Sono quasi pronto. Conversazione con Giorgio Biferali
"Esiste un punto d'arrivo, ma nessuna via; ciò che chiamiamo via è un'esitazione"
diceva Franz Kafka.
Non siamo mai veramente pronti per i grandi sconvolgimenti a cui la vita ci mette davanti. Si diventa pronti, al massimo, strada facendo e facendo tesoro di tutte le esitazioni. Nessuno ha un manuale di istruzioni per affrontare la nascita di un figlio o un grande lutto. Ancora meno per sopravvivere al costante senso di inadeguatezza che ci tormenta, intrappolandoci nel presentimento di non essere mai all’altezza e preparati per affrontare ciò che la vita ci richiede di gestire. È inutile infatti illudersi di poter avere un controllo, di tenere il timone ben saldo e pianificare ogni dettaglio di fronte al susseguirsi di eventi imprevedibili, al flusso costante di sorprese, gioie e dolori che ci travolgono senza preavviso. La realtà è ben diversa.
Sono quasi pronto, l’ultimo libro di Giorgio Biferali, edito da Ponte alle Grazie, prova a spiegarcelo. Il protagonista è un giovane trentenne che si affaccia alla vita adulta, in attesa di diventare genitore per la prima volta insieme alla compagna Bianca. Tra corsi pre parto, case da cercare, mercati immobiliari impazziti, mobili Ikea da montare, lezioni a scuola e visite in ospedale. I personaggi di Biferali non affrontano nessun evento particolare se non quelli che capitano prima o poi a tutti quanti. Eppure, sembrano farlo come se si trattasse di un unicum in cui la soggettività ha sempre il sopravvento. Una prima volta che si fa universale, anche quando si tratta di azioni e circostanze dell’esistenza che si ripetono nei secoli, dall’alba dei tempi, come l’assistere alla malattia di un genitore anziano o il diventare padre. Eventi definitivi che cambiano per sempre il corso di una storia e di una vita. Eventi che a volte possono accavallarsi, dando vita a un turbinio di emozioni non facili da gestire e accomunate da un unico comun denominatore: l’irreversibilità. “Mi terrorizzava il senso di irreversibilità dell’essere padre – scrive Giorgio Biferali -, che non è come quando ti sposi che spesso lo fai anche solo per dimostrare che la tua è la cerimonia più bella di tutte, ma che poi anche dopo l’anello puoi ripensarci quando vuoi, sei libero, non c’è nessuno che dipende da te, ma quando diventi padre no, cambia tutto, non è che c’è il reso come nei negozi online, quando esce è fatta, non si può più tornare indietro…”. Sullo sfondo di Sono quasi pronto, l’ospedale fa da quinta teatrale per il succedersi di nascite e morti. Un ospedale, in questo senso, può somigliare a un romanzo, diventa un microcosmo di storie dove si intrecciano sofferenza, speranza e guarigione, eventi gioiosi o meno. Insomma, storie di vita. Quelle che racconta con grande lucidità e passione Biferali tra le sue pagine. Senza nessuna pretesa di trovare soluzioni e risposte a enigmi della nostra esistenza che rimarranno per sempre insoluti (quando si smette di essere figli, come si affronta un lutto, possiamo prepararci a uno stravolgimento così grande come quello che mettere al mondo una nuova vita comporta?), ma rassicurandoci sul fatto che, in qualche modo, pronti o no, la vita farà comunque inesorabilmente il suo corso. E noi parteciperemo, semplicemente cercando di farci trovare preparati o accettando che probabilmente non lo saremo mai.
Sono quasi pronto
«Con un'inconfondibile e raffinata svagatezza, Biferali dà un'analisi acuta dei rapporti familiari, spostando in avanti i confini dell'autofiction.»
Emanuele Trevi
Sono quasi pronto è un libro sugli ospedali, sulla nascita, la malattia e la morte. Tra le corsie e in quelle anonime stanze dalle pareti bianche si compiono infatti le tappe fondamentali della nostra esistenza. Che luogo è un ospedale?
Per me è un luogo familiare. Essendo il terzo figlio, arrivato quando i miei avevano più o meno quarant’anni, crescendo, li ho visti invecchiare. A pensarci bene, non credo di averli mai visti giovani, ho potuto solo immaginare la loro giovinezza, guardando gli album di famiglia e ascoltando i loro racconti e quelli dei miei fratelli. E nell’invecchiamento, insieme a un’educazione più leggera, dettata forse anche dall’esperienza, arrivano anche piccole grandi malattie di ogni tipo. Quand’ero piccolo avevo paura degli ospedali, di quello che poteva succedere dentro gli ospedali. Con quelle luci che ci sono solo lì, quei corridoi infiniti, quelle sale d’attesa in cui vengono immaginate tante storie che finiscono male, l’ospedale, per me, è un luogo di confine tra la vita e la morte, il luogo ideale dove ambientare questa storia.
