Scrivere contro la paura. Conversazione con Veronica Galletta
“Costruire un argine è una cosa complessa. Bisogna calibrare bene la quantità di terra fin dall’inizio, evitare le corde molli, prevenire i dilavamenti. Perché se si forma una breccia, puoi anche riparare, ma qualcosa rimane. (…) Una traccia rimane. L’argine lo sa. La memoria rimane”.
L’argine lo sa. Dalla sua linea di confine tra terra e acqua, ha infinite storie da raccontare. Fatte di paura e sicurezza, di passato e presente.
Veronica Galletta conosce bene gli argini e così anche Caterina Formica, la protagonista del suo ultimo libro, Nina sull’argine (Minimum Fax, 2021), in finale al Premio Strega 2022. Originaria di Siracusa, la scrittrice è stata ingegnera per molti anni prima di lasciare quell’impiego per i suoi romanzi. Con il precedente, Le isole di Norman (Italo Svevo Edizioni 2020), ha vinto il Premio Campiello Opera Prima. Nel suo ultimo libro il lavoro in cantiere diventa una metafora perfetta per parlare anche di vita, di quello che accade alla protagonista di Nina sull’argine, stretta tra paure e fantasmi.
Lavorare all’aperto mette costantemente alla prova. Con la nebbia, con il freddo e con il ghiaccio il cantiere è sempre lì e impone a Caterina di misurarsi con la fatica fisica e con gli incidenti che possono sempre capitare. Sul lavoro come nella vita. Una storia di più di quindici anni con Pietro che scompare dall’oggi al domani, le incomprensioni con i colleghi uomini in ufficio, i collaudi che non vanno come sperato.
Esiste una fatica, per noi esseri umani così come per i materiali. Sottoposto a cedimento per fatica un materiale può rompersi, andare in pezzi, proprio come noi. Quando Caterina si sente stanca deve imparare a controllarsi, a scendere a compromessi, cedere qualcosa per salvaguardare il resto.
Eppure c’è solo da aspettare. Come con le ferite personali, il tempo passa su tutto.
A scorrere lungo le pagine, tra vicende personali e non, c’è l’acqua, che Caterina ama tanto, il corpo deformabile che ha scelto di studiare specializzandosi in idraulica. Un corpo imperfetto come lei, pronto a mutare. “Non sono equazioni chiuse quelle della meccanica dei fluidi, non possono. Non si possono risolvere analiticamente, ci vogliono le approssimazioni numeriche. Ci vogliono i compromessi”. L’acqua trova sempre la sua strada, impossibile sbarrarle il passo. Meglio lasciarla fluire, osservarla attentamente. Anche gli argini, per essere costruiti, hanno bisogno del loro tempo.
Nina sull'argine
Caterina è al suo primo incarico importante: ingegnere responsabile dei lavori per la costruzione dell'argine di Spina, piccolo insediamento dell'alta pianura padana. Giovane, in un ambiente di soli uomini, si confronta con difficoltà di ogni sorta: ostacoli tecnici, proteste degli ambientalisti, responsabilità per la sicurezza degli operai. Giorno dopo giorno, tutto diventa cantiere: la sua vita sentimentale, il rapporto con la Sicilia terra d'origine, il suo ruolo all'interno dell'ufficio.
Visualizza eBookNina sull’argine è il titolo del suo ultimo romanzo. L’argine è qualcosa che serve a contenere le piene di un corso d’acqua. Separa, delimita ma permette di difendersi. Anche la sua protagonista è alla ricerca di un argine per se stessa?
Credo che più che un argine Caterina cerchi una direzione, una linea non necessariamente retta, che può anche essere spezzata, o con punti in cui curva su se stessa, ma che la conduca da un punto A a un punto B. In questo senso il cuore della vicenda è la strada che la conduce da casa, che non sente più sua, al cantiere, che le diventa piano piano familiare. Lungo la strada fra questi due luoghi Caterina pensa, rimugina, elabora. Un luogo di mezzo dove la comunicazione si fa più trasparente, questo è per lei.
In un articolo online, citando la poetessa americana Alicia Ostriker, ha scritto: “Si deve scrivere di quello che ci fa paura”. Anche Nina sull’argine è nata per esorcizzare paure?
Credo proprio di sì, con quell’opinione in punta di piedi che può avere chi ha scritto il libro. Prima non lo sai fino in fondo, e io trovo che sia una fortuna. Questo non sapere permette alla scrittura di staccarsi, e diventare altro da noi. Però di certo la paura è stato l’innesco. Tutto quello di cui scrivo ha a che fare con la paura. In questo caso mi preparavo, seppure con un lungo salto, a lasciare il lavoro che avevo fatto per tanti anni, e avevo paura ad ammetterlo, prima di tutto a me stessa. Così ho cominciato a farci i conti scrivendo, riversando nella storia la rabbia, la nostalgia, la malinconia, l’impotenza. Non è un caso poi che la poesia di Alicia Ostriker di cui parlo nel pezzo che lei cita si intitoli Lo scambio, e parli del proprio doppio (e io, essendomi scambiata con lei, nuoterò/ via, nell’acqua fredda, irraggiungibile), che è uno dei perni di Nina sull’argine.
