Chi controlla Dune controlla l'universo
Nella crisi contemporanea si intravede il desiderio di recuperare il futuro. L’uscita del nuovo film Dune di Denis Villeneuve torna all’età dell’oro della fantascienza per immaginare la Storia. Il romanzo Dune di Frank Herbert, scritto tra il 1963 e il 1965, apre un ciclo lungo sei romanzi, e fin da subito segna uno spartiacque nella letteratura, vincendo il Premio Nebula e il Premio Hugo.
In un periodo segnato pochi anni prima da capisaldi quali Fahrenheit 451 e le Cronache marziane di Ray Bradbury, I giardini di Rama e Le sabbie di Marte di Arthur C. Clarke, Oltre l’invisibile di Clifford D. Simak, la fantascienza immaginava prospettive utopiche/distopiche in termini di progresso tecnologico e decadenza morale, capacità informazionale, intelligenze artificiali, robotica, forme di vita aliena ed evoluzione umana, viaggi spaziali, prima di entrare nel cyberspazio degli anni ’80 con William Gibson. Per Herbert invece la chiave di volta è l’immaginazione veggente, definita dai suoi critici “leap of imagination”, imbevuta delle influenze, riconosciute dai suoi studiosi e dichiarate nelle sue interviste, di C.G. Jung e Heidegger. L’elemento futuristico sono le radici interiori più simboliche e sacre dell’umanità, il futuro non prende forma nel mito del progresso scientifico e tecnologico, ma in una continuità con relazioni umane al contempo tribali, tecnologiche, iniziatiche e magiche, sondando la dimensione inconscia collettiva.
Qui è l’essenza della mitologia di Dune e della fantascienza, una porta spalancata su altri piani di realtà richiamati all’immaginazione creatrice dalle profondità cosmiche. Joseph Campbell in Le distese interiori del cosmo confida che il mito contemporaneo attinge dallo spazio siderale, perchè la vastità dell’universo è più adatta ad accogliere un mito globale per la nostra era. «Lo spazio esterno è dentro di noi esattamente quanto lo sono le sue leggi; spazio interno e spazio esterno sono la stessa cosa», dice Campbell. Le galassie in espansione accelerata rispetto la nostra cronosfera di riferimento ispirano l’esistenza di mondi e civiltà possibili oltre l’universo osservabile, così come il cielo notturno accoglie le figure del mito nelle sue costellazioni. I pianeti sono geografie dell’anima e luoghi simbolici, l’estasi e i voli sciamanici degli antichi messia vengono secolarizzati in forme moderne diventando viaggi spaziali, superpoteri o mutazioni. Lo spazio siderale è la parete della caverna su cui vengono dipinte le mitologie del nostro secolo. La grandezza di Herbert sta nell’aver intuito che dietro l’apparenza futuristica delle forme si celano dinamiche ancestrali.
Dune è un mito che esplora future possibilità d’esistenza oltre la civiltà industriale, radicata nell’impatto ecologico della tecnica umana, cominciato nel Neolitico per giungere alla crisi attuale, di cui gli storici Bonneuil e Fressoz hanno dato una panoramica esaustiva in La terra, la storia e noi. Roberto Paura ricorda che Herbert concepisce il pianeta delle dune Arrakis seguendo l’imperante desertificazione della Terra, dopo aver letto «più di 200 libri, articoli, rapporti e saggi scientifici sull’ecosistema delle regioni desertiche, sulle comunità che le abitano, sugli adattamenti degli animali e degli uomini a deserti di ogni tipo» per dare vita a «un pianeta che soffre per la mancanza d’acqua. Un popolo spinto alla violenza da questo bisogno. Una cultura, una civiltà che cerca di superare una simile avversità». Villeneuve ha dichiarato lo stesso messaggio: il suo film riprende l’opera di Herbert per ritrarre i disastri ecologici del XXI secolo.
Arrakis era un giardino florido come l’Eden, ma ora non cadono più piogge e l’acqua scarseggia. A causa di una catastrofe, forse un impatto meteoritico, i livelli di ossigeno del pianeta crollarono, fino a risalire quando l’ossigeno cominciò ad essere prodotto dal metabolismo dei titanici vermi delle sabbie “Shai-Hulud”. I vermi sono una specie ambigua, il loro ciclo vitale produce ossigeno ma blocca l’umidità del pianeta nel sottosuolo e lo rendono una landa sterile: inoltre non sono originari di Arrakis ma sono una specie proveniente da una zona remota dell’universo. L’importanza del pianeta e l’ideazione della sua storia geologica però non sono solo elementi narrativi, e non si esauriscono in una critica ecologica. Dune va a toccare le radici collettive della spiritualità occidentale, che si vede gettata suo malgrado nel deserto inteso come dimensione dell’anima. Ecologia e religione si intrecciano.
