Svevo e Joyce, vita e letteratura
Tra i più grandi studiosi di James Joyce, autore di una straordinaria edizione annotata e bilingue dell'Ulisse (per Bompiani), teorico della traduzione e traduttore (tra gli autori tradotti, oltre Joyce di cui ha curato anche, insieme a Fabio Pedone, il Finnegans wake, ci sono Oscar Wilde, Nathaniel Hawthorne, Edgar Lee Masters, William Leonard Packard, Alasdair Gray e George Orwell), Enrico Terrinoni ha da poco pubblicato, per Bompiani, La vita dell'altro. Svevo, Joyce: un'amicizia geniale, un saggio che ripercorre, attraverso la consultazione delle opere degli autori, ma anche delle loro lettere e testimonianze, il rapporto tra i futuri creatori dell'Ulisse e della Coscienza di Zeno. Questo libro, perfettamente bilanciato tra i suoi due protagonisti, sembra la naturale prosecuzione del lavoro cominciato da Terrinoni con Su tutti i vivi e i morti che raccontava il periodo trascorso da Joyce a Roma, spostando l'attenzione adesso su un rapporto nato a Trieste (dove, come noto, Joyce impartiva lezioni di inglese a Svevo che gli si rivelò come scrittore) tra il 1906 e il 1907 e poi proseguito a distanza. Assecondando i ritmi irregolari delle loro opere, Terrinoni in questo libro non segue in maniera cronologica le varie fasi di questa amicizia “sincera”, ma si muove spesso affidandosi a salti temporali e improvvisi scarti tra vita e opera, nella convinzione che l'incontro di destini tra Svevo e Joyce abbia segnato “non solo le sorti di entrambi, ma anche quelle della letteratura del Novecento e oltre”. La vita dell'altro è un libro che vive della stessa curiosità multiforme delle altre opere di Terrinoni e come molte delle sue pagine offre continui spunti non solo per addentrarsi nelle opere di Svevo e Joyce, ma anche per riflettere sul rapporto tra le lingue e su cosa significhi, per un critico letterario, provare a raccontare delle vite.
La vita dell'altro: Svevo, Joyce: un'amicizia geniale
Il racconto inedito dell’amicizia molto speciale tra due giganti del Novecento.
Visualizza eBookIn un tuo articolo dedicato a indagare come certe connessioni possano offrire nuovi spazi interpretativi, hai scritto che “se tra due oggetti, persone, cose, opere, distanti e distaccate, vi è un’interazione in qualche modo significativa, quella stessa interazione farà sì che siano poi collegate per sempre”. Com'è stata l'interazione tra Svevo e Joyce?
In quel pezzo parlo di entanglement letterario, prendendo in prestito una terminologia propria della quantistica. Joyce e Svevo si sono incontrati casualmente nel 1906 o nel 1907 a Trieste. Per un qualche scherzo del destino questi due scrittori che avevano tantissimo in comune, ma anche tanti punti di differenza, si sono ritrovati nella stessa città in anni importantissimi per entrambi. E da subito hanno visto qualcosa di importante l’uno nell’altro. Si sono per così dire rispecchiati. Hanno iniziato a scambiarsi i propri scritti e le proprie idee sulla letteratura, sul teatro, sulla religione, e quelle idee hanno poi pian piano preso a permeare i rispettivi libri e racconti fino a renderli indissolubili. Oggi fare una ricognizione delle opere di Joyce senza tener conto di Svevo sarebbe una grave ingenuità, e viceversa, leggere Svevo senza fare riferimento a Joyce è molto limitante. Questo ho provato a dimostrare con il mio libro, che è sì una storia delle loro esistenze parallele, ma si addentra spesso nella selva oscura delle opere per provare a reperirne scampoli di luce.
La vita dell'altro si apre con una riflessione sulla possibilità e il significato di raccontare un'esistenza (cosa che per esempio hai fatto anche in Su tutti i vivi e i morti, dedicato al periodo romano di Joyce): in questo libro tu operi un confronto tra dati biografici, lettere, diari e opere e fai emergere quella che, per il valore personale che ha ogni narrazione, è la tua storia. Qual era la prospettiva di partenza? Si è modificata durante il lavoro?