Il protagonista, un giovane trentenne, e la sua compagna Bianca, aspettano una bambina. Diventare padri (e genitori in generale) ti fa sentire su una soglia che appena varcata avrà il potere di cambiare tutto, come se fino a quel momento nella vita non fosse successo veramente niente di straordinario e da un momento all’altro tutto acquisisse un nuovo significato… è proprio così?
Sì e no, nel senso che lo straordinario io l’ho visto e vissuto anche prima, nelle piccole cose, altrimenti non sarei diventato uno scrittore. Credo che la vita e la morte possano avere la stessa forza, gli stessi effetti sulla vita di una persona. Diventare padre o madre non è poi così diverso dal perdere un genitore o entrambi, ci si sente come il protagonista del romanzo, che non sa bene cosa provare, cosa sentire e come. È spaventoso, se ci pensi.
Come dovrebbe essere un padre?
Non lo so, non credo che esistano un metodo, delle istruzioni, ecco, anche se prima di diventare padre credevo il contrario o quasi. Come il protagonista del romanzo, ho comprato tantissimi libri che poi non sono serviti a nulla. Diventare padre non è come montare un mobile Ikea (che a dirla tutta, anche lì, non è che le istruzioni siano sempre chiarissime). Per quella che è la mia esperienza, da padre e soprattutto da figlio, credo che un padre debba esserci, quale che sia il modo, quale che sia la forma. Esserci è quello che conta.
Sicuramente quello di diventare genitore è un pensiero che genera ansia. È proprio su questo senso di inadeguatezza che indaghi nel libro attraverso il tuo protagonista…
Sì, si intuisce anche dalla copertina, che non è così serena e spensierata come sembra. Diventare padre, per il protagonista, significa non poter più permettersi di rimandare il passaggio all’età adulta, meno leggera dell’età che la precede, almeno nell’immaginario collettivo. Anche perché, come per la paternità, non esistono istruzioni per l’uso, e chi non è abituato può solo provare a guardarsi intorno, a immaginarsi nei panni degli altri, che come adulti sembrano molto più credibili.
“L’unica cosa che avrei potuto insegnare, se un giorno l’avessero inventata, era la memoria delle cose inutili, divertenti, magari, sì, ma inutili, almeno per il mondo in cui ero capitato”. Il tuo protagonista insegna a scuola e cerca di scrivere nel tempo libero. Ogni giorno però si trova a fare i conti con la sindrome dell’impostore. Come si impara a convivere con l’impostore che tutti ci portiamo dentro?
È tutta una questione di abitudine. Nel caso del protagonista, e nel mio caso, leggere e studiare ogni giorno rappresentano un buon rimedio per cercare di convivere con quella sindrome, per provare a sentirsi meno impostori, meno di troppo, in un mondo in cui sono tutti scrittori, tutti lettori, tutti sempre preparati e all’altezza.
Con questa indagine sei riuscito a scoprire qual è il confine con la vita adulta? Quando si diventa grandi definitivamente?
Ci sono diversi momenti, che a pensarci bene, con il senno di poi, è come se fossero dei confini esistenziali. Gli esami, il lavoro, la convivenza, la paternità, la perdita di una persona cara. Ci sono tanti momenti in cui, anche solo per un attimo, mi sono sentito adulto, ma per fortuna è durato poco.
E al lutto, altro tema che fa capolino tra le pagine, come ci si prepara? Nel libro citi una frase di Roland Barthes: “Poter vivere senza qualcuno che si amava, significa forse che lo si amava meno di quanto credessimo”?
Quand’ero piccolo la mia più grande paura era che i miei genitori un giorno potessero morire. È una paura che non ho mai smesso di provare, in diverse forme. È una domanda impossibile, quella che si pone Barthes, che non fa che aumentare i miei sensi di colpa, non solo per tutte le cose che avrei potuto dire o fare, ma anche perché continuo a vivere la vita che ho sempre vissuto. Quando muore qualcuno che amiamo, muore anche qualcosa dentro di noi, e il tempo che passa, purtroppo, non aiuta a guarire le ferite.
Il protagonista e la sua compagna, Bianca, sono i figli di un mondo in cui trovare una casa in affitto o in vendita sembra un’odissea e i mobili sono rigorosamente quelli a buon mercato di una celebre azienda svedese. Che generazione è quella che racconti nel tuo libro?
Una generazione in difficoltà, in crisi, per certi tratti, ma che è sempre pronta a reinventarsi, a rialzarsi per necessità. Il lavoro non si trova, e se si trova non è rassicurante, non riesce quasi mai a soddisfare appieno i nostri bisogni. Gli stipendi, in Italia, sono tra i più bassi in Europa, e le case, in affitto o in vendita, costano tanto, troppo. E poi ci sono tante persone come il protagonista, come me, che sognano di vivere dei propri libri, della propria scrittura, che ogni tanto si sentono chiedere da qualcuno: Ma quindi ci si campa con la scrittura?
