Trilogia della città di K.
Come tanti altri cittadini europei provenienti dall'Europa orientale (era nata in Ungheria, nel villaggio di Csikvànd nel 1935) anche Ágota Kristóf fu costretta - in realtà la decisione la prese il marito, ignorando le titubanze della moglie - a lasciare la sua patria a causa dei sommovimenti politici e a trasferirsi in Svizzera, a Neuchatel, città dove vivrà fino alla morte, avvenuta nel 2011. Ogni grande scrittore ha un demone che lo abita e lo accompagna per tutta la sua vita, plasmandone le idee e le opere, e a questa regola non sfugge Kristóf, che in tutti i suoi lavori maggiori non può non fissare il suo pensiero sull'addio alla sua patria, che si riverbera nella desolazione della vita in Svizzera, sulla solitudine e incomprensione di una terra non sua e, tema non da poco per una scrittrice, sull'abbandono forzato della lingua madre a favore di una nuova lingua che non sarà mai del tutto sua, il francese.
«Piango tutte le sere, per mesi interi o per anni, e piango tanto che in seguito non riuscirò a piangere quasi mai più, come se avessi già pianto abbastanza per il resto della mia vita. Piango la perdita, dei miei fratelli, dei miei genitori, della nostra casa, che ormai è abitata da stranieri».
Ogni pagina della sua opera, fatta di testi teatrali, poesie e romanzi, trasuda infatti di sofferenza per l'addio, come emerge bene nel racconto autobiografico L'analfabeta dove identità e lingua si uniscono («All’inizio, non c’era che una sola lingua. Gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali erano quella lingua») o come nei versi dove solo la parola poetica sembra poter reggere il peso di un'intensità penetrante («Qui le persone sono così felici / che nemmeno amano / sono realizzate non hanno bisogno / l’uno dell’altro nemmeno di dio / la mattina si siedono davanti alle loro case inondate di luce / e fino a sera aspettano la morte»).
Ma il luogo dell'opera di Kristóf dove tutte queste forze trovano perfetto ordinamento e straordinaria trasposizione narrativa è la Trilogia della città di K., composta dai tre romanzi Il grande quaderno, La prova e La terza menzogna, una delle opere letterarie più importanti del Novecento proprio per la sua capacità di convogliare tensioni così diverse e radicali all'interno di una narrazione maestosa che si fonde con il tempo e con l'esistenza stessa della scrittrice.
Protagonisti del primo volume della trilogia sono due gemelli che vengono lasciati dalla madre alla nonna in un luogo imprecisato affinché lei li accudisca e li tenga lontani dalle violenze della guerra: non solo le asprezze della guerra arriveranno a bussare nella vita dei due gemelli, ma saranno anche delle disgrazie famigliari a turbare le loro vite. Eccezionale risulta la scelta di Kristóf di utilizzare la prima persona plurale per narrare la storia di questi due gemelli che non hanno nome, che finiscono per sovrapporsi in una forma assoluta che pare essere destinata, suo malgrado, ad avvertire sulla propria pelle il significato della sofferenza e di tutto ciò che di doloroso nasce da un abbandono.
In La prova invece il narratore si chiama Lucas, diviso dal fratello gemello Claus, ma tutti gli elementi della narrazione sono sottoposti a sfumature che portano il lettore a interrogarsi non solo sui rapporti con il volume precedente, ma anche sull'affidabilità di un narratore che pare confuso. Nel terzo e ultimo volume è invece Claus a parlare, ma le nubi non si diradano anche se i due gemelli riescono, fatalmente, a rincontrarsi in pagine maestose capaci di convogliare dubbi esistenziali e ricerca della propria identità. Il lettore, terminati i tre romanzi, rimane senza alcuna reale possibilità di avere contezza di quello che è accaduto ai fratelli, né di comprendere una volta per tutte cosa è vero e cosa no nelle ricostruzioni che si susseguono; questo però non incide minimamente sul valore dell'opera, donandole piuttosto un valore assoluto che esula dall'individuale verso l'universale.
Molti sono gli elementi autobiografici che risuonano tra queste pagine (la geografia dei luoghi rimanda all'Europa orientale da cui proviene l'autrice, il lavoro di Claus nell'ultimo volume si sovrappone a quello di Kristóf, l'incapacità, comune ai due fratelli, di mettere radici nel luogo dove vivono ricorda le riflessioni della scrittrice), ma anche una simile lettura sarebbe semplicistica perché il desiderio di Kristóf sembra piuttosto quello di costruire un'opera dove le esistenze e le esperienze singole si sgretolano e procedono verso un oltre universale, comune a ogni persona che si trova ad affrontare ostacoli e sofferenze, come capita ai gemelli che con i loro strazianti «esercizi di irrobustimento» abituano il loro corpo, e la loro anima, al dolore e alla sofferenza.
In una vecchia intervista italiana, Ágota Kristóf, alla domanda su dove avesse trovato origine il suo desiderio di scrivere, dice che è «diventando assolutamente niente che si può diventare scrittori»: nulla diventano i gemelli di questo romanzo, nulla diventa la storia, assoluta desolazione, e nulla diventa la scrittrice che adopera una lingua essenziale, scarna e non sua per indicare come il dolore possa offrire una chiave per comprendere il mondo e come la morte figuri come ineluttabile, ma non definitiva, conclusione.