Il deserto di Arrakis è lo stesso deserto in cui si operano le tre trasformazioni dello spirito (cammello, leone e bambino divino) nello Zarathustra di Nietzsche, in cui Jung si avventura nel Libro Rosso seguendo l’esempio dei Padri del Deserto, a cui vengono ricondotti René Daumal in Le Grand Jeu, W.B. Yeats nella Seconda Venuta, David Gascoyne e T.S. Eliot nella terra devastata. È un deserto metafisico che determina la nostra esistenza nel mondo, un orizzonte spirituale ereditato dal cristianesimo e dalla nascita delle prime civiltà umane, a cui ogni visionario è ricondotto per incamminarsi nel viaggio dell’eroe. Per Paul Shepard in Natura e follia, la cultura europea ha ereditato lo spirito del deserto dai culti solari e monoteisti provenienti dal Medioriente, filtrati dai greci, cristiani, persiani e dalle correnti gnostiche. L’Europa dal canto suo è una regione florida ricca di foreste, valli, pianure, terra di druidi, auguri, scaldi, perciò secondo Shepard, con la venuta del dio ebraico-cristiano si è instaurato in occidente un ascetismo dualista formatosi in seno al deserto, che ha astratto la comunità umana dal resto del mondo. La cultura occidentale ha cominciato così a soffrire una profonda scissione spirituale, dovendo adottare una concezione di Dio puramente astratta e un’idea della terra circoscritta all’immagine del giardino circondato dalle sabbie, perché rispondente a una geografia totalmente opposta a quella locale.
Herbert nella sua opera agisce simbolicamente con acume sciamanico. Quando su Arrakis si insedieranno gli indigeni Fremen, la loro religione, ricorda Paura, venererà i vermi giganti identificandoli con il Creatore. All’apparire di un verme sulla superficie, Liet-Kynes recita una preghiera in sua presenza,
«Benedetto sia il Creatore e la sua acqua. Benedetta la Sua venuta e la Sua partenza. Possa il Suo passaggio purificare il mondo. Possa Egli conservare il mondo per il Suo popolo».
Identificando il Creatore con i vermi, Dune critica il monoteismo alla radice e ne sposa alcuni presupposti gnostici: il dio unico è un dio estraneo al nostro tempo che ha portato il deserto con sé in una landa florida, che permette di vivere nel mondo solo a costo di sostituirsi ad esso, come un parassita. Lo si venera in quanto demiurgo ma la sua influenza spinge l’occidente a desertificare il mondo e ad accettarne l’inaridimento, come i vermi producono la sabbia del pianeta.
Herbert elabora un’idea di Dio spinoziana, riportando il divino sullo stesso piano del mondo, e la rende affine a quella di Jung, per cui il dio unico ritorna alla sua natura animale istintuale in Risposta a Giobbe. Invece di essere un padre celeste, Jung considera l’essenza primordiale e arcaica del dio ebraico-cristiano nella sua forma più inconscia di grande mostro archetipico quale il Leviatano o il Behemoth, che si trascina sulla terra o nelle profondità marine. I vermi delle sabbie sono un dio desertico, come quello che Stanislaw Lem cita in Solaris, «E come ti è venuta, questa idea di un Dio imperfetto? - chiese all'improvviso, senza staccare gli occhi dal deserto inondato di luce. - Non lo so, ma mi è sembrata molto, molto verosimile. È l'unico Dio in cui sarei disposto a credere: un Dio non condannato a redimere niente, che non salva niente, che non serve a niente e che semplicemente è». Un Dio puramente mistico e protoanimale, tuttuno con la corrente vitale e l’essere.
L’elemento centrale dell’universo di Herbert, la Spezia o melange, è una polvere dalle sfumature rosate e brune che viene prodotta solo dai vermi delle sabbie. Le proprietà della polvere sono uniche: crea dipendenza totale e una volta presa non si può interrompere l’assunzione, pena la morte. In cambio dona l’immortalità, migliaia di anni di vita e salute sovrumana, abilità psichiche amplificate, grande consapevolezza e trascendimento dello spazio e del tempo. Nelle proprietà della spezia Herbert secolarizza tutti i caratteri del risveglio o dell’illuminazione, unendola al contempo al mondo indigeno del femminino sacro. La sorellanza delle Bene Gesserit è l’ordine sacro più importante del romanzo, che attraverso la spezia risveglia la chiaroveggenza al di là di questo piano di realtà. Le streghe o accolite, come vengono chiamate, acquisiscono la memoria di tutte le precedenti antenate della loro ascendenza, e possono rievocarne la presenza attraverso l’eredità genetica. La spezia permette inoltre il viaggio interspaziale grazie alla preveggenza dei navigatori e alla loro capacità psichica di prevedere il futuro con cui piegano lo spaziotempo, anche se per questo sono costretti ad assumere dosi massicce della polvere, subendo una mutazione che li trasforma in ibridi chimerici simili ai vermi delle sabbie. L’esercizio della gnosi divina rende simili alla natura informe del divino.
