Ringrazio la poesia. Conversazione con Valerio Magrelli
“Poesia e prosa, per me, sono delle forme dislocate di autobiografia”, dice Valerio Magrelli, poeta, scrittore, che ha appena pubblicato Exfanzia, la sua nuova raccolta di poesie, per Einaudi. Come nei suoi libri precedenti, parte tutto dalla memoria, dal corpo, che si fa archivio, traccia, album di famiglia, indizio per cercare di capire il tempo che passa. Non esistono il sacro e il profano, nelle poesie di Magrelli, perché tutto è sacro, soprattutto il quotidiano che ritorna, la magia delle piccole cose.
Com’è nato questo libro? C’è un criterio con cui vengono scelte, assemblate, raccolte le poesie?
È una cosa su cui ragiono sempre. Il primo libro, lo pubblicai a ventitré anni, quando non avevo nessuna esperienza, ma questo, paradossalmente, mi fece accentuare il controllo sui materiali. Lì feci un lavoro complicatissimo, divisi le poesie in due metà, ognuna di quarantacinque testi, in modo tale che insieme facessero il novanta, perché io giocavo a tombola. Ma anche in altri testi, apparentemente più disgregati, arrivo a fare questo tipo di calcoli, non di numerologia simbolica, ma di distribuzione dei materiali. Mio padre era ingegnere, lei deve immaginare un po’ uno strutturista che deve mettere su un palazzo. Nel caso di Exfanzia, c’è la parte più grande, più importante, intitolata Sotto la protezione di Pollicino, che è la persona più inerme che si possa immaginare, è difficile che possa proteggere qualcuno, anche perché non riesce a proteggere neanche se stesso. Poi avevo altri quattro organismi, e ho deciso di aggiungere quattro sezioni, visto che erano chiuse in se stesse, erano isolate, autonome. L’importante è capire questo gioco, scegliere un macrotesto oppure una serie di forme che reagiscono all’assimilazione. In linea di massima, ho dei tempi abbastanza lunghi, ogni sette otto anni, in maniera molto semplice, raccolgo le poesie che mi piacciono, e che ho pubblicato fino a quel momento. È molto importante anche l’ordine, la disposizione dei testi, è una delle parti più difficili ma più appassionanti nella costruzione di un libro.
Il titolo Exfanzia mi ha fatto pensare ad Alberto Savinio, che spesso giocava con il termine infanzia, mettendoci la “s”, chiamandola infansia. Il titolo nasconde l’idea di poter guardare, adesso, alla sua infanzia con lucidità, al fatto che sente di essere uscito da quella dimensione?
In un certo senso sì, è come se fosse arrivato il momento, per me, di fare i conti. È una falsa etimologia, però mi diverte molto questa immediata impressione di espulsione, come se ormai quella fase sia diventata talmente remota da essere simile a una lingua straniera. Mi viene in mente l’espressione “espulso dall’abitacolo”, la vecchiaia, l’incipiente vecchiaia è un po’ questo, allontanarsi, è una specie di deriva. La mia exfanzia è tale nel momento in cui, attraverso le fotografie, mi trovo davanti l’infanzia dei miei figli.
E visto che è il momento di fare i conti, pensando all’infanzia, all’adolescenza, all’età adulta, provando a immaginarne i confini, qual è stato il momento migliore, per lei?
Credo che in ogni fase ci sia un momento di lotta. Mi viene sempre in mente il film di Benigni, La vita è bella. Io dico che la vita è bella in alcune radure, in alcune zone che si aprono ogni tanto, nell’insieme tutto dipende dal carattere. E purtroppo, piano piano, mi sono dovuto arrendere al mio carattere, e ringrazio la poesia, che è come una specie di ginnastica che mi permette di eliminare delle tossine, da sempre. Ho iniziato a scrivere che avevo dieci anni, l’ho scoperto da alcuni quaderni.
Scriveva poesie a dieci anni?
