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Quando scrivevamo lettere d'amore

Di Rosa Carnevale • febbraio 14, 2025

“In un certo senso stavano dirottando, su quelle lettere, il loro desiderio di essere amanti. Lo deviavano dalla sfera sessuale a quella del linguaggio. Non se ne rendevano ancora conto ma con l’invio di quelle lettere continuavano a fare, quotidianamente, l’amore”.

(Pier Vittorio Tondelli)

È l’inverno del 2025, continuo a leggere libri sulla fine dell’amore, ascolto ormai distrattamente i racconti dei miei amici stanchi delle app di dating, prendo in rassegna dati e ricerche che raccontano come le nuove generazioni non credano più nelle relazioni e facciano sempre meno sesso. La tendenza boysober dilaga e sempre più articoli parlano delle grandi città come metropoli abitate da schiere di single in costante crescita. Mi interrogo su cosa si celi dietro a questa parola così antica, amore. Mi sento alla “fine della storia” o delle storie (d’amore), ma se prima a teorizzare il post-uomo erano Francis Fukuyama o Alexandre Kojève, oggi i miei riferimenti sono Eva Illouz o Tamara Tenenbaum. Da sempre (ma mai come oggi) sembra non esserci niente di più “incauto” e presuntuoso che parlare d’amore.

Nessuno sul tema ha una verità che possa considerarsi esaustiva e non ci sono parole proporzionate a descrivere cosa possa essere questo sentimento che ci riguarda almeno da quando veniamo al mondo. Già Roland Barthes, in quel prezioso saggio intitolato Frammenti di un discorso amoroso, ci aveva messi in guardia descrivendo il discorso d'amore come un discorso “di estrema solitudine”, parlato da migliaia di soggetti ma incapace di essere sostenuto da nessuno.

Oggi, anche quelle poche e salde convinzioni (forse sbagliate) che avevamo in merito, sembrano essere naufragate.

Lo scenario ha qualcosa di distopico, almeno quanto basta. Ma, ad aggravare la situazione, c’è un avviso che ho cominciato a notare sulle cassette della posta. Quelle rosse, che punteggiano le strade delle nostre città, quelle a cui per anni abbiamo affidato le nostre lettere e le nostre cartoline, i nostri sentimenti più segreti, le verità e le confessioni più indicibili. Soprattutto quelle legate all’amore. Le cassette delle lettere non esisteranno più. Alcune sono già state sigillate, su altre, un cartello avvisa dell’imminente dismissione. È la fine di un’era, quella analogica, ma è la fine, ancora, dell’amore che se ne andava in giro su fogli bianchi, spostandosi non sempre rapidamente da una parte all’altra della città o del paese o, a volte, del mondo.

Nel corso della storia, alle lettere d’amore è stata affidata molta parte del nostro discorso amoroso. Un discorso privato, fatto di parole che si inseguivano veloci sulla carta, raggiungendo gli innamorati lontani e vicini, svelando le angosce e la natura fortemente letteraria e romantica di certi rapporti. Sì, forse stiamo parlando di un’altra epoca, un’epoca che molti non hanno conosciuto e forse non ricordano. Ma, per chi ama la letteratura, è un’epoca che rimarrà per sempre viva nei carteggi che ci hanno lasciato alcuni dei più grandi protagonisti della storia. Tra quelle lettere ecco che il senso della parola amore è ancora vivo, infuoca la carta e aiuta a ravvivare gli animi anche di quelli (come noi) che forse non riceveranno mai missive così intense.

Ne abbiamo raccolte alcune tra le più celebri. Da leggere senza mai dimenticare le parole di Fernando Pessoa: “Tutte le lettere d’amore sono ridicole. Non sarebbero lettere d’amore se non fossero ridicole. Anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore, come le altre, ridicole. Ma, dopotutto solo coloro che non hanno mai scritto lettere d’amore sono ridicoli”.

Lettere a Milena di Franz Kafka

Merano, 10 giugno 1920

Credo, Milena, che noi due abbiamo in comune una particolarità: siamo entrambi così intimoriti e apprensivi, quasi ogni lettera è diversa dall’altra, quasi ognuna ha paura di quella che l’ha preceduta e più che mai della risposta. Lei non è così per natura, lo si capisce bene, e forse neanche io lo sono per natura, si tratta piuttosto di una caratteristica che è diventata connaturata e che svanisce solo quando sopraggiunge la disperazione, tutt’al più l’ira e, non dimentichiamolo: l’angoscia.