La spezia può essere estratta solo su Arrakis, il pianeta è il centro attorno cui è organizzata la struttura politica ed economica dell’Impero galattico e delle gilde. Dal gusto di cannella, i Fremen la usano per farci bevande, cibarie, ma anche vesti e utensili. Nell’estrazione e monopolio della spezia, Herbert compie una critica feroce del colonialismo europeo e americano, mentre allo stesso tempo rivela la pochezza spirituale del potere occidentale, indicando che qualunque pretesa di dominio sulla cultura indigena porta il colonizzatore a fare i conti con l’assuefazione derivante dalla propria spiritualità perduta. «Non possiamo lasciare Arrakis, a meno che non portiamo una parte di Arrakis con noi».
In Dune Herbert offre una sacralità universale che parla alle religioni già esistenti. Alcuni suoi amici arabi considerarono il romanzo un commentario religioso, ed è spesso stato chiamato una fantafilosofia. L’elemento narrativo della spezia riprende il fervore psichedelico degli anni ’60. Pochi anni prima l’uscita di Dune, in Le porte della percezione Aldous Huxley aveva reso noti i suoi esperimenti con la mescalina, sostanza ricavata dal peyote. Ancora ventanni prima, nella danza del peyote a cui prese parte in Messico, Antonin Artaud trovava la «Visione Interna dell’Essere» presso il popolo Tarahumara, per cercare un’alternativa al predominio del progresso tecnico. La visione interna di Artaud è la stessa preveggenza e visione inconscia che compare nell’universo di Dune.
La spezia è il modo in cui Herbert critica la natura della tecnologia. La società di Dune si distingue nella fantascienza perché prevede un’emancipazione dal dominio tecnico. Diecimila anni prima delle vicende del romanzo, l’umanità venne schiavizzata dalle macchine, divenute così sofisticate da poter pensare al posto degli umani, finendo per governarli. Dopo la Grande Rivolta (o Jihad Butleriano) che scoppiò per tutto l’universo, ogni intelligenza artificiale e macchina così avanzati da essere in guisa di un cervello umano furono distrutte e proibite per sempre. Questo evento divenne un punto di svolta per lo sviluppo della civiltà, che da allora si concentrò sull’interiorità umana, le profondità inconsce, le sue abilità e capacità, piuttosto che su una società idealmente illuminista come in Star Trek.
I motori per il salto nell’iperspazio richiedono la preveggenza intuitiva della spezia, in alcuni casi i navigatori li sostituiscono del tutto. Herbert sposa lo stesso pensiero che oggi ritorna nel filosofo Federico Campagna in Magia e Tecnica. Nella nostra epoca dominata dal paradigma della Tecnica, tutta l’esistenza viene ridotta a entità astratte quantificabili e calcolabili dal sistema computazionale e dalla società dell’informazione. Come per gli umani schiavizzati di Dune, la Tecnica vede solo forza lavoro ed entità che servono a creare catene di effetti. Campagna, sulla riga di Heidegger e Jung, ma anche di Corbin, Jünger, Ibn Arabi e molti altri, circoscrive la portata della Tecnica e ne riduce la pretesa universale di essere l’unica visione del mondo possibile. Di contro, è preferibile tornare alla Magia, un’esistenza aperta alla natura indefinibile del reale. La Magia guarda all’essenza delle cose, cioè cosa esse siano di per sé, ed è un principio poietico, perciò non pretende di esaurire la realtà sotto parametri unici ma ne avvalora l’aspetto creativo e generativo. Invece di ordinare il reale in catene di cause ed effetti, il magico si apre alla sincronicità, al “come se” e all’origine inesauribile dell’esistenza. In Dune non esistono intelligenze artificiali e tecnologie escatologiche, con buona pace di gran parte della letteratura transumanista, da Nick Bostrom a Ray Kurzweil. La tecnologia più avanzata è dipendente dalla spezia quanto ogni umano.