Trilogia della città di K.: Il grande quaderno. La prova. La terza menzogna
«Una prosa di perfetta, innaturale secchezza, una prosa che ha l'andatura di una marionetta omicida». (Giorgio Manganelli)
Visualizza eBookPer gentile concessione dell'editore pubblichiamo le prime pagine da Trilogia della città di K. (Einaudi editore)
L’arrivo da Nonna
Arriviamo dalla Grande Città. Abbiamo viaggiato tutta la notte. Nostra Madre ha gli occhi arrossati. Porta una grossa scatola di cartone, e noi due una piccola valigia a testa con i nostri vestiti, più il grosso dizionario di nostro Padre, che ci passiamo quando abbiamo le braccia stanche.
Camminiamo a lungo. La casa di Nonna è lontana dalla stazione, all’altro capo della Piccola Città. Qui non ci sono tram, né autobus, né macchine. Circolano solo alcuni camion militari.
I passanti sono pochi, la città è silenziosa. Si può udire il rumore dei nostri passi; camminiamo senza parlare, nostra Madre tra noi due.
Davanti alla porta del giardino di Nonna nostra Madre dice:
– Aspettatemi qui.
Aspettiamo un po’, poi entriamo in giardino, giriamo intorno alla casa, ci accovacciamo sotto una finestra da cui giungono delle voci. La voce di nostra Madre:
– Non c’è piú niente da mangiare in casa nostra, niente pane, carne, verdura, latte. Niente. Non posso piú sfamarli.
Un’altra voce dice:
– E allora ti sei ricordata di me. Per dieci anni non ti eri mai ricordata. Non sei venuta, non hai scritto.
Nostra Madre dice:
– Sapete bene perché. A mio padre volevo bene, io.
– Sí, e adesso ti ricordi che hai anche una madre. Arrivi qua e mi chiedi di aiutarti.
– Non domando niente per me. Vorrei solamente che i miei bambini sopravvivessero a questa guerra. La Grande Città è bombardata giorno e notte, e non c’è piú da mangiare. I bambini sfollano in campagna, da parenti o estranei, dove capita.
– Allora non avevi che da mandarli da qualche estraneo, dove capitava.
Nostra Madre dice:
– Sono i vostri nipotini.
– I miei nipotini? Non li conosco nemmeno. Quanti sono?
– Due. Due bambini. Gemelli.
L’altra voce chiede:
– E degli altri cosa ne hai fatto?
Nostra Madre chiede:
– Quali altri?
– Le cagne mollano lí quattro o cinque piccoli per volta. Se ne tengono uno o due, gli altri li annegano.
L’altra voce ride molto forte. Nostra Madre non dice niente e l’altra voce chiede:
– Hanno un padre almeno? Non sei sposata, che io sappia. Non sono stata invitata al tuo matrimonio.
– Sono sposata. Il Padre è al fronte. Non ho sue notizie da sei mesi.
– Allora puoi farci una croce sopra.
L’altra voce ride ancora, nostra Madre piange. Ritorniamo davanti alla porta del giardino.
Nostra Madre esce dalla casa con una vecchia.
Nostra Madre ci dice:
– Ecco vostra Nonna. Resterete con lei per un po’, fino alla fine della guerra.
Nostra Nonna dice:
– La guerra può durare ancora molto. Ma li farò lavorare, stai tranquilla. Il cibo non è gratis nemmeno qui.
– Vi manderò dei soldi. Nelle valigie ci sono i loro vestiti. E nello scatolone lenzuola e coperte. Siate buoni, piccoli miei. Vi scriverò.
Ci bacia e se ne va piangendo.
Nonna ride molto forte e ci dice:
– Lenzuola, coperte! Camicie bianche e scarpe di vernice! Vi insegnerò io a vivere!
Facciamo la lingua a nostra Nonna. Lei ride ancora piú forte battendosi sulle cosce.

Trilogia della città di K.: Il grande quaderno. La prova. La terza menzogna
«Tutto ha inizio con due gemelli che una madre disperata è costretta ad affidare alla nonna, lontano da una grande città dove cadono le bombe e manca il cibo. Siamo in un paese dell'Est, ma né l'Ungheria né alcun luogo preciso vengono mai nominati. Un inizio folgorante che ci immette di colpo nel tempo atroce dell'ultima guerra raccontandolo come una metafora. La nonna è una "vecchia strega" sporca, avara e senza cuore e i due gemelli, indivisibili e intercambiabili quasi avessero un'anima sola, sono due piccoli maghi dalla prodigiosa intelligenza. Intorno a loro ruotano personaggi disegnati con pochi tratti scarni su uno sfondo di fame e di morte. Favola nera dove tutto è reso veloce ed essenziale da una scrittura limpida e asciutta che non lascia spazio alle divagazioni. Un avvenimento tira l'altro come se una mano misteriosa e ricca di sensualità li cavasse fuori dal cilindro di un prestigiatore crudele». (Rosetta Loy)
Visualizza eBookMatteo Moca, dottore di ricerca in Italianistica, è insegnante e critico letterario. Ha pubblicato la monografia, Tra parola e silenzio. Landolfi, Perec, Beckett (La scuola di Pitagora, 2017) e ha curato Madonna di fuoco e Madonna di neve di Giovanni Faldella (Quodlibet, 2019). Si occupa in particolare dell'opera di Tommaso Landolfi, e, tra gli altri, di Elsa Morante, Anna Maria Ortese e Georges Perec, oltre che delle convergenze tra letteratura e scienze umane. Scrive di letteratura contemporanea su quotidiani e riviste.