La prospettiva è pressoché identica, questo libro è la naturale prosecuzione, anche temporale, dell’altro. Il presupposto di partenza è che la grande letteratura sia un distillato della vita e delle vite. Non necessariamente quelle degli autori, come nel caso di Svevo e Joyce. Tenere lontano la letteratura dalla vita è, ed è stato, una miopia critica imperdonabile. Ci si è illusi a lungo che, se la scrittura è sempre rappresentazione, mentre la vita non lo è, queste due forme di esistenza dovessero essere studiate separatamente. E invece, la vita è racchiusa e racchiude l’arte. L’arte ne distilla il succo, ma crea immaginari senza cui non si potrebbe vivere. Tutto quel che è, è stato prima sognato, dice Blake, e questo vale sia per l’arte che per la vita, ma anche per la scienza. Non esiste un al di fuori del pensiero, e il pensiero arriva prima dell’azione, tranne nei casi meno fortunati. Allora, io mi sono chiesto: a dispetto di tanta critica che non si interessa più della vita degli autori come strumento interpretativo proprio perché la vita è una cosa e la letteratura un’altra, possiamo affrontare l’opera di autori estremamente autobiografici, come Svevo e Joyce, senza presupporre l’operazione di distillazione a cui facevo cenno? Possiamo ovvero dimenticarci che gli scrittori traducono la propria vita e quella degli altri in inchiostro? I segni di inchiostro sono altro dalla vita, ma da quella nascono e da quella procedono, per utilizzare un linguaggio religioso. Una prospettiva del genere credo aiuti non solo a spiegare tante cose dei libri che leggiamo, ma anche a suscitare interesse nei lettori, perché in fin dei conti le storie sono quello che ci interessa, e il mistero del passaggio da esistenza a storia è quello che ci guida e ci fa vivere come in un romanzo, a volte, o come in un film horror, in altre.
La vita dell'altro si chiude con il vertiginoso capitolo finale Coincidentiae (ovvero, postfazione per lettrici e lettori superstiziosi) dove riprendi le fila delle sorprendenti e “strane corrispondenze”, numeriche e non, che costellano il rapporto tra Svevo e Joyce. Pensi che anche questo possa aiutare a delineare le caratteristiche della loro relazione? O si tratta piuttosto di un aspetto che rivela le risonanze imperscrutabili della letteratura?
Ho premesso che andrebbe letta dai superstiziosi, e l’ho fatto ironicamente, proprio come nel titolo ho fatto un cenno ovviamente ironico a un noto romanzo contemporaneo. Non volevo certo irritare qualcuno, come immagino però possa capitare. Ora, tanta grande letteratura si regge sulla numerologia o quantomeno ne incorpora i percorsi. La Divina commedia, ad esempio, con la sua ossessione trinitaria nella struttura della versificazione e in quella generale dell’opera. I testi sacri poi sono pieni di numeri e connessioni numeriche. Una branca della Cabala ebraica interpreta il valore dei numeri connesso a quello delle lettere. Poi c’è tutta una tradizione ora junghiana ma prima poetico-sapienziale legata ai concetti di anima mundi e di sincronicità. E poi, le coincidenze legano anche tanta narrativa più popolare: il giallo, ad esempio. Joyce era notoriamente superstizioso, Svevo un po’ meno ma deve aver capito quanto fosse importante per l’amico il concetto di coincidenza non casuale, che nell’ultimo libro dell’irlandese avrebbe preso il nome di “coincidanza”. Allora perché non seguire l’esempio di Joyce e leggere, anche solo per il gusto di farlo, questi percorsi numerici e di simultaneità che segnano gli incroci tra le loro vite? L’ho fatto, a mio rischio e pericolo, ma sempre con levità laica; e spero che qualcuno possa gradire.
Qual è stato il percorso che ti ha avvicinato a Joyce? E quali sono stati gli itinerari accademici e non che ti hanno portato a lavorare sull'Ulisse?