Non sorprende che Herbert concepisca l’elemento centrale del suo impero galattico come una sostanza psichedelica. Anche se la spezia viene descritta come una droga, di fatto Herbert supera lo stigma occidentale e ne mostra l’essenza sacrale. Elémire Zolla dice che è solo la civiltà moderna a essersi posta il problema della droga come tale e ad aver adottato il concetto di sostanza stupefacente per esorcizzare la forza estatica presente nelle centinaia di piante ed erbe psicotrope. Per il mondo antico e le comunità indigene, la sostanza psichedelica è una divinità, un potente spirito o la materializzazione della presenza divina sotto forma di vita vegetale, da cui molti popoli traggono i riti d’iniziazione per i loro guaritori, chiaroveggenti e sciamani.
I riferimenti indigeni portano Herbert a introdurre nel suo mondo fantascientifico la ritualità iniziatica tribale dell’America latina, come nel caso del rito d’iniziazione a cui il giovane Paul Atreides viene sottoposto dalla Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam delle Bene Gesserit. Il rito consiste nel mettere la mano all’interno di una scatola di metallo mentre la Madre preme un piccolo ago intriso di veleno mortale contro il collo di Paul. Se il giovane dovesse rimuovere la mano, la Reverenda lo pungerebbe, uccidendolo all’istante. La scatola è vuota, ma appena Paul inserisce la mano, la Reverenda usa la sua energia psichica per provocargli un insopportabile dolore che gli scarnifica la pelle e brucia la carne fino alle ossa. La prova è superata solo se il giovane non ritrae la mano finché la Madre non esaurisce le forze, dimostrando di avere una tempra adatta a dominarsi.
Il popolo Mawè del Brasile presenta lo stesso tipo di rito per iniziare i suoi giovani guerrieri. Nel momento di diventare adulti, i Mawè raccolgono diverse formiche proiettile, il cui veleno è uno dei più dolorosi del mondo animale. La puntura provoca dolore acuto e lancinante per un giorno intero, uguale a quello provocato da una ferita di proiettile. Per il rito, diverse formiche vengono addormentate e intrecciate in un grosso guanto di foglie con il pungiglione rivolto all’interno. Una volta sveglie, il giovane dovrà tenere la mano infilata nel guanto per cinque minuti, sopportando le punture fino a ritrovarsi con il braccio completamente paralizzato dal dolore, in preda a spasmi violenti che dureranno per giorni. L’affinità tra i due riti è evidente. In questo Herbert si dimostra lungimirante, riconoscendo l’importanza del rito di passaggio in una civiltà avanzata, in accordo con Arnold van Gennep per cui il rito costituisce un fondamento universale nella crescita dei membri sociali.
Il ruolo della spezia e i suoi legami con la psichedelia non sfuggirono ad Alejandro Jodorowsky quando decise di adattare Dune allo schermo, «volevo fare un film che avrebbe dato alla gente, che all’epoca faceva uso di LSD, le allucinazioni che si hanno con quella droga, ma senza allucinogeni. Non volevo che venisse usata l’LSD, volevo produrre gli effetti della droga. Questo film avrebbe dovuto cambiare le percezioni del pubblico». Dune si affratella a pietre miliari della fantascienza come Cristalli sognanti di Theodore Sturgeon e il Ciclo della Fondazione di Isaac Asimov, senza le quali non esisterebbero saghe come quella di Herbert. Non a caso, assieme al film di Villeneuve è stata annunciata l’uscita della prima serie cinematografica mai realizzata delle Fondazioni. Dune ha permeato la visione di George Lucas e Steven Spielberg, senza Herbert non esisterebbero il deserto di Tatooine, Alien, Matrix o Blade Runner. Jodorowsky ne fu folgorato e provò nel 1975 a creare una prima versione cinematografica del romanzo, da lui osannato come «la Bibbia della fantascienza». Nacque un progetto ambizioso condiviso tra i più grandi artisti, sceneggiatori e disegnatori del tempo. Furono coinvolti Salvador Dalí nel ruolo dell’imperatore, i Pink Floyd per la soundtrack, Mick Jagger e Orson Welles.
Nel documentario Jodorowsky’s Dune, «volevo creare un profeta per cambiare le menti dei giovani di tutto il mondo. Per me Dune sarebbe stato l’arrivo di un Dio. Un dio artistico e cinematografico». L’intero film doveva essere un viaggio sciamanico, il set cinematografico un rito d’iniziazione al pari dei teatri dionisiaci, chi avrebbe contribuito al progetto sarebbe assurto al rango di guerriero spirituale. Il giovane Paul Atreides avrebbe dovuto essere impersonato dal figlio allora dodicenne Brontis Jodorowsky, che spese due anni di intenso allenamento per la parte. Per lavorare allo storyboard Jodorowsky chiamò H.R. Giger, famoso per l’horror biomeccanico, e Chris Foss, per il design delle astronavi. Infine incontrò Jean Giraud “Moebius”, cominciando la prima di una lunga serie di collaborazioni fumettistiche leggendarie, dopo averne letto il Blueberry e comprendendone subito la prospettiva visionaria.
