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Un’oscillazione tra due mondi. Ritratto di Cristina Campo

Di Federico Ferrari • ottobre 22, 2024

La mattina dell’11 gennaio 1977, gli amici più stretti mettono in ordine, per poi riporli in una grande cassa, la maggior parte degli scritti di Cristina Campo, deceduta la notte precedente. Di quella cassa, inventariata poco dopo dalla Pretura di Roma, non si avranno più notizie. Probabilmente andrà perduta nella confusione della frettolosa spartizione dei beni da parte dei suoi eredi. Tra gli scritti che vi erano contenuti doveva, quasi sicuramente, esserci anche il manoscritto, con tutte le sue varianti, dell’Antologia delle 80 poetesse che Cristina aveva, nell’arco di lunghi anni, progettato e inteso pubblicare, ma che, per ragioni traverse, non ha mai visto la luce. Di questa Antologia, che poneva l’accento su una differente sensibilità di scrittura legata al genere (tanto più singolare perché redatta da una scrittrice che mai ha fatto della militanza femminista una bandiera), ci rimangono solo alcuni schemi e indici, più o meno definitivi. In quell’antologia, a fianco di Saffo e Ildegarda di Bingen, Caterina da Siena e Gaspara Stampa, Jane Austen e Anna Achmatova, Katherine Mansfield e Virginia Woolf, Colette e Simone Weil, dovrebbe oggi trovare un posto anche l’opera poetica di Campo (dopo la sua morte raccolta con il titolo La tigre assenza).

Ma, ancor più, se si volesse tener fede a questa differenza e, con gesto analogo a quello dell’antologia campiana, si volesse antologizzare il pensiero femminile del Novecento, un posto centrale dovrebbe essere riservato ai saggi di Cristina Campo. È fuor di dubbio, infatti, che Campo abbia raggiunto i vertici del genere saggistico. Riesce difficile trovare altra donna, soprattutto in Italia, che sia stata capace di strutturare un pensiero così profondo e reale in una scrittura più adamantina e geometricamente perfetta (i saggi sono stati raccolti, anche questi postumi, in Gli imperdonabili e Sotto falso nome). Un pensiero e una scrittura, i suoi, nei quali non si coglie praticamente mai una sbavatura, un’imperfezione, un’esitazione. Oltrepassando ogni confine di genere letterario, in testi la cui brevità è inversamente proporzionale alla profondità, Campo assurge a modello insuperabile e inimitabile. Il suo gesto di scrittura isola e giustappone, lascia intendere e nasconde, illumina e ombreggia. Campo tocca in profondità i suoi lettori, utilizzando tutte le sfumature del discorso, non solo quelle emotive, ma anche quelle concettuali. Le sue frasi giungono a una precisione ingegneristica, nella quale, però, non vi è traccia di faticoso calcolo progettuale.

La scrittura di Campo, pur tuffandosi nelle profondità, anzi rischiando a più riprese di cadere nel baratro di un pensiero abissale, è, infatti, una scrittura lieve, che passa attraverso le vicende della vita senza voler arrecare loro disturbo, con discrezione e tatto. La sua è una scrittura piena di attenzione per gli esseri viventi e per le parole; una scrittura discreta. D’altronde, all’insegna della discrezione si era dipanata la sua intera esistenza (celeberrima la nota biografica che accompagnava uno dei rarissimi libri pubblicati in vita: «ha scritto poco e le piacerebbe avere scritto meno»).

Al secolo era Vittoria Guerrini, nata a Bologna il 29 aprile del 1923. Dopo un’infanzia solitaria, a causa di una patologia cardiaca, si era trasferita con la famiglia a Firenze, dove era entrata in contatto con l’ambiente letterario locale e aveva stretto intime amicizie con Leone Traverso e Mario Luzi. Poi, sempre al seguito del padre musicista, aveva traslocato a Roma. Qui aveva conosciuto Elémire Zolla che le sarà compagno per il resto della vita. Nessun incarico universitario, nessun ruolo continuativo come pubblicista, nessuna carriera letteraria. Una vita estremamente appartata e, nella parte finale, caratterizzata da una fede sempre più angosciata e ripiegata sulla ricerca di una liturgia capace di contenere le sue paure.

La vita e l’opera di Cristina Campo, guardate a posteriori, sembrano mosse da un’oscillazione interna, un’oscillazione tra due mondi («due mondi – e io vengo dall’altro»). È come se, senza tregua, senza darsi mai tregua, la scrittrice oscillasse tra un mondo e l’altro, tra la vita e ciò che è oltre la vita, tra il visibile e l’invisibile. (Di questa oscillazione tengono traccia, in particolar modo, i molti epistolari ora disponibili, tra cui le bellissime Lettera a Mita.)

