Orso, chi e cosa sei?
La nostra vita insieme agli altri animali, ormai dovrebbe essere chiaro, non può essere ridotta a un idillio improbabile di armonia e bellezza o storpiata in una relazione di paura, controllo e brutalità. Fra questi due poli ugualmente dannosi, potremmo percorrere vie di rispetto e distanza, che rendano il nostro soggiorno terreno tollerabile per le altre specie e, come naturale conseguenza, anche per l’umanità presente e futura.
Portandoci dentro un tema caldo di questi tempi, la scrittrice Mary Roach nel suo Wanted! Quando la natura reagisce alla prepotenza dell’uomo e infrange le sue leggi, tradotto in italiano per Aboca Edizioni, indaga le reazioni umane ad animali e perfino piante che con i loro comportamenti infrangono le nostre leggi e mettono a rischio l’idea (tutta bianca e caucasica) della nostra centralità su questo pianeta. Se nei secoli passati gli animali potevano essere processati come un qualsiasi essere umano ritenuto colpevole di un crimine, o, in epoche più recenti, eliminate alla stregua di creature parassitarie, oggi il percorso è più complesso, con la mediazione di enti ecologisti e organizzazioni che si occupano di risoluzione dei conflitti. Ma raramente le decisioni vertono a favore dell’altro animale, o, almeno, per una convivenza nella quale non ci aspettiamo che i nostri spazi siano sacri e solidamente preclusi, mentre violiamo imperterriti gli spazi del resto del vivente.
Mi soffermo sulle storie relative all’orso, animale simbolo dell’emisfero boreale.
Gli orsi criminali descritti da Mary Roach sono quelli del Colorado, per lo più intenti a saccheggiare bidoni della spazzatura malchiusi, o a entrare in case e appartamenti, talvolta senza fare danni, per rovistare nel frigorifero. La conseguenza per questi atti è solitamente una condanna a morte: l’orso ha la colpa di aver contattato lo spazio umano, violandolo. E se invertissimo questo modo di vedere la relazione? Se restituissimo agli spazi, e poi agli orsi, la loro neutralità, indifferenza, capacità di accettare o respingere chiunque?
Scrive Roach:
“E se accettassimo il rischio? E se scegliessimo di vivere non solo con un orso che di tanto in tanto ti entra in cucina, ma con la probabilità che qualcuno a un certo punto venga ucciso da questo orso? Facciamo volare gli aerei anche se ogni tanto si schiantano e le persone muoiono. La differenza è che le compagnie aeree grazie ai loro ricavi coprono le spese dell’assicurazione e delle cause legali. Quando un orso ferisce o uccide una persona, la responsabilità può ricadere sull’ente forestale dello stato, e gli orsi, a differenza degli aerei, non generano le entrate necessarie per coprire i costi”.
E ancora:
“Tutte le agenzie governative concordano su una cosa: quale destino attende un animale selvatico che uccide un essere umano. Anche questo un giorno potrebbe cambiare? Ci sono luoghi, in questo pianeta, in cui l’opinione pubblica pende a favore dell’animale, specie nei casi di attacchi per ragioni difensive?”
Come risposta Roach cita la cultura tibetana, attraverso le parole del biologo Dave Garshelis, che ha vissuto sull’altopiano. Secondo la visione buddista infatti non esiste un primato dell’umano sull’altro animale, e non ci è dato il diritto di decidere punitivamente dell’orso – in quanto orso.