Adriano Ercolani ha ripreso magistralmente l’affinità elettiva tra i due. Entrambi erano mossi dalla stessa tensione e si incontrarono avendo già risvegliato l’esperienza del Doppio, sentivano la forza vulcanica della creazione di una “eterna ghirlanda brillante” muoversi tra «la precisione geometrica di Moebius e i deliri psicomagici di Jodorowsky». Moebius realizzò 3000 disegni e tavole di storyboard per immaginare tutta la lunghezza del film, ma la forza veggente di Dune spinse Moebius a dare vita alle immagini in modo originale. Iniziò disegnando una lunga panoramica di tutto l’universo e concluse con Paul Atreides messianicamente ucciso e trasformato in un pianeta senziente che diffonde le sue vibrazioni per tutta la galassia. Nonostante una metodica preparazione, il progetto si fermò per via dei costi elevati e dell’intenzione di Jodorowsky di voler girare dieci o dodici ore di film senza compromessi, mentre Hollywood chiese una durata di due ore. Quando il film fu cancellato, i disegni di Moebius divennero una fucina condivisa da cui attinsero gli altri film di fantascienza in programmazione, come Star Wars, Terminator, Il quinto elemento e Flash Gordon. Nelle opere successive dei due visionari, tra cui L’Incal, si riversò tutto il materiale e la scintilla creativa che non trovò corpo in Dune. Dice Ercolani «L’Incal è probabilmente (grazie non solo al genio di Moebius ma anche alle virtù intrinseche del medium-fumetto come “arte invisibile” illustrate da Scott McCloud) quello che Dune non sarebbe mai potuto diventare: enciclopedia postmoderna, trattato filosofico, parodia e superamento dei generi, suprema visione distopica, grandioso affresco iniziatico, riflessione sociologica, romanzo picaresco…il tutto immerso in un magma esoterico ribollente, col risultato di divenire intrattenimento adrenalinico allo stato puro».
David Lynch ereditò le redini dell’impresa nel 1984, dopo che Dino De Laurentis acquisì i diritti per il film. Il risultato cinematografico differisce dalla visione di Jodorowsky, anche se alcune scelte stilistiche traggono spunto dalle tavole di Moebius. Lynch acconsentì al progetto a patto di dividere il film in due parti, ma ancora una volta lo studio decise per un unico film di due ore. Il resto è storia: Lynch girò cinque ore di film, ma lo studio ne tagliò diverse parti per rientrare poco oltre le due ore, togliendo al regista l’ultima parola e portandolo a disconoscere il film dalla sua carriera, al punto da chiedere di rimuovere il suo nome dai titoli di coda. La critica inoltre attaccò il film per le scelte dei costumi e soprattutto i lunghi monologhi interiori. Jodorowsky pure non fu clemente nel suo giudizio.
Il film di Villeneuve, al di là dello straordinario risultato estetico, non ha la stessa ritualità che Jodorowsky aveva concepito per il suo capolavoro, e non bisogna aspettarsi che questa versione possa riscattare l’opera di Lynch. In merito a questo nuovo adattamento, lo stesso ha dichiarato che non ha nessun interesse in Dune, la ferita del vecchio film è ancora aperta. Jodorowsky ha giudicato il trailer affermando la sua convinzione nell’impossibilità di una trasposizione cinematografica degna dell’opera originale: la regia, l’estetica, la recitazione sono troppo hollywoodiani e stereotipati. Perciò la vera importanza di Villeneuve non risiede nel film in sé, ma nel voler immaginare il futuro attraverso la saga stessa, nel ritornare a Dune all’apice del collasso ecologico e senso di sconforto che sta vivendo la civiltà occidentale.
Dune
Arrakis è il pianeta più inospitale della galassia. Una landa di sabbia e rocce popolata da mostri striscianti e sferzata da tempeste devastanti. Ma sulla sua superficie cresce il melange, la sostanza che dà agli uomini la facoltà di aprire i propri orizzonti mentali, conoscere il futuro, acquisire le capacità per manovrare le immense astronavi che garantiscono gli scambi tra i mondi e la sopravvivenza stessa dell’Impero.
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