È, però, probabilmente, in due soli versi a essere contenuta la chiave dell’intera opera di Cristina Campo: «con lieve cuore, con lievi mani / la vita prendere, la vita lasciare …». È nello sguardo incrociato di due serpenti (quello che prende e quello che lascia), le cui teste brillano come un diamante e un rubino incastonati in un discreto contrarié al dito della scrittrice, ad essersi giocato il destino di Campo, sempre in bilico tra adesione al mondo e ascesi, tra amicizia e solitudine, tra volontà di parole concrete e abbandono a un silenzioso atto di fede.

I due versi fanno la loro apparizione nel breve saggio, dal titolo Con lievi mani, dedicato alla sprezzatura. Vi compaiono in un punto cruciale del suo argomentare, ove la scrittrice arriva ad affinare, per l’appunto, il concetto di sprezzatura, inteso come «un ritmo morale», ritmo che rinvia «alla musica di una grazia interiore». Ed è, a suo avviso, attraverso questa scansione ritmica, questo tempo (anche in senso musicale), che «si manifesta la compiuta libertà di un destino, inflessibilmente misurata, tuttavia, su un’ascesi coperta». In queste pochissime righe è contenuto l’intero percorso e l’intero mondo di Campo. Districarne i fili, però, è compito estremamente delicato, proprio perché l’intreccio è serratissimo e non si è mai affatto certi che sciogliere i nodi sia il modo migliore per renderne intellegibile il disegno.

L’opera di Cristina Campo è il terreno di una battaglia, se non di una guerra in cui si accavallano successi, sconfitte e lunghi periodi di trincea. Diverse anime, simultaneamente presenti nella scrittrice, combattono tra loro per assumere i lineamenti di un’identità. Identità che, alla fine, apparirà come frutto della vittoria di una parte su tutte le altre, ma che, in fondo, è solo finzione narrativa, figura finale a cui, après-coup, si farà assumere la necessità di un destino. In realtà, non c’è un’identità finale, perché un’opera, come una vita, non ha fine – ma semplicemente si interrompe, improvvisamente e senza ragione.

Così, leggere Cristina Campo significa affrontare la trama di un’esistenza complessa, abitata da tensioni contrastanti, da slanci e amori mai decisi, da passioni travolgenti e delusioni catastrofiche, da gioie incontenibili e depressioni irresolubili. I suoi lettori non potranno che arrendersi all’idea che, al di là delle parole, esista sempre un fuori-testo, un disegno nascosto che porta oltre la pagina. Leggere Cristina Campo significherà, in fin dei conti, lasciarsi trasportare al di là della concrezione formale della scrittura verso il magma fluido che le ha dato origine. Detto altrimenti, significherà, più che mai, restituire alla scrittura la sua ritmica oscillazione vitale, ridonando alla lettera morta il suo spirito vivente.

La Tigre Assenza di Cristina Campo

«Poesia è l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato» scrisse Pound una volta – e Simone Weil: «che ogni parola abbia un sapore massimo». Sono regole convergenti a cui Cristina Campo sempre si attenne, con lo scrupolo fin troppo crudele che le faceva dire di sé: «Ha scritto poco e le piacerebbe aver scritto meno». Così tutta la sua opera in versi è racchiusa in questo libro, che in gran parte si compone di traduzioni, come l’opera in prosa sta tutta negli «Imperdonabili».

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Gli imperdonabili di Cristina Campo

Nella nota biografica che accompagnava un suo libro, Cristina Campo diceva di se stessa: «Ha scritto poco e le piacerebbe avere scritto meno». Quel poco è quasi tutto raccolto in questo libro e imporrà una constatazione a ogni lettore percettivo: queste pagine appartengono a quanto di più bello si sia mostrato in prosa italiana negli ultimi cinquant’anni. Cristina Campo era un’"imperdonabile", nel senso che la parola ha nel saggio che dà il titolo a questo libro: come Marianne Moore, come Hofmannsthal, come Benn, come la Weil, aveva la «passione della perfezione».

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Cristina Campo: Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile di AA. VV.

Cristina Campo è una delle voci di pensiero poetico più importanti del Novecento. Negli ultimi anni la sua figura, per certi versi estranea a qualsiasi definizione di genere, è tornata al centro del dibattito culturale italiano. Questo volume intende riaprire la domanda sul pensiero inquieto dell’autrice attraverso i contributi di alcune e alcuni dei suoi più attenti studiosi. Il volume è orientato dall’idea, centrale nel pensiero di Campo, che la fedeltà alla realtà precisa del visibile permetta uno spostamento di prospettiva, per il quale l’invisibile diviene la trama significante del reale.

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Federico Ferrari (1969) è saggista, filosofo e critico d’arte. Il suo ultimo libro è L’antinomia critica (Sossella editore, 2023).



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