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The Big Quit

Di Paolo Sus • luglio 06, 2022

Solo qualche anno fa (nel 2016) il comico Checco Zalone nel film Quo vado? attingeva ancora alla macchietta dell’italiano assetato di lavoro a tempo indeterminato, possibilmente nel settore pubblico, con il proprio politico di riferimento (Lino Banfi) a fargli da Gillo Parlante a tutte le ore del giorno e della notte per ricordargli che “il posto fisso è sacro!”

Dopo due anni di pandemia invece scopriamo che qualcosa è cambiato. In Italia, ad esempio, il numero degli under 40 che ha deciso di licenziarsi è aumentato del 26% e si riscontra persino fra chi vince i famosi concorsoni pubblici una certa tendenza a rinunciare al posto di lavoro così ottenuto. Il fenomeno rilevato prima negli Stati Uniti, dove 47 milioni di persone nel 2021 hanno lasciato volontariamente il lavoro e il 75% delle aziende dichiara di avere difficoltà ad assumere, noto ormai come great resignation o big quit, è trasversale a diversi paesi con diverse culture del lavoro e pare quindi poter essere etichettato come epocale. Quale sia l’aspetto comune a tutte le esperienze individuali che vanno a formare la massa è, però, ancora materia di studio. Da un lato molti “quitters” dichiarano di voler ricercare un miglior equilibrio tra vita privata e lavoro, ma i dati ci dicono anche che molti altri hanno lasciato il lavoro semplicemente per aver trovato un altro impego più remunerativo.

La giornalista americana Sarah Jaffe, peraltro, non sarebbe nemmeno d’accordo nella datazione del fenomeno che, secondo lei, ha avuto inizio ben prima della pandemia, cioè dalla crisi del 2008, alla quale è seguita l’istituzionalizzazione del precariato che ha afflitto i giovani laureati nel decennio seguente. In Il lavoro non ti ama (Minimumfax 2022), Jaffe riflette sull’illusione di cui diverse generazioni del dopoguerra si sono nutrite, cioè quella di fare il lavoro che si ama per poter essere felici. Nel libro passa in rassegna una serie di professioni che più di altre richiedono “amore” per essere svolte (tutte quelle mediche e di care giving, quelle legate all’insegnamento, all’arte e al sociale) e nota come questo amore per il lavoro risulta regolarmente mal riposto. Le ore lavorate per dedizione aumenteranno senza limiti, mentre gli stipendi stazioneranno sempre intorno alla linea di galleggiamento. L’esempio più estremo della teoria potrebbe essere il lavoro domestico delle casalinghe: puro amore H 24, zero retribuzione. La sfera emotiva e quella materiale non sono dunque separate, tutt’altro. L’insoddisfazione generata da una scarsa retribuzione, ad esempio, peserà nel bilancio personale relativo alla realizzazione delle proprie aspettative.

Avvisava del pericolo già Luciano Bianciardi nel 1962, spiegando che in ufficio bisogna arrivare sempre in orario, inutile poi venirgli a dire (al Capo) che la sera si è fatto tardi con i colleghi proprio per finire quello che c’era ancora da fare sulla scrivania. In La vita agra (Bompiani 1962), lo scrittore toscano trapiantato a Milano, confessava di non capire tanta gente che sgobba per farsi la casa bella nella città in cui lavora e poi sgobba per farsi l’automobile e andar via dalla casa bella. Il mestiere che si esercita, secondo Bianciardi, finisce per non essere più un bene in sé, qualcosa che si pratica perché è bello, ma solo un mezzo, uno strumento, per arrivare al denaro. Quando il fine non è raggiunto rapidamente e in misura soddisfacente, è un attimo accantonare il mezzo, cioè il lavoro che si svolge, che diventa subito odioso. La sperequazione fra dare e avere non può che risultare frustrante alla lunga e, forse, anche il lavoratore più motivato alla fine lascerà il posto. Bianciardi stesso si è licenziato/fatto licenziare dalla grossa casa editrice, salvo poi continuare a collaborare come traduttore lavorando da casa. Perché il lavoro gli piaceva, andare in ufficio a farlo no.