Merano, 12 giugno 1920

Questo incrociarsi di lettere deve finire, Milena, ci fanno perdere la testa, non si sa più cosa si è scritto, a che cosa si riceve risposta e, comunque sia, si è sempre con i nervi a fior di pelle. Capisco benissimo il tuo ceco, sento bene anche la risata, ma mi rigiro nelle tue lettere tra la parola e la risata, e alla fine sento solo la parola e a parte questo la mia natura è pur sempre: angoscia.

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Per alcuni scrittori, lo stile narrativo e quello epistolare si compenetrano in un unicum quasi perfettamente sovrapposto. È il caso per esempio di Franz Kafka, che nelle sue Lettere a Milena, ci racconta già tutto della sua poetica e dei temi che ricorreranno nella sua opera. Siamo d’accordo con Antonio Moresco che nella sua prefazione al volume edito da Feltrinelli lo ha definito “il più bell’epistolario del Novecento, il più doloroso, il più leggero, il più insondabile, il più straziante, il più vittorioso”. Nel 1920 Franz Kafka conosce Milena Jesenská a Praga, in compagnia di alcuni amici. Lei diventa la sua traduttrice dal tedesco al ceco. Negli anni seguenti Kafka le indirizzerà circa 130 lettere, fino alla sua morte. Quelle di Milena andranno invece perdute. “Amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso”, le scrive Kafka in una delle sue lettere, delineando quanto questa corrispondenza riuscisse a toccare nel profondo le corde dello scrittore, a cui piaceva da sempre l’idea di sentirsi solo e incompreso al mondo ma che trovava infine inspiegabilmente in Milena qualcuno che sapesse “tradurre” e interpretare così bene i moti del suo spirito. Angoscia sarà la parola d’ordine che farà da fil rouge a una corrispondenza serrata, fatta di grandi picchi emotivi, di innamoramenti e allontanamenti. Quello di Milena e Franz Kafka rimarrà l’amore irrealizzabile per eccellenza. Lei, sposata da anni con lo scrittore Ernst Pollak, non deciderà mai di separarsi, nonostante vivesse con il marito una promiscuità sessuale che la rendeva profondamente infelice e che cercava di acquietare facendo uso regolare di sostanze. Kafka, dal canto suo, era fidanzato con Felice Bauer. Ma nel corso del carteggio la vicinanza tra i due si fa sempre più intima. Basta fare caso ai saluti di chiusura di Kafka che dai primi timidi e formali “Molto cordialmente. Kafka” passano ben presto al più colloquiale “Suo Franz K.”, per poi arrivare a firmarsi solo “Tuo (ecco, va a finire che perdo anche il nome, si è accorciato a vista d’occhio e ora suona così: Tuo)”.

Saremo leggeri: Corrispondenza (1944-1959) di Albert Camus, Maria Casarès

Maria Casarès ad Albert Camus, 4 giugno 1950

Ci siamo incontrati, ci siamo riconosciuti, ci siamo abbandonati l’uno all’altra, siamo riusciti ad amarci di un amore ardente di cristallo puro, ti rendi conto della nostra felicità e di ciò che ci è stato dato?

Albert Camus a Maria Casarès, 23 febbraio 1950

Siamo entrambi lucidi, consapevoli, in grado di capire ogni cosa e quindi ogni cosa superare, abbastanza forti da vivere senza illusioni, e legati l’uno all’altra dai vincoli della terra, dell’intelligenza, del cuore e della carne, tanto che nulla, lo so, nulla può sorprenderci né separarci.

Albert Camus a Maria Casarès, 6 luglio 1944

A presto, Maria – meravigliosa – viva, credo che potrei inanellare una sfilza di aggettivi come questi. Ti penso in continuazione e ti amo con tutto il cuore. Vieni presto, non lasciarmi troppo a lungo solo con le mie idee. Ho bisogno della tua presenza viva e di quel corpo che tanto spesso mi commuove. Vedi, ti tendo le mani; vieni da me, più in fretta che puoi.

