Primavera ambientale. L'ultima rivoluzione
Per gentile concessione dell'editore pubblichiamo un estratto da Primavera ambientale. L'ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra (Il Margine) di Ferdinando Cotugno.
La storia dell’ecologia inizia di nuovo ogni volta che ti viene posta la domanda: «Sì, ma tu, cosa vuoi?». Gli Inuit della Groenlandia hanno imparato a navigare lungo le coste tenendo strette tra le dita piccole mappe tattili, costruite modellando il legno trasportato dalla corrente. È una cartografia adatta al buio; le mappe si tengono dentro i guanti e si consultano come un portafortuna che contiene la misura della paura e la promessa di salvarsi. I contorni geografici di queste rappresentazioni del pericolo sono a volte esasperati: percepire il promontorio più vicino di come è nella realtà è un voto di prudenza. Il punto è il bisogno di arrivare in porto. Queste mappe durano a lungo, galleggiano, resistono all’acqua, non diventano illeggibili se si bagnano. Tecnologia ancestrale, adatta a mari difficili. Ogni ambientalista che ho conosciuto in questi anni aveva la sua mappa tattile stretta dentro i guanti, con la forma del pericolo, la tempesta intorno, il buio, il bisogno di non andare a sbattere. «Sì, ma tu, cosa vuoi?». Questo.
Non c’è mai stato un momento adatto quanto questo per prendere in mano una mappa tattile del futuro e diventare attivisti per il clima. Ora, proprio in questo istante. È un movimento senza confini, tessere, affiliazioni ideologiche e non ha elevati standard di perfezione morale, anzi, si entra in virtù della propria imperfezione morale. Ogni essere umano è responsabile dell’emergenza climatica, quindi ogni essere umano può essere parte delle soluzioni. È un movimento di liberazione, dei corpi e delle aspirazioni. È una fase difficile della storia umana, perché nel collasso ecologico non c’è cosa che non possiamo perdere, ma promettente, piena di promesse nuove, perché non c’è cosa che non possa essere protetta e ricostruita. È una curva della storia con un potenziale che oggi ancora non vediamo. Questa è una rigenerazione collettiva, un momento creativo, di paura e di potere. Il clima è il meteo su un arco di tempo lungo: secondo l’Organizzazione Meteorologica Mondiale si misura in almeno trent’anni. Vuol dire che molti degli attivisti di oggi finora hanno avuto una vita più breve della misura base del clima e dei suoi cambiamenti. È una cosa a modo suo commovente, a pensarci. Il clima però è di tutti: dei giovani e dei vecchi, degli europei e degli africani, degli animali, delle piante e degli umani. Salvarsi da questa strettoia della storia e da questa tempesta è un modo per ricucire e addomesticare il futuro, è un atto di speranza e amore. È l’idea che si possa vivere meglio di così.
I titoli che accompagnano i rapporti sui cambiamenti climatici sono un genere letterario che meriterebbe l’attenzione di un semiologo: codice rosso, atlante della disperazione, ultima chiamata per l’umanità. Per la scienza del clima — una disciplina in apparenza adatta agli introversi — gli ultimi trent’anni sono stati una chiamata alle armi: le immagini dei ricercatori arrestati e ammanettati durante la Scientist Rebellion del 2022 danno i brividi quanto quelle che mostrano la lenta scomparsa di un ghiacciaio, o il suo crollo improvviso, come la Marmolada nell’estate del 2022. La prima moneta di ingresso in questo processo di rigenerazione è la paura; diventare attivisti è un risveglio per rivelazione, come nell’etimologia della parola apocalisse, ma il mercato in cui spenderla è il più difficile di tutti: quello dell’attenzione. È un contesto complicato per provare a salvare la nostra specie: affrontare l’ansia della fine e farsi ascoltare sopra il rumore è la difficoltà primaria dell’ecologia. Occuparsi di clima parte da qui: dalla pulizia interiore, dal decluttering delle priorità, dal ricordarsi che siamo innanzitutto umani, creature biologiche in connessione vitale con un ecosistema complesso.