Anche una buona percentuale di odierni “quitters” rivendica di voler riprendere in mano la propria vita. Se la motivazione fosse quella, la ragione potrebbe anche essere ricercata in qualche meccanismo del sistema in cui lavorano, del modo in cui è stato pensato, che porta alla sensazione di perdere il controllo. Johann Chapoutot, in Nazismo e management, liberi di obbedire (Einaudi 2021), racconta la vicenda di un ex generale delle SS che dopo la guerra ha fondato una scuola di formazione per dirigenti d’azienda che ha poi formato centinaia di migliaia di persone, esportando quel certo stile tedesco di organizzazione e gestione. La cifra stilistica della scuola consisteva nella responsabilizzazione del quadro, del funzionario, rispetto al risultato. Una volta ricevuta la consegna, il lavoratore avrebbe dovuto organizzare in proprio energie e risorse e fare di tutto per raggiungerlo. La creazione di questo sistema è, più o meno, coincisa con la codificazione del disturbo da burnout. La risorsa umana si esaurisce e nevrotizza nel tentativo di essere all’altezza di uno standard che però viene sempre stabilito da qualcun altro, altrove. Nel bene o nel male anche questo pezzetto è entrato nel DNA delle nostre società occidentali. Infatti, si chiede Chapoutot, “non dobbiamo forse, macchine fra le macchine, indurirci come acciaio dentro veri e propri sportifici? Non dobbiamo «lottare» ed essere dei «combattenti»? Non dobbiamo forse «gestire» le nostre vite, i nostri affetti e le nostre emozioni e dimostrarci efficienti nella guerra economica?”

Sottrarsi a un certo sistema di aspettative sembra essere il punto per molti “quitters”, che preferiscono tirare i remi in barca. Sottrarsi, non solo al posto fisso, con tutto ciò che porta con sé, ma anche ai social network e alla vita nelle grandi città. In una parola, ad ogni forma superflua di competizione sociale. Non sempre tenere duro a tutti i costi paga, infatti, a volte è molto meglio rinunciare e dedicarsi ad altro. Questo sembra il punto anche per Simone Perotti, che ha scritto Adesso Basta (Mondadori 2021). Il libro è un vero e proprio manuale per uscire dal sistema, che ci inchioda a vite non più soddisfacenti, e riprendersi il controllo. A sentire Perotti l’impresa non dev’essere fra le più semplici, infatti suggerisce, per prima cosa, mentre ancora si sta meditando il piano, di consultare un avvocato. Bisogna fare molto bene i conti, quando si lascia il posto fisso, e prepararsi spiritualmente a una sorta di decrescita felice. Il movimento che porta fuori dallo schema, cioè, non sarà alimentato solo dal puro calcolo economico (sbarcare il lunario), ma anche da un ripensamento delle priorità imposte dal proprio stile di vita. Anche perché Perotti non consiglia affatto di smettere di lavorare, ma solo di liberarsi di un lavoro che non piace anche se questo garantisce una certa stabilità. Lui stesso si dedica a una passione principale, che non copre tutte le spese, e poi integra il bilancio con quello che capita (fa l’imbianchino, il barman e lo scrittore, evidentemente).

Un percorso di uscita dalla società civile (o forse meglio dire: dalla civiltà sociale) che rimanda il pensiero al classico capostipite del genere Walden ovvero Vita nei boschi di Henry David Thoreau (1854) in cui l’autore, fra le altre cose, narrava con dovizia di particolari quali e quanti sforzi costasse condurre quella vita. La libertà è piena di doveri, avrebbe detto Vitaliano Trevisan - che ha fatto una sorta di percorso inverso. Dal precariato totale a un lavoro stabile (più o meno), cioè lo scrittore, nel quale però l’inquietudine della vita vagabonda non l’ha abbandonato. In Works (Einaudi 2016), Trevisan ha scritto il resoconto degli anni passati fra i mille lavori, disegnando un affresco pieno di dettagli che rappresenta ciò che il mondo del lavoro è stato nell’ultimo decennio e cosa può offrire a chi decida di frequentarlo senza volersi specializzare troppo. Works è un romanzo autobiografico pieno di sincerità, rappresenta un’utile esperienza con cui chi medita il salto all’indietro, dal posto fisso all’avventura, farà bene a confrontarsi.