Maria Casarès ad Albert Camus, 13 agosto 1948

Ah! Amore mio! Vorrei essere vergine di corpo e di anima per te! Vorrei conoscere una lingua mai usata prima per parlarti!

Vorrei poterti esprimere a parole il senso nuovo che mi hai fatto scoprire in loro! Vorrei soprattutto poter mettere tutta l’anima nei miei occhi e guardarti all’infinito, fino alla morte!

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Albert Camus e Maria Casarès si incontrano nel 1944 a casa di Michel e Zette Leiris, in occasione di una rappresentazione del Desiderio preso per la coda di Pablo Picasso. Lei, attrice galiziana, ha ventun anni e ha iniziato la sua carriera nel 1942 al Théâtre des Mathurins. Albert Camus che all’epoca ha già pubblicato Lo straniero e Il mito di Sisifo, di anni ne ha trenta e vive da solo a Parigi, lontano dalla moglie Francine Faure, rimasta in Algeria. Quel primo incontro è il preludio di una storia d’amore travolgente: dal 1944 al 1959 i due si amano, si lasciano, si ritrovano, e nel frattempo si scrivono senza sosta centinaia di lettere, anche più volte al giorno. Tutto diventa argomento di discussione: la professione di attrice di lei, il teatro, la scrittura, le giornate frenetiche fatte di appuntamenti, i pettegolezzi sui protagonisti della scena culturale dell’epoca. Due cuori e quattro mani danno vita a un’opera che sembra battere all’unisono.

Troviamo le parole: Lettere 1948-1973 di Ingeborg Bachmann, Paul Celan

Ingeborg Bachmann a Paul Celan, Vienna, 24 Giugno 1949

Ci sono giorni in cui vorrei soltanto andare via e venire a Parigi, sentire come tu afferri le mie mani e mi tocchi con i fiori e di nuovo non sapere da dove vieni e dove vai. Per me tu vieni dall’India o da un paese ancora più remoto, scuro, bruno, per me tu sei il deserto e il mare e tutto quanto è mistero. Ancora non so nulla di te e per questo ho paura per te, non riesco a immaginare che tu debba fare le stesse cose che facciamo qui noi altri, dovrei avere un castello per noi e portarti da me, perché lì dentro tu possa essere il mio incantato Signore, tappeti molti avremo e musica e inventeremo l’amore.

Ingeborg Bachmann a Paul Celan, Vienna, 27 Giugno 1951

Perché non senti che ho voglia di venire da te, con il mio cuore matto, confuso, sconclusionato, che ogni tanto continua a lavorare contro di te? Lentamente comincio a capire perché con tanta tenacia mi sono difesa contro di te e, forse, non smetterò mai di farlo. Ti amo e mi rifiuto di amarti, questo è troppo ed è troppo difficile, ma prima di tutto ti amo.

Paul Celan a Ingeborg Bachmann, ottobre 1957

Quando ti ho incontrato, eri per me l’una e l’altra cosa: il Senso e lo Spirito. Essi non si separano mai, Ingeborg… Sei e resti la giustificazione del mio Dire… Ma solo questo, il Parlare, non è assolutamente nulla, io volevo anche essere muto con te

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Nella Vienna del dopoguerra si incontrano due fra le piú grandi figure letterarie del ’900, Paul Celan e Ingeborg Bachmann. Lei diciottenne con un padre fervente nazista, lui ebreo fuggito dalla Romania e scampato ai campi di concentramento, di anni ne ha 27. Il loro amore dura poco più di sei settimana ma i due continueranno a scriversi e a ispirarsi a vicenda, anche da lontano. Per più di 19 anni, fino al suicidio di Celan, annegato nella Senna nel ’70, le loro vite sono legate da un doppio filo sentimentale e poetico. Le lettere di questa raccolta testimoniano la lunga storia di amori e dissapori (raccontata magistralmente in Ci diciamo l’oscuro di Helmut Böttiger), di condivisione e di silenzio, che li ha legati per anni, costantemente alla ricerca delle parole che li facessero incontrare.

Rosa Carnevale, giornalista. Si occupa di arte, fotografia e libri. Ha collaborato, tra gli altri, con Artribune, L’Officiel, Rolling Stone Magazine, Lampoon, Marie Claire e Grazia. Per la casa editrice Contrasto è redattrice e consulente di progetti editoriali.



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