Lei, come la sua protagonista, Caterina, è stata un’ingegnera per molti anni, lavorando nei cantieri a progetti come quello che racconta nel libro. Come vive una professionista donna in un settore in cui dominano gli uomini?
Cercando di cogliere le opportunità che un punto di osservazione diverso può dare, a partire dai codici, che devono essere rifondati. È molto faticoso, ma anche molto interessante.
Quando ha deciso di passare dai numeri alle parole?
Non ho mai deciso fino in fondo, anzi, ho resistito con tutte le mie forze. Le parole per me erano sempre state quelle dei libri che leggevo, e a poco a poco si sono composte in quelli che ho cominciato a scrivere. Per molti anni però ho usato la scrittura come strada parallela, una sorta di vaso comunicante nel quale convogliavo i pensieri divergenti, le angosce. A un certo punto però non funzionava più, i numeri avevano perso quel fascino che permetteva di sopportare il resto, e così li ho lasciati andare.
La scrittura, come i numeri, rappresenta un modo per possedere il mondo, per cercare di riordinarlo o raccontarlo…
Credo che l’analogia sia di tipo metodologico, che si parta, o almeno io parto, da uno stesso tipo di organizzazione. E anche il risultato è analogo, nel senso che la scrittura, come i numeri per tanti anni, mi tranquillizza. Non so se ci sia l’intento di possedere il mondo, forse più di tutto di costruirsene uno, dentro il quale astrarsi.
“Sulla carta un progetto è fatto di linee diritte e curve che flettono con grazia, secondo equazioni rappresentabili matematicamente, con un’armonia composta e rassicurante. Un cantiere invece è polvere, e rumore. È fango”. Dalla precisione pulita del disegno alla realtà fatta di fango e imperfezioni. Anche Caterina dovrà cedere. Come si fa a venire a patti con la realtà e con il mondo?
È un esercizio continuo, fatto di infinite prove e approssimazioni. Si procede per tentativi, come nella risoluzione di alcune equazioni.
Nel libro descrive perfettamente Caterina come spaccata in due: c’è una Caterina che sa muoversi da sola e una che soffre la solitudine, una eccessivamente qualificata e una che ha sempre paura di sbagliare, una che parla e non perde occasione per dire la sua e una che prega l’altra di stare zitta e vorrebbe nascondersi. Una Caterina che scappa e una che ritorna. È possibile risolvere in qualche modo questa spaccatura?
Della fine del romanzo, della sua conclusione, non avevo chiaro in che forma sarebbe stata, con che episodio, o che scena, ma sapevo che non volevo fornire una versione pacificata, non volevo dire a chi leggeva, e prima di tutto a me stessa, che bene, il cantiere era finito, il mondo si era rimesso un po’ più in ordine, e anche Caterina aveva sanato le sue scissioni. È una donna adulta e strutturata, la scissione è il suo demone. Può solo accoglierlo, cercare di conviverci, perché le faccia meno male.
Nina sull’argine non è solo un romanzo di formazione ma è anche uno spaccato sulla letteratura che si occupa di lavoro. In particolare, racconta la solitudine e l’alienazione che ancora oggi possiamo provare sui luoghi di lavoro…
Passiamo al lavoro tantissimo tempo della nostra vita, e spesso in condizioni e secondo codici che parlano di un passato complicato da comprendere per chi è nuovo. Caterina è terrorizzata dalla macchinetta del caffè, dai riti che vi si svolgono intorno, soffre i problemi di una grande azienda, l’essere autoreferenziale, non prevedere un passaggio di consegne o continuità delle conoscenze. Ma l’alienazione si può declinare in molti modi. Basti pensare ai rider, che non vedono mai nessuno, hanno come contatto un’applicazione che dice loro di consegnare in un posto, o in un altro. Di certo, di benessere sui luoghi del lavoro se ne parla molto, in maniere anche molto codificate, ma spesso altrettanto vuote.
Che rapporto ha con i fantasmi? Ne Le isole di Norman, il suo romanzo precedente, comparivano tra le pagine delle strane apparizioni. In Nina sull’argine mette in scena addirittura un incontro più concreto con una figura fantasmatica…
La ringrazio per la definizione, perché per me di storia di fantasmi si tratta. Il mio rapporto con i fantasmi è direi naturale, perché già dopo aver scritto Le isole di Norman mi sono resa conto che molte delle presenze che ruotavano attorno alla protagonista potevano essere a tutti gli effetti dei fantasmi. La stessa cosa mi è accaduta poi per qualche testo breve, ad esempio un reportage narrativo sul cemento armato nella città di Livorno, fino a Nina sull’argine. Dell’uomo nello scavo, che Caterina incontra in un giorno di nebbia fitta, posso dire che quando mi è apparso ho capito che stava costruendosi un romanzo, ed è per me il cuore della storia.