Forse però l’obiettivo di gran parte dei “quitters” non è vivere un personale Nomadland (il film di Clohé Zhao pluripremiato nel 2020). Se è vero che da fine anni zero fra i lavoratori sobbolle del malcontento, è pure un fatto che ci troviamo di fronte a un fenomeno di massa solo oggi. Nel frattempo, per i giovani è diventato automatico rivolgere lo sguardo all’estero per cercare opportunità migliori, veramente qualitative; la cultura della recensione, del feedback condiviso, ha preso a dominare la rete; infine, abbiamo tutti provato l’esperienza galvanizzante dello smartwork. Lavorare da casa ha spogliato la vita lavorativa di molta mitologia, alla quale in pochi hanno voglia ora di tornare a credere. Rispetto a dieci anni fa probabilmente le persone sono più inclini alla comparazione critica e, forse, avendo maggiore accesso all’informazione, anche a pretendere di meglio. Nel complesso il lavoro ha perso un po’ di sacralità, è un abito che si può cambiare, o alleggerire, non più tanto una cifra identitaria. Torna in mente a proposito una battuta di Jean-Paul Sartre: “lei non è cameriere, lei fa il cameriere. Non si confonda a questo proposito.”


Il lavoro non ti ama di Sarah Jaffe

«Fa’ ciò che ami, e non lavorerai nemmeno un giorno in vita tua»: ecco lo slogan che ha mosso le nostre vite alla ricerca del lavoro dei sogni, quello che fai con il sorriso sulle labbra, che mette in gioco i tuoi talenti migliori e ti fa sentire parte di una squadra – di più: parte di una famiglia. Peccato che in quello slogan si nascondesse la ricetta per lo sfruttamento, il programma in codice per una nuova tirannia del lavoro che abbiamo accolto allegramente, convinti che il lavoro avrebbe ricambiato quell’amore. Ora però l'idillio si sta incrinando: al posto delle farfalle nello stomaco, la sensazione nettissima che in questa relazione qualcosa non vada. Perché facciamo sempre più fatica a cogliere il privilegio delle nostre vite precarie?

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La vita agra di Luciano Bianciardi

"La vita agra" segnò per Luciano Bianciardi il momento dell’autentico successo – un successo che non tardò a fare entrare in sofferenza un intelletto indipendente come il suo. Il romanzo, ampiamente autobiografico, vede il protagonista lasciare la provincia e con essa la moglie e il figlioletto per andare a vivere a Milano. L’intento iniziale è far saltare un grattacielo, per vendicare i minatori morti in un incidente causato dalla scarsa sicurezza sul lavoro (il riferimento è all’incidente alla miniera di Ribolla del 1954, in cui persero la vita quarantatré minatori). Ma il protagonista vive in perenne bilico fra voglia di far esplodere il sistema e desiderio di esserne riconosciuto…

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Adesso basta di Simone Perotti

Lavorare per consumare non rende felici.
Lo sappiamo tutti, ma come uscire da questo modello? Cambiare vita sembra impossibile. Invece non lo è. Basta avere tenacia, speranza, coraggio, e un pizzico di follia. Lo dimostra l'esperienza di Simone Perotti. Tuttavia non si tratta solo di ridurre il salario per avere più tempo libero: il punto non è lasciare il lavoro, ma affrontare una profonda revisione interiore, cercare equilibrio e armonia con se stessi, il mondo, le abitudini, le responsabilità.

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Paolo Sus (1979) vive e lavora a Milano, dove è nato. Con l'artista Thomas Raimondi, ha realizzato il libro-zine Filosofia Barbara (2019), che contiene nove racconti brevi; per Sartoria Utopia ha pubblicato il romanzo breve Pacifico Antico (2021). Appare con racconti e articoli su DROGA magazine, Bomarscé, Il Foglio Clandestino, Fumettologica e FV magazine.

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