Mi sono avvicinato prima all’Irlanda. Da giovane ci andavo ogni estate, poi ho iniziato a suonare la musica irlandese e a Dublino facevo anche parte di una band. La musica Irish, che poi è in molti casi poesia, mi ha condotto alla letteratura Irish. Molti letterati, incluso Joyce, erano anche dei musicisti. Dopo la laurea avevo in mente di studiare Joyce perché mi aveva colpito la sua segretezza. L’avevo letto e ne ero rimasto affascinato, ma sentivo di averci capito pochissimo. Un rimescolio di fascino e incomprensione è il miracolo che opera l’arte. E solo uno sciocco può davvero pensare di comprendere il mistero dell’arte. Allora, ho fatto qualche ricerca per vedere in quale università lavorava quello che per me era il più bravo studioso di Joyce e di letteratura irlandese in giro, Declan Kiberd, ed era a Dublino, nella stessa università di Joyce. Gli ho scritto per proporre il mio progetto su Joyce e il neoplatonismo e ha accettato di seguirmi. Poi siamo diventati amici e abbiamo lavorato molto insieme in seguito. Il mio progetto di ricerca per il dottorato a Dublino verteva sull’Ulisse ma non avevo intenzione di tradurre il libro di Joyce. Finito il PhD però ne scrissi molto, sia in inglese che in italiano. Nel frattempo, traducevo autori irlandesi. A un certo punto un editore romano mise le due cose insieme e mi chiese se mi andava di tradurlo. Accettai subito perché la nostra sarebbe stata un’edizione colta ma popolare, mentre fino ad allora l’Ulisse era considerato in Italia per lo più un pezzo da museo.
La prima traduzione dell'Ulisse di Joyce è uscita negli anni Sessanta a opera di Giulio De Angelis ed è stata, per diversi decenni, l'unica. Negli ultimi dieci anni invece, a partire proprio dal tuo lavoro per Newton Compton, se ne sono susseguite diverse. Cosa pensi di questa Ulisse-renaissance italiana? Credi che porti anche a una circolazione maggiore dell'opera?
Credo che è quello che meritano tutte le grandi opere, ossia di avere tante vite dopo la morte, come Walter Benjamin definisce la traduzione. Ovvio che le traduzioni sul mercato sono molto diverse, a seconda che le faccia uno studioso, uno scrittore, o un appassionato. Ma tutte tendono a ricomporre la luce dell’originale. E poi, Joyce ha vissuto un sesto della sua vita nella penisola italiana, ha scritto tanto in italiano, e coi suoi figli parlava e comunicava per lettera in italiano. Quindi, l’Italia è a tutti gli effetti la sua seconda patria e glielo dovevamo. È bello avere questo record mondiale di traduzioni dell’Ulisse, ma anche di tante altre sue opere, che non sono mai minori.
Mi sembra che dal tuo lavoro su Joyce (le tue traduzioni, ma anche i saggi dedicati allo scrittore) emerga una precisa modalità di presentazione al lettore: non posso definirla una “semplificazione”, perché sarebbe impreciso e ingiusto, ma ho l'impressione che leggendo i tuoi Joyce il lettore si senta accompagnato, invitato ad addentrarsi in un universo complesso, ma che, grazie alla giusta mediazione, può parlare a tutti. Cosa ne pensi?
Semplificazione è un termine che mal si adatta alle edizioni che curo. L’ultimo mio Ulisse uscito per Bompiani nel 2021 è probabilmente l’edizione più completa e complessa che ci sia al mondo quanto ad apparati critici. E i due libri del Finnegans Wake che ho curato con Fabio Pedone sono senza dubbio le edizioni con un numero maggiore di note in circolazione in Italia e all’estero. Più che semplificare, io direi che il mio obiettivo, anche politico, è di parlare e scrivere in maniera che tutti possano avvicinarsi senza paura a questi testi misterici. Per troppi anni Joyce è stato appannaggio dei soli specialisti, che spesso hanno prediletto un linguaggio ermetico. Joyce con i suoi libri voleva cambiare il mondo e non farsi dire bravo. Anche Gramsci è difficile, e anche lui voleva cambiare il mondo. Quello che affermo io è che i critici non possono e non devono rendere più difficile quel che complesso lo è già. Spesso lo fanno per narcisismo o elitarismo. Io so bene, come Burgess, che Joyce era un figlio del popolo. Renderlo più oscuro di quel che è sarebbe per me imperdonabile.
