«Umberto chi?»
La prima cosa che associo a Umberto Eco è Sean Connery. Un po’ per via della barba, ma per lo più a causa del film di Annaud Il Nome della Rosa, tratto dall’omonimo romanzo di Eco – un film a cui pare seguirà un nuovo adattamento, stavolta per la tv. Si tratta di una produzione Rai Fiction in programma per il 2019, con un cast misto di attori italiani ed esteri. Pur trattandosi del libro più celebre dell’autore però, Il Nome della Rosa non esaurisce di certo la sua bibliografia, sufficientemente vasta da permettermi di riempire l’articolo con un semplice elenco. Ai romanzi, infatti (quali Il pendolo di Foucault o Baudolino, per citarne due) si accompagna un’ancor più copiosa attività di saggista, semiologo e giornalista. Ma soprattutto di filosofo – sebbene molti filosofi non sarebbero d’accordo.
Prima di indagare le cause del dissidio, mi atterrò a una base condivisa. È fuor di dubbio – ma difficilmente riassumibile – il contributo di Eco alla semiotica, una disciplina la cui sistematizzazione si può far risalire al sei-settecento (con antecedenti antichi in Aristotele) e che consiste nello studio della produzione, trasmissione e interpretazione dei segni. In effetti, la miglior sintesi della poetica dell’autore è proprio questa: una disamina attenta, originale, divertita e interdisciplinare della conoscenza simbolica in tutte le sue forme e applicazioni. Parole, disegni, immagini, numeri, stili, generi e media, dalle diatribe scolastiche alle ibridazioni della contemporaneità – Eco era una sorta di cane da tartufo dei simboli.
Col tempo la semiotica si è frammentata in varie sottocategorie, per via della sua complessità e vastità applicativa (in narrativa, filosofia, informatica, retorica, pubblicità e via dicendo). Per quel che riguarda i suoi temi principali, comunque, è in gran parte assimilabile alla filosofia del linguaggio, con una serie di antesignani che vanno dagli stoici a Ockham, da Locke a Bolzano, da Peirce a Husserl, da Saussure a Jakobson. Nonostante questo, ricordo che quando nella mia tesi di laurea (in filosofia) citai Opera aperta di Umberto Eco, alcuni professori storsero il naso – o peggio, dissimularono un “Umberto chi?”.
Uno dei motivi per cui questo filosofo non viene abitualmente etichettato come tale è che si tratta di un raro esemplare di filosofo-ornitorinco. A suggerire questa ipotesi è una teoria dello stesso Eco, che, in Kant e l’ornitorinco, usa come esempio questo bizzarro animale – intendo l’ornitorinco, sebbene pure Kant non scherzi, come sa chi ha letto Gli ultimi giorni di Immanuel Kant di De Quincey. Quando viene scoperto dagli europei alla fine del Settecento, l’ornitorinco pone dei seri problemi di classificazione: ha il pelo come i mammiferi, ma depone le uova come i rettili e gli anfibi; inoltre ha un buffo becco d’anatra che complica terribilmente le cose. A parere di Eco, il dibattito scientifico in merito esemplifica come, con un richiamo al Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, “la garanzia che le nostre ipotesi siano giuste non sarà più cercata nell’a priori dell’intelletto puro bensì nel consenso, storico, progressivo, temporale, della Comunità”. Ma lo studioso è accomunato a questo mammifero (poi si è deciso che è un mammifero) in modo ben più stretto di quanto non immaginasse.
Facciamo un passo indietro. Da più di un secolo in filosofia è in voga la distinzione tra “analitici” e “continentali”; i primi sono per lo più degli anglofoni amanti della logica, mentre i secondi sono influenzati da esistenzialismo, psicologia e post-strutturalismo, e vanno di moda “nel continente” (Francia e Germania soprattutto). Come capitani della prima squadra potremmo scegliere Frege, Russell e Wittgenstein; la seconda invece potrebbe essere capitanata da Heidegger, Derrida e Lacan. Per riassumere in modo brutale – e personale – i pregi e i difetti dei due approcci, la limpida chiarezza degli analitici porta spesso a un’eccessiva frammentazione delle domande e all’uso di un linguaggio formale complesso e di scarsa espressività. Lo stile poetico dei continentali, invece, tracima spesso nell’indecifrabilità e lascia talvolta il dubbio che stiano prendendo in giro il lettore.
In questa divisione, Eco, da buon ornitorinco, non sta né qua né là. Simon Blackburn, in una severa recensione proprio di Kant e l’ornitorinco, sostiene che pur utilizzando lo stile della filosofia analitica, Eco commette i tipici “errori” dei filosofi continentali, quali l’uso di concetti non sempre distinti e l’eccessiva abbondanza di riferimenti incrociati. A questo stile ibrido si aggiunge inoltre l’uso di esempi letterari, l’attenzione per il linguaggio visivo e un’ironia fuori dagli standard. Gli analitici, infatti, prediligono un humor decisamente british, (“Se fossi un medico, prescriverei una vacanza a tutti i pazienti che considerano importante il loro lavoro.”, disse Russell), mentre i continentali non scherzano mai – o non riesco a capire le loro battute.
Eco invece attinge alla comicità senza remore, talvolta a partire dai titoli stessi dei libri. Lontano da uno scherno post-ironico, fondato sull’applicazione trasversale del nichilismo – da cui si salva un io narcisista, valorizzato a forza di rifiutare cose – Eco scherza, ma al contempo prende lo scherzo sul serio. Utilizza l’ironia come un metodo filosofico e affronta i propri oggetti di studio con divertito scetticismo. Il tutto in equilibrio tra narrativa e filosofia (analitica e continentale), con salti vertiginosi tra riferimenti antichi e contemporanei, alti e pop; uno stile che anticipa gran parte del giornalismo culturale contemporaneo. Ci troviamo così di fronte a un filosofo-ornitorinco, capace di proporre dimostrazioni buffe e inoppugnabili come questa: «Perché c’è dell’essere piuttosto che nulla? Perché sì». Per quanto sembri scritta da un bambino di quattro anni, vi sfido a confutarla.