Può essere frustrante, sì, ma bisogna andare avanti.
Cambiano le possibilità, le abitudini e la società e anche la figura del padre è cambiata negli anni. Che futuro genitore è il tuo protagonista rispetto a suo padre, che compare in alcune pagine del romanzo?
Il padre del romanzo, che somiglia molto al mio, di padre, è uno dei personaggi più importanti di questa storia, se non il più importante. Quando il protagonista scopre che sta per diventare padre, è inevitabile per lui ripensare a suo padre, alla sua esperienza come figlio, ricordarsi di com’era suo padre con lui, provare a immedesimarsi a distanza di anni, affidandosi alla memoria. Ma non è facile. Anche se sembrerà una banalità, erano altri tempi. A volte ho l’impressione che i padri oggi siano più presenti, più coinvolti, più aperti al dialogo, all’idea di mettersi in discussione, ma forse non è così. Mi piacerebbe tornare bambino per qualche ora, parlare con mio padre, vedere come mi ascolta.
“Avevo letto un saggio di uno scrittore americano che diceva che nei memoir non c’è nulla di vero, visto che non c’è niente di più inaffidabile della memoria, che i ricordi in fondo non esistono, che noi abbiamo solo il ricordo di un ricordo, che forse con il ricordo, quello vero, non è che c’entra poi tanto, e mentre lo leggevo pensavo che allora sono i memoir i veri romanzi…”. Cosa pensi dei memoir e della loro larga diffusione in questi anni?
Per me non è tanto quello che si racconta, ma come lo si racconta. Allora se sei Proust, Carrére, Ernaux, Trevi, Zambra, Knausgard, Murakami, ecco, puoi scrivere quello che vuoi. Lo scrittore americano di cui parlo è Shields, che ha scritto un libro bellissimo, si chiama Fame di realtà. Sono d’accordo con lui quando dice che i memoir sono migliori, almeno nelle intenzioni, di molti romanzi che vengono pubblicati, che spesso sono artefatti, costruiti (e scritti) a tavolino, e quindi male. I memoir sono la testimonianza che non è necessario aver avuto una vita avventurosa per poterla raccontare. Quello che conta è saper osservare e poi trovare la propria voce.
La sofferenza aiuta a scrivere?
Sì, ma non ho ancora capito bene perché.
C’è qualche libro in particolare che ti ha fatto da guida per la scrittura di questo tuo nuovo romanzo?
Direi Here di Richard McGuire, un graphic novel in cui viene raffigurato lo stesso luogo nell’arco di ottomila anni, all’inizio è una palude, alla fine diventa una casa dentro cui una famiglia vive la propria quotidianità. L’idea di ambientare il romanzo in un solo luogo, nel mio caso l’ospedale, è nata da lì.
Le pagine di Sono quasi pronto sono anche ricche di musica. Da Devendra Banhart agli Alt-J. Che ruolo ha la colonna sonora?
Le scelte musicali mi aiutano a collocare questo romanzo in un tempo storico più o meno definito, e poi, per me che sono cresciuto guardando film, alcune scene le ho proprio immaginate con quelle canzoni. È un altro indizio generazionale, forse, anche se non pensavo a questo quando le ho scelte, però mi piace l’idea di poter creare un nuovo canone musicale, letterario, cinematografico.
Hai qualche ricetta segreta per essere finalmente pronti?
Non direi, ma forse il fatto di credere ogni giorno di non essere ancora pronti, in fondo, è un modo come tanti per essere pronti. Vorrei conservare il quasi del titolo, mi fa pensare a quella cosa che diceva Calvino: “Alle volte uno si sente incompleto ed è soltanto giovane”.
Sono quasi pronto
Che bambini siamo stati? Chi eravamo, prima di divenire 'adulti consapevoli'? E i nostri genitori, prima che nascessimo? Possibile che fossero come noi, «quasi pronti» ma mai del tutto, titubanti di fronte alle soglie che la vita, con i suoi tanti cicli, ci mette davanti? L’imminenza della nascita del primo figlio induce il narratore di questo intenso romanzo, un uomo ancora giovane, a ripensare la propria esistenza, rivisitando l’infanzia, la vita sentimentale e il rapporto con la compagna Bianca, quello con i genitori – che in modi diversi vanno incontro al temuto declino – e soprattutto esplorando il senso sfuggente del cambiamento. Con Sono quasi pronto, il suo romanzo forse più bello, Giorgio Biferali ci consegna una visione pulsante del nostro tempo e dell’esistenza, e alcuni momenti romanzeschi tanto potenti che il lettore non potrà non avvertire un caratteristico, antico sobbalzo del cuore.
Visualizza eBookRosa Carnevale, giornalista. Si occupa di arte, fotografia e libri. Ha collaborato, tra gli altri, con Artribune, L’Officiel, Rolling Stone Magazine, Lampoon, Marie Claire e Grazia. Per la casa editrice Contrasto è redattrice e consulente di progetti editoriali.