Volgere lo sguardo ad altre culture umane significa partire dalla differenza che anima la nostra varia e talvolta sconosciuta umanità, nel cammino sul pianeta. Limitandoci al nostro ambito occidentale, basterebbe tuttavia immergersi nella letteratura per scoprire la nostra millenaria connessione con l’orso. Animale sciamanico, antenato frequente nell’araldica e nei cognomi di nobili famiglie, nemico numero uno dell’ordine cristiano d’Europa, un diavolo incarnato per Sant’Agostino, capace di assumere la posizione eretta – proprio come noi. L’orso è stato allontanato nei simboli religiosi, sostituito da un distante leone africano, emblema di San Marco, il più antico fra gli evangelisti; è stato cacciato e ridotto in schiavitù nelle corti; è stato considerato uno stupido nelle storie allegoriche medievali, di cui il migliore esempio è il francese Roman de Renart (Romanzo della Volpe), collezione di racconti satirici dove agli umani si sostituiscono animali. Eppure la sua figura continua a ricevere ospitalità e riscatto in moltissime scritture contemporanee, dove si aggira quale testimone di un rimosso profondo: il selvatico che ritorna, dell’amore o dell’odio che supera il linguaggio, il nostro limite umano, nelle zampe gigantesche del plantigrado. Ho scritto a lungo dell’orso nei miti e nell’antropologia: qui vorrei limitarmi a una carrellata non esaustiva di romanzi contemporanei, dove l’animale gioca un ruolo primario. Esce dalla foresta con la sua verità e ci sprofonda nella nostra personale, senza sentieri sicuri per l’uscita.
Comincio con un autore che da sempre scrive meravigliosamente racconti sugli animali, Vincenzo Pardini. Nel suo Il viaggio dell’orsa, che dà il titolo alla raccolta omonima, siamo nel basso Medioevo in Garfagnana, all’epoca in cui un orso doveva essere consegnato al Duca di Ferrara ogni Natale, perché fosse esibito, ingrassato e infine macellato e servito durante un lauto banchetto. In quella terra, nel pieno del racconto, appare un’orsa vecchia, apparentemente invincibile, un’orsa che ha memoria dell’umano. Quando le viene sottratto il cucciolo, lei si mette sulle tracce dei rapitori.
“L’orsa, accostato il muso al macigno, capì che sarebbe stato arduo spostarlo. Tuttavia provò a comprimerlo con zampe e fronte. Non si muoveva. Allora si mise a scarufare la terra. Sapeva quanto le fosse alleata. Ma, in breve, dovette desistere. Il macigno restava inamovibile e cominciava a mancarle l’aria. Presa dal furore, vi appoggiò tutta sé stessa nel tentativo di rovesciarlo. Voleva uscire ad ogni costo, ritrovare suo figlio”.
Pardini è un maestro nel renderci lo spettro dei sentimenti animali senza mai umanizzarli. Eppure ogni madre è madre, e la nostra compassione come la nostra rabbia si schiera con l’orsa, riconoscendola più umana dell’umano. Perché non è la nostra forma a renderci simili, ma un contatto, anche fuggevole nel sentire, un sapere nascosto che il male è male per ogni creatura, e chi lo compie ne resta responsabile, anche se impunito presso i tribunali umani. Tribunali che non assicurano nessuna giustizia – tutt’al più un contenimento dei torti.
Giustizia retributiva è invece la parola che sottende al bel romanzo di Mauro Garofalo, L’ultima foresta, dove seguiamo una famiglia di migranti climatici, costretta a lasciare la loro casa dopo aver perso tutto in seguito a un uragano. Il gruppo, padre, madre, due fratelli e la sorellina, si addentra nella foresta primordiale (un luogo immaginato a est) in cerca di salvezza, passando da un campo profughi all’altro e sfuggendo al più pericoloso dei nemici: l’uomo stesso, vestito da guardia di confine. Accanto a loro si svolge l’avventura di un’orsa a cui proprio quell’uomo ha tolto i cuccioli. Le due strade si incontreranno nell’epilogo, con un definitivo riconoscimento fra la bambina, la figlia minore, e la grande orsa che giunge a interrompere il ciclo della violenza dell’umano armato sull’umano disarmato.
“Pandora gli lascia impressa negli occhi la speranza – adesso – un’enorme figura che esce dal bosco. È una massa nera quella che si avventa contro”.
Grazie all’orsa Garofalo ci ricorda che un’altra lingua, dove la nostra fallisce, curerà le vittime di ogni orrore, le ritrasformerà in viscere del bosco, vento, rinascita. A volte è la lingua ruvida di un’orsa devastatrice, con le sue limpide ragioni di tempo, spazio, protezione, difesa, rabbia. Orsa e bambina, in un accordo senza parole.
