per l’autorappresentazione della prosperità americana post-bellica, nell’applicazione di tale modello alla realtà italiana il riferimento d’obbligo è al concetto di città diffusa veneta e, più in generale, dell’area padana. Per Trevisan il suburbio vicentino coincide con la periferia diffusa, un luogo che ha mutato radicalmente la sua identità, prima territorio di campagna, ora spettro di tristissimi giardini di devastante tristezza, formattati secondo lo standard del giardino piccolo borghese, dove lo scrittore/artista si trova integralmente estraneo, tanto estraneo da rimanere estraneo a se stesso:
«Annotiamo, di passaggio, che il fatto che il paese della mia infanzia sia ormai definitivamente inglobato nella periferia diffusa non impedisce ai suoi abitanti di pensarsi, e di pensare, e di agire, non necessariamente in quest’ordine, come abitanti di un piccolo paese, con tutto ciò che ne consegue […] Sono a casa mia, nel paese della mia infanzia, nel mio ambiente naturale, se pure ne esiste uno, comunque un ambiente che conosco come nessun altro al mondo, eppure mi sento un estraneo, e siccome sono estraneo nel mio ambiente, comincio a sentirmi pericolosamente estraneo me stesso»
L’interno dialogo con i poeti e scrittori veneti, da Zanzotto a Piovene, inscenano una sorta di drammaturgia testuale che pone al centro di questa devastazione dei luoghi e del senso l’io dello scrivente, l’autore, la sua vita, vista da fuori, estraneo come in un’opera di Camus. Non si capirebbe Tristissimi giardini senza acquisire una prospettiva sghemba: essere estranei per essere più lucidi, appartenere alle lacune del territorio senza farsene inglobare, in una sorta di resistenza che viene dalla capacità di vivere sull’orlo dell’abisso, nell’imminenza di effettuare il salto fatale. Ed è lo sguardo zenitale dall’alto che fa da chiosa al libro, quella psico-passeggiata a fare da cerniera al grande lavoro di Works, romanzo autobiografico del 2016. La ripresa della camminata psichica e dello sguardo, nei capitoli “Il mondo dall’alto 1; il mondo dall’alto”, è una delle principali chiavi di lettura per capire questo romanzo di raccordo. Il lavoro, l’essenza sociale del lavoratore operaio, a cottimo, precario è una chiara similitudine esistenziale. Una vita vissuta sul filo della ragione periclitante, funambolica. La stessa ragione che sottende la scommessa della scrittura, un corpo a corpo con la materia della vita, pronta a scivolare nel nulla mentre la guardi dall’alto:
«Quel nuovo lavoro, arrivato per caso, mi piacque da subito proprio perché si trattava di lavorare in alto, sui tetti, cosa che dava al mondo una prospettiva inusuale; e che fosse così pericoloso me lo faceva piacere ancora di più, forse perché l’altezza, di cui almeno all’inizio, ero sempre ben cosciente, mi obbligava a concentrarmi, a esserci, per così dire, lì e ora, su quella trave, su quel muro, su quel tetto, e mi costringeva continuamente a mettermi alla prova, quasi fosse un gioco e non un lavoro»

Grotteschi e Arabeschi
Dall'incontro fra Vitaliano Trevisan, vincitore del Campiello Francia, e l'universo di Poe nasce uno sguardo limpidamente classico e insieme feroce, capace di narrare l'autentico orrore. Che si tratti di una famiglia oscena e di una madre moribonda che sa nascondere segreti - il piú atroce dei quali solo al lettore sarà svelato - o di un uomo che vuol raschiare via dalla casa ogni traccia della donna che l'abitava, o del piú spietato ritratto di artista italiano contemporaneo che possiate immaginare.
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Works
Con una scrittura originale come un classico pezzo di jazz, che ne ha fatto uno degli autori italiani piú importanti della sua generazione, in questo romanzo autobiografico Vitaliano Trevisan racconta il lavoro nel luogo in cui è una religione, il Nordest, dagli anni Settanta fino agli anni Zero. E attraverso questa lente scandaglia non solo le mutazioni del nostro Paese, ma la sua stessa vita.
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Black Tulips
L'ultima opera a cui Vitaliano Trevisan stava lavorando, inviata all'Einaudi qualche mese prima di morire. Nella sua brutale, lancinante verità, è forse quella che gli assomiglia di piú: interrotta ma non incompiuta.
Visualizza eBookAntonina Nocera vive a Palermo dove svolge la professione di insegnante nella scuola secondaria superiore. Si occupa di critica letteraria, ha pubblicato una monografia dal titolo Angeli sigillati. I Bambini e la sofferenza nell’opera di F.M. Dostoevskij (FrancoAngeli, 2010), Metafisica del sottosuolo – Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskij (Divergenze, 2020) e AA.VV. Il poema del Grande Inquisitore: fra Teodicea e Modernità (Castelvecchi 2023); AA.VV, Tra amiche (Les Flaneurs edizioni 2023) oltre a contributi critici e racconti su riviste come Kaiak-A philosophical Journey, Il Maradagàl, Kainos, Antinomie, Limina. Gestisce il blog letterario Bibliovorax (www.bibliovorax.it) ed è direttrice di collana per Augeo- quaderno di scienze umane- (Divergenze), scrive sulla pagina “Cultura Italia- Russia”, dedicata alla divulgazione della cultura e della letteratura russa.