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Nel suo libro Siamo ancora in tempo!, l’antropologo africano Jason Hickel decostruisce la presunta naturalezza e inevitabilità del nostro attuale sistema economico. «Per 300.000 anni, noi esseri umani abbiamo avuto una relazione intima con il resto del mondo vivente. Le persone nelle prime società conoscevano i nomi, le proprietà e le personalità di centinaia, se non di migliaia di piante, insetti, animali, fiumi, montagne e suoli, proprio come oggi conosciamo i fatti più reconditi di attori, celebrità, politici e prodotti». È affascinante questa storia di come abbiamo disimparato ogni cosa, di come oggi conoscere il nome di venti alberi possa essere considerato un successo. Ed è parte del problema. La frattura è il prodotto del dualismo e quel dualismo ha a sua volta una storia secolare, che risale a Francis Bacon e René Descartes. La sottomissione della natura-macchinario agli scopi del sistema è stata il prezzo da pagare per l’ossessione della crescita infinita, esponenziale, per la quale oggi ci stiamo vedendo presentare il conto di tutta la rivoluzione industriale. È per questo motivo che la parola Antropocene è così contestata: non è la presenza umana sulla Terra la causa del collasso, ma di uno specifico modo di vivere, consumare e produrre. L’uso senza limiti di risorse naturali e corpi umani, del nostro tempo, della nostra libertà individuale e collettiva, degli spazi coloniali, dei suoli e degli animali, ha creato le condizioni per il disastro. Sembrava più difficile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo; oggi però i due epiloghi arrivano insieme, sono due pezzi della stessa storia. «Quella crescita, nel sistema capitalistico, aveva un bisogno continuo di nuove frontiere dove estrarre valore che non avremmo compensato», scrive Hickel. Abbiamo colonizzato in estensione e in profondità, e il mito della crescita verde rischia solo di spostare la vecchia malattia su un nuovo terreno, prolungare le dipendenze, allargare la frattura. La COP26 è stata un momento rivelatorio in questo scenario: ha rappresentato l’estremo tentativo del capitalismo di risolvere i danni che ha creato con gli stessi strumenti e le stesse logiche che ci hanno portato fin qui, sull’orlo del baratro. Da Glasgow, l’azione per il clima è stata raccontata come una faccenda finanziaria, i miliardi che generano triliardi, l’ultima manifestazione del realismo capitalista. Come scriveva il giornalista e attivista britannico George Monbiot il 30 ottobre 2021, a due giorni dall’inizio di quel vertice: «La crescita economica è universalmente salutata come una cosa buona. I governi misurano il proprio successo sull’abilità di garantirla. Ma pensiamo per un momento a cosa significa. Poniamo di raggiungere un modesto risultato, promosso da organismi come il Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale, il 3% di crescita globale all’anno. Vuol dire che l’attività economica che osservate oggi — e la maggior parte dei danni ambientali che causa — raddoppia in ventiquattro anni, entro il 2045. Poi di nuovo nel 2069. E poi di nuovo nel 2093. Tutte le crisi che proviamo a evitare oggi diventano il doppio più difficili da affrontare con l’attività economica che raddoppia, e ancora raddoppia, e ancora raddoppia».

Primavera ambientale: L'ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra
L’autore invita i lettori a prendere in mano una mappa tattile del futuro e diventare attivisti per il clima, riflette sull’attuale critica al sistema capitalistico, passata ora per l’idea di giustizia climatica, e chiede di smettere di essere colonizzatori del nostro pianeta per tornare a esserne abitanti.«Il primo gesto di attivismo climatico, il più doloroso e radicale, prima ancora di prendere la parola in pubblico, scendere in piazza e cercare alleanze, è cambiare noi stessi».
Visualizza eBookFerdinando Cotugno si occupa di clima, ambiente, ecologia, foreste. Per Domani cura la newsletter Areale, ha un podcast sui boschi italiani, Ecotoni, sullo stesso argomento ha pubblicato il libro Italian Wood (Mondadori, 2020). È autore di Primavera ambientale. L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra (Il Margine, 2022).