Orso, anzi, fantasma di un orso, e bambina, imparano a fidarsi l’uno dell’altra nel romanzo La voce delle ombre di Frances Hardinge, libro che rientra nella categoria di opera per ragazzi, ma in puro stile britannico – senza troppa pedagogia, mantenendo tutta la crudeltà da cui nessuna infanzia è esente.
Siamo nell’Inghilterra moderna, durante lo scoppio della guerra civile. Makepeace, la protagonista, è una ragazzina con una dote insolita: può accogliere in sé gli spiriti dei defunti (di solito per morte violenta) che vagano smarriti, sorpresi dal loro destino. Questi prendono dimora nella sua mente e le parlano. Ma cosa accade se a parlare, o a cercare di farlo, è una creatura straziata dall’umano, che ruglia e grida per esprimere un terrore senza rimedio? Orso è stato cresciuto e torturato in cattività, utilizzato in spettacoli circensi e ucciso quando ormai inservibile.
“L’Orso non aveva mai goduto di libertà e pace da vivo. Lei era l’unica su cui potesse contare. E lui era tutto ciò che aveva lei. (…).
Musica di chitarra e tamburelli che pulsava nelle ossa, carboni ardenti gettati sotto le zampe tenere di cucciolo per costringerlo a ballare. Barcollava, e provava a ricadere sulle quattro zampe e in risposta riceveva una botta violenta sul muso.
Erano i ricordi lontani dell’Orso quando veniva ammaestrato, da piccolo. Sentì un’ondata di rabbia invaderla, e si strinse nelle braccia perché era il solo modo che aveva per abbracciarlo”.
Orso e Makepeace formano un’alleanza emotiva più forte di ogni altra complicità della bambina con i fantasmi umani. Perché? Forse perché al fondo il dolore resta una bestia muta, qualcosa che si esprime in un linguaggio familiare eppure estraneo, che ci rende tutti inermi, uguali. È un anelito alla libertà dalle prigionie visibili e invisibili di un’esistenza, quello che accomuna l’orso e la ragazzina. La fiaba di Hardinge evoca le vicende problematiche degli orsi davvero allevati e torturati dagli umani nei paesi dell’Europa orientale, dove i plantigradi abbondano nelle foreste. Libearty, il più grande santuario al mondo dedicato agli orsi liberati dalla cattività, sorge, non a caso, nel cuore dei Carpazi, vicino al villaggio rumeno di Zărnești. Orsi tenuti in gabbia vicino ai ristoranti, orse costrette a vivere dentro un ripostiglio così da tenere meglio la posizione eretta durante gli spettacoli, cuccioli accecati, per rimuovere loro gli artigli e renderli docili alle carezze dei turisti – sono solo alcuni degli esempi di vite ursine ospitate al santuario. Ma come può adattarsi un qualsiasi essere radicalmente privato della sua natura alla libertà?
Questa domanda anima Orsi danzanti, straordinario reportage narrativo di Witold Szabłowski, che si concentra sul costo e le conseguenze di una libertà a cui non siamo preparati. Gli orsi, tradizionalmente addestrati a ballare dai rom della Bulgaria, e liberati dopo la caduta del Comunismo, popolano la prima parte del libro, mentre la seconda traccia una formidabile allegoria con varie personaggi umani nel post-comunismo, ancora a disagio nella gestione della tanto sperata libertà.
Soffermandoci sugli orsi, la liberazione da gabbie e catene non significa affrancamento dalle abitudini acquisite in anni di convivenza con i padroni; parimenti per molti degli antichi proprietari la sottrazione degli orsi è un’ingiustizia, il rapimento di pezzi insostituibili della loro famiglia – e delle loro economie.
Come ci possiamo riconoscere indipendenti e autonomi se siamo stati privati perfino della nostalgia, del desiderio per uno stato primordiale? Ci si abitua a tutto: noi, gli orsi. Anche la libertà parziale degli animali sarà solo una compensazione, un risarcimento che esigiamo da noi stessi, senza poter consegnare all’altro tutto il valore della frase: “Sei libero, ora”.