In un tuo saggio raccolto in Oltre abita il silenzio. Tradurre la letteratura parli della necessità di immaginare una nuova figura, quella del “tradautore”, una “figura umbratile, senza cui leggeremmo molto di meno”, sottolineando come appunto il traduttore sia anche un autore nella riscrittura del testo. Cosa cambia, per il lettore e per il traduttore, se si tiene a mente questo aspetto fondamentale del lavoro?
I lettori sono anch’essi dei traduttori. Tradurre significa interpretare. Quando leggiamo un testo lo stiamo interpretando: ne facciamo qualcosa d’altro, perché lo scomponiamo, lo adattiamo al nostro orizzonte culturale, lo fruiamo in uno spazio e in un tempo diversi da quelli in cui è nato. Alla luce di questa verità incontrovertibile, i traduttori sono semplicemente coloro che quelle interpretazioni e quei cambiamenti mettono nero su bianco, affinché le loro opere, generate e non create dalla stessa sostanza delle progenitrici, siano a loro volta reinterpretate dai lettori (e quindi mentalmente ritradotte). Tutto ciò è molto banale e normale. Se leggo Dickens in traduzione italiana, non sto leggendo Dickens ma un’opera italiana che lo ha interpretato e che l’originale ha generato e non creato. Per carità, posso pure illudermi che sto leggendo Dickens. Le illusioni sono belle.
Insieme a Fabio Pedone, hai lavorato alla traduzione del labirinto più articolato (per esperimenti linguistici e per il lavoro sull'intreccio) di Joyce, il Finnegans Wake, viaggio da cui “nessun viaggiatore è mai ritornato”, e, come scrivi in Oltre abita il silenzio, “il libro della fine e dell’again, ma anche un libro che nega la propria fine (fin negans)”, un libro che sembra quindi suggerire come qualsiasi lavoro su esso si riveli interminabile. Al di là delle difficoltà nella traduzione (“traduzione infinita” la definisci), cosa ti ha trasmesso lavorare su quel testo rispetto al tuo rapporto con Joyce?
Innanzitutto, è stato per me e per Fabio un viaggio affascinante e divertentissimo. Logorante, perché padroneggiare il Finnegans significa padroneggiare un oceano di critica che cresce esponenzialmente ogni anno. E anche perché è un testo che è in gran parte oscuro, e come diceva uno dei suoi più grandi esegeti, è destinato a rimanerlo. Questo significa che su tanti luoghi è fondamentale confrontarti non solo con le ipotesi della critica scritta ma anche dal vivo con i vari esperti nel mondo, tutti amici che mai mancano di darti una mano. Qui in Italia ci aiutava spesso Umberto Eco, e gli abbiamo dedicato il primo volume anche per questo. Quello che ci ha trasmesso tradurre il Finnegans è la grande gioia di scavare nelle parole inventate da Joyce e di ricrearne di nuove noi, ma anche quella di annotarle e spiegarle, e porgere quindi ai lettori strumenti di accesso al mistero. Quello che ci ha lasciato è una grande nostalgia per il non essere più a contatto giornaliero con l’opera più grande di sempre, e anche per il fatto che i primi due volumi mondadoriani non li abbiamo fatti noi e ci piacerebbe tanto rifarli.
La vita dell'altro: Svevo, Joyce: un'amicizia geniale
La vita dell’altro è una storia non ancora raccontata, che mostra l’esistenza tra questi due mostri sacri del Novecento di un rapporto assai profondo, di un’affinità elettiva ma anche di una voglia di sostenersi a vicenda e guardarsi negli occhi per riconoscersi.
Questa storia minima di due grandi racconta tramite eventi, resoconti, impressioni, incroci e simultaneità come le opere e le esistenze di Svevo e Joyce continuano a scrutarci oscuramente dal passato, con occhi attenti e divertiti, fissi sui nostri futuri.
Matteo Moca, dottore di ricerca in Italianistica, è insegnante e critico letterario. Ha pubblicato la monografia, Tra parola e silenzio. Landolfi, Perec, Beckett (La scuola di Pitagora, 2017) e ha curato Madonna di fuoco e Madonna di neve di Giovanni Faldella (Quodlibet, 2019). Si occupa in particolare dell'opera di Tommaso Landolfi, e, tra gli altri, di Elsa Morante, Anna Maria Ortese e Georges Perec, oltre che delle convergenze tra letteratura e scienze umane. Scrive di letteratura contemporanea su quotidiani e riviste.