In Nina sull’argine c’è anche molta musica. A partire da una canzone di Chico Buarque, Construção, che racconta di morte sul lavoro e che ha scelto come esergo. Ci sono poi gli Arcade Fire, Where the wild roses grow di Nick Cave. Che musica ascolta Veronica Galletta?
C’è anche altro dentro altro, Place to be di Nick Drake, sulla quale ho mutuato un capitolo, quello in cui Caterina aspetta l’uomo dello scavo per l’ultima volta. E c’è Veni l’autunnu di Franco Battiato, a cui si riferisce un altro capitolo, Santo che non suda, che è un modo di dire siciliano che Battiato mise in musica. La musica che ascolto è varia, più straniera che italiana perché in genere ascolto musica mentre lavoro, e quindi mi distrae meno. Non sono una grande conoscitrice, ma ho la fortuna di avere amici che ascoltano tanto, e mi consigliano. Ascolto, se mi piace metto nei preferiti, e poi ascolto altro dello stesso autore. Ultimamente sono rimasta colpita dal nuovo album dei Fontaines D.C.
Qualche libro in particolare ha fatto da sostrato al suo romanzo?
Sono tanti, molti dei quali omaggio in maniera diretta nella parte finale del libro, quando Caterina va in libreria e riflette sul cantiere, sulla sua storia, come Memoriale di Paolo Volponi, La speculazione edilizia di Italo Calvino, Giro di vite di Henry James. E La chiave a stella di Primo Levi, naturalmente. Ci sono poi i libri di “paesaggio” - li classificavo così mentre lavoravo al romanzo - e quindi quelli definiti narratori della pianura, Gianni Celati per tutti. Ma in questi giorni sto rileggendo Il tunnel di Abraham Yehoushua. È un libro che ho letto in fase di editing, con quindi il libro già compiuto nella sua struttura e nei personaggi. C’è un ingegnere oramai in pensione, la costruzione di un’opera di ingegneria, il suo valore metaforico, il conflitto, la perdita del sé e della memoria. Un uso dei dialoghi domestico, naturale, come piace a me. E poi gli animali. Quasi subito compare, in una parte che cita le difficoltà ambientali, una lepre, un istrice. E il romanzo si chiude con un cervo, lo stesso animale che compare a Caterina nel suo ultimo viaggio allo scavo. Ecco, in qualche modo magico, mi piace pensare che Nina sull’argine e Il tunnel si parlino.
La passione per la topografia, per le mappe, per i luoghi in generale era già presente nel suo romanzo precedente, Le isole Norman, ambientato sull’isola di Ortigia. Quali sono i luoghi che ancora porta nel cuore, oggi?
Tutti i posti che ho abitato, tutte le città in cui ho vissuto. Nel mio percorso ideale, vorrei scrivere un romanzo per ogni luogo in cui ho passato del tempo, e mi sono in qualche modo radicata. Sono tante, vedremo se riesco.
Alla fine, ha scelto di vivere in una città, Livorno, che si affaccia sul mare e che ha molte storie da raccontare che riguardano anche il lavoro. Che rapporto ha con l’acqua e con questo luogo?
Livorno è una città in cui vivo tranquilla, dopo tanto girare. Credo che la pacificazione nasca dal fatto che non ci chiediamo troppo, ci guardiamo con rispetto e con la giusta distanza. E poi c’è il mare, il più simile, fra tutti quelli che ho incontrato, al mare di Siracusa.
A tratti, leggendo il romanzo, si ha la sensazione che nella sua scrittura nulla accada realmente, tutto rimanga sospeso. Anche la struttura del libro ha un’apertura e una chiusura circolare, senza grossi capovolgimenti e colpi di scena. Questo permette però di posarsi con attenzione sul suo personaggio, di entrare in contatto con la sua psicologia. È un effetto cercato?
È un effetto di cui sono consapevole, e con il quale ho fatto i conti. Credo sia legato al fatto che io stessa come essere umano non credo molto ai grandi stravolgimenti, ma piuttosto ai piccoli aggiustamenti. È il mio passo, forse anche il mio limite, che cerco di sfruttare al meglio. In futuro chissà mi misurerò con un racconto più ritmato e di colpi di scena, anche solo per mettermi alla prova.
Si aspettava un’accoglienza così calorosa per il romanzo, che è tra i sette volumi in lizza attualmente per il Premio Strega 2022? Come sta vivendo gli impegni del Premio?
Con molta allegria, anche più di quella che mi aspettavo da me stessa. È una grande occasione per girare, per vedere posti nuovi, incontrare i lettori. E conoscere meglio i miei colleghi finalisti, altri modi di scrivere, di pensare ai libri.
Nina sull'argine
Con una lingua modellata sull'esperienza, Veronica Galletta ha scritto un apologo sulla vulnerabilità che si inserisce in un'ampia tradizione di letteratura sul lavoro, declinandola in maniera personale.