Sì, sì, solo poesie, non ho mai scritto un romanzo, scrivevo semmai un’autofinzione, un racconto di me, tutti i miei libri parlano di me, in prima persona. Ho iniziato a scrivere sul serio le poesie, però, quando ho passato due mesi in ospedale per un incidente che avevo fatto in moto.
In Geologia di un padre, scriveva: “L’unico documento sono io”. In tutti i suoi libri, in effetti, viene fuori questo rapporto tra memoria, archivio, corpo. Nelle poesie ci sono dei racconti, nella prosa i racconti hanno una forma poetica.
Quella della prosa è stata una bella scoperta. Mi invitò Gianni Celati, mi telefonò, mi chiese delle prose, io gli risposi che non le avevo mai fatte, e lui: “Per questo te le sto chiedendo”. Io adoro i romanzi, però non li so scrivere, allora riuscii a trovare la soluzione, inserire delle mie storie, delle vicende che mi riguardavano, dilatarle, farle diventare una traccia del racconto. La memoria in questo senso è fondamentale. Poesia e prosa, per me, sono delle forme dislocate di autobiografia.
“Non serve mica bombardare/ o sterminare famiglie/ Io sto già male così”. A volte ci si sente in colpa quando si soffre, come se ci fosse un momento in cui si può, in cui è legittimo soffrire. In questi due anni abbiamo sofferto tutti, lei come li ha vissuti?
Malissimo, anche perché proprio per via del fatto che uno passa dodici ore da solo, la sera devi uscire, se ti tolgono quell’ora d’aria sei finito. Ho cercato di rifletterci nelle due sezioni finali, una Antropocedio, perché effettivamente ci troviamo sul limite della scomparsa della specie umana, altro che bomba atomica, e due, in maniera più divertita, nelle poesie sulle serie tv. Ognuno di noi, adesso, guarda le serie, prima le guardavo insieme a mia moglie, invece adesso ognuno si guarda le sue, c’è una specie di terribile atomizzazione. Da una parte è stata una salvezza, dall’altra, però, è un procedimento spettrale, ognuno nella sua cella, c’è qualcosa di carcerario.
Leopardi diceva che nell’età adulta ci sono più ricordi che speranze. Lei cosa ne pensa? Cosa si aspetta dal futuro?
Purtroppo credo che siamo in un momento della storia di grande restaurazione, che è quello che mi fa più paura. Quasi a livello del riscaldamento globale, c’è l’allargarsi della forbice tra ricchi e poveri, questo per me è tremendo, lacerante, direi quasi che forse, in una società del genere, non varrebbe la pena vivere. Noi siamo stati il punto più alto dell’evoluzione dell’homo sapiens, che per me è rappresentato dalla sanità pubblica, che è una cosa straordinaria, tutti ci passiamo perché chiunque va in ospedale possa essere curato gratis. Purtroppo, però, la nostra realtà vede il contrario, che cosa facciamo? Smantelliamo. Vedevo le baby-gang di Milano, da chi sono formate? Dalla seconda generazione di immigrati, io sono l’ultimo a voler scusare queste gesta, però, quali alternative hanno? Se un manager, prima, guadagnava cento volte più di un operaio, adesso nel guadagna mille, non c’è nulla che possa giustificare una cosa del genere. All’orizzonte vedo due minacce, naturale, una natura maltrattata, e sociale, una società maltrattata, spogliata, che sta perdendo quello che aveva.
Exfanzia
Valerio Magrelli ha affrontato a piú riprese, in poesia e in prosa, il tema dell'infanzia, anche attraverso pagine autobiografiche. Questo è il suo libro della maturità, ma l'infanzia e l'adolescenza non scompaiono del tutto: vengono viste come in uno specchio. Immagini rovesciate da interpretare da un altro punto di vista e con altre prospettive. Infanzia e vecchiaia spesso convivono, come nella poesia in cui si dice: «Mi sento cosí impaurito e solo al mondo | che perdo gli oggetti, uno a uno. | Per farmi ritrovare da qualcuno? | O alleggerisco il carico | per non andare a fondo?»
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