Libero di riprendere una vita che non hai conosciuto, libero di vagare in un recinto più grande, ma, almeno, lontano dall’occhio famelico del turista, dalla sua ansia colpevole di toglierti dignità, toccarti. Schiacciare il tuo grosso corpo.
Orsi, umani, riconoscimenti pericolosi, spiriti indomabili, sottomissioni. La mia memoria corre indietro a un singolare romanzo degli anni Settanta, letto qualche anno fa nella sua traduzione italiana, Orso di Marian Engel, che interpreta alla lettera la tradizione fiabesca sui matrimoni fra bestia e umano, fra orsi e ragazze, raccontando l’incontro erotico fra una donna e un orso. Lou viene inviata in un’isola canadese per inventariare i libri e i manoscritti che un colonnello ha lasciato all’istituto storico per il quale lei lavora. Qui si trova a condividere lo spazio con un orso ammaestrato, completamente docile.
“ ‘Orso’ gli sussurrò. ‘Chi e cosa sei?’
L’orso non rispose ma si girò verso di lei con l’aria sfinita, spossata, poi chiuse gli occhi. Lei rimase a lungo seduta, a fumare, bere il caffè e fissarlo. Una volta aveva portato i suoi nipoti a vedere un brutto film sugli orsi. Fine della storia.
Una creatura priva di fascino quest’orso, pensò. Per nulla minaccioso. Non una bestia selvaggia, ma una signora di mezza età talmente depressa da sembrare scema, una donna che ha passato nottate intere ad aspettare il ritorno del marito, fin quando il tempo stesso aveva cessato di esistere e non restava altro che l’attesa.
Posso affrontarlo, si disse, e rientrò”.
Il rapporto fra i due non diventa mai davvero sentimentale, ma si svolge tutto su un piano fisico, sessuale, come scandendo un abbraccio fra il selvatico là fuori e quello risvegliato dentro l’umana. Il grande pregio del romanzo risiede proprio nel gioco corporeo fra le due creature: grazie all’orso Lou riprende contatto con sé stessa, cominciando dai fondamentali, ovvero le sensazioni, la carne. Troppo spesso riconduciamo l’anima o l’essenza a qualcosa di intimo e intangibile come il pensiero, dimenticandoci che prima di tutto esperiamo il mondo coi sensi – lo osserviamo, tocchiamo, ci feriamo su cocci e spine, lo assaggiamo, odoriamo, ne conosciamo il fiorire e il deperire direttamente sulla pelle. Allora interagire con l’animale è una restituzione al nostro corpo mai separato dagli altri. Come ben nota Lisa Bentini in un suo pezzo uscito per il manifesto, sono soprattutto autrici donne a confrontarsi con l’aspetto concreto dell’incontro.
Spiccano, in questo senso, due libri piuttosto recenti: Credere allo spirito selvaggio dell’antropologa Nastassja Martin, e il romanzo La pelle dell’orso di Joy Sorman. Del primo ho già scritto qui: è il resoconto narrativo dello scontro fra l’antropologa e un orso, durante uno dei suoi soggiorni lavorativi in Kamchatka, dal quale la donna ne esce salva, sebbene con il viso sfregiato dal morso o “bacio” dell’animale. Il percorso di guarigione procede di pari passo con le domande sulla sua natura, su cosa sia la violenza della bestia paragonata a quella della degenza ospedaliera, su come sopravvivere quando il selvaggio non è più soltanto una fascinazione ma è letteralmente entrato, coi denti, nel tuo corpo. Credo sia un testo imprescindibile per chiunque consideri centrale nel rapporto con l’animalità la resa all’inconoscibile nell’altro e in noi stessi, all’apprendimento di un diverso stato dell’esistere – non pienamente umano (cosa è umano?) non pienamente animale (cosa è animale?), sempre sulla soglia di un linguaggio nuovo, scintillante nella coscienza.
Nel romanzo di Sorman la fusione è completa. Il protagonista è infatti il figlio di una donna e dell’orso che l’ha rapita. Rifiutato come essere umano, trascorrerà il resto della vita come orso nei circhi, nei combattimenti e infine in uno zoo dove conoscerà l’amore di una donna, che vede oltre l’orso e oltre l’uomo. Vede l’essere in perenne ricerca di riscatto oltre l’illusione delle identità e dei miti, con cui si cerca di ammansire o comprendere l’animale.
Non vede, tuttavia, come lui, l’ibrido, che conosce i sogni e i terrori dell’uomo, condivide i sensi, gli allarmi, le speranze dell’orso. Nello zoo notturno il protagonista partecipa delle parole segrete di tutte le bestie, poiché i loro corpi “sono delle sonde immerse in un mondo opaco”. Se l’uomo, vedesse, sapesse, intuisse, dice il protagonista, “tutto ciò che noi intuiamo – delle minuscole presenze –, se tastasse ciò che noi tastiamo – il tempo che virerà presto in temporale –, se fiutasse ciò che noi fiutiamo – l’odore della morte che si annuncia –, se venisse attraversato di continuo da sequenze sonore e da nubi di odori che deformano e contaminano il mondo come fantasmi, l’uomo sarebbe messo a dura prova, gettato in pasto su un palcoscenico aperto a tutti i venti”. Sarebbe, prosegue, assalito dal panico, dalla follia.
È un’accusa precisa quella contenuta in queste frasi: denuncia la vera follia di un uomo che si è allontanato dagli altri viventi, ha costruito la sua roccaforte spargendo nel mondo morte e contaminazione; si è sentito al sicuro dentro una struttura stabile solo dall’interno, che porta il vessillo di distruzione per chi resta fuori. Là fuori dove tutti ci muoviamo, nel fuori a cui tutti facciamo ritorno. Se l’uomo vedesse non sarebbe in grado di sostenere lo spettacolo e l’improvvisa lucidità sarebbe tradotta in pazzia nella lingua di inganni di cui si è avvolto. Oppure, attraverso le storie, lo sguardo, la voce in rivolta di tutto il resto, attraverso quella terra di frontiera dove una mano diventa una zampa, e un piede sprofonda in radici, scoprirebbe, forse troppo tardi, la fratellanza.
Wanted!: Quando la natura reagisce alla prepotenza dell’uomo e infrange le sue leggi
Naturalmente non si può davvero parlare di animali che infrangono le leggi umane: gli animali fanno semplicemente quello che devono fare ed è la nostra stessa incursione nel loro spazio a creare il conflitto... Affascinante e sarcastico, questo libro offre speranza per una coesistenza compassionevole tra le specie, in un habitat umano in continua espansione.
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“Da qualche parte oltre le montagne c’è un campo. Il padre ne ha sentito parlare alla locanda, settimane prima. Prendete le vostre cose, gli indica infine. È tutto ciò che resta della loro vita fin qui: maglioni e coperte.” Per anni abbiamo atteso la post-apocalisse finché un giorno, semplicemente, i ghiacciai hanno cominciato a fondere, i mari si sono alzati in Indonesia, tifoni sulle coste della Florida, mentre in Italia la siccità colpisce cinematograficamente Roma, fiumi di fango sull’Appennino, qual è il futuro di Venezia, domani.
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In una notte cupa e fredda, Makepeace viene costretta a dormire nella gelida cappella di un cimitero: lì nessuno potrà sentirla gridare terrorizzata nel sonno. Perché lei è molto diversa dalle ragazze che, nell'Inghilterra della metà del Seicento, vivono nel suo villaggio. Makepeace ha un dono, che è anche una maledizione: può accogliere gli spiriti dei morti che vagano alla ricerca di un nuovo corpo. E una sera, per la prima volta, è il fantasma di un orso a trovare rifugio dentro di lei.
Francesca Matteoni è autrice di libri di poesia, saggi e opere narrative, fra cui Ciò che il mondo separa (Marcos y Marcos, 2021) e Io sarò il rovo. Fiabe di un mondo silenzioso (effequ, 2021). Progetta tarocchi e oracoli per il mercato internazionale. Collabora con diverse riviste scrivendo di magia, letteratura, ecologia e folklore. Il suo ultimo romanzo si intitola Tundra e Peive (Nottetempo, 2022).