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La pandemia, la scuola e la lezione di Ivan Illich

Di Francesco D'Isa • dicembre 16, 2020

So che per scrivere di qualcuno è necessario conoscerlo bene, eppure quando mi è stato proposto di parlare di Ivan Illich ho detto: «Perché volete un articolo su Tolstoj?». La risposta è stata: «Ivan Illich, non Ilich, con due elle, ma come, non lo conosci?».

So anche che nelle righe precedenti non faccio una gran figura, ma voglio mettere in chiaro che quel che segue non è il parere di uno studioso, ma l’approccio sbigottito di un neofita, che ha letto da poco una manciata di libri di e su questo autore. La prima impressione che ho ricevuto nel leggere l’opera di questo prete, sociologo e filosofo a dir poco inusuale (più che altro come prete, a un’analisi superficiale) è che ha tutto il necessario per diventare l’idolo o la nemesi di chiunque: le sue posizioni sono così radicali che non è difficile fraintenderle, ribaltarle o reinterpretarle nel loro opposto – quale che sia, a destra o sinistra.

Come dicevo, come prete sembra piuttosto fuor dal comune, considerata la sua opinione sul celibato obbligatorio per il clero («è altrettanto personale e incomunicabile quanto lo è la decisione di un altro di preferire il suo partner a tutti gli altri»), le sue posizioni antinataliste in relazione alla sovrappopolazione mondiale («siamo obbligati, in quanto cristiani, a limitare l’autoriproduzione»), la volontà di rendere legale l’aborto nei paesi poveri dell’America latina, dove era missionario, e la sua posizione contraria all’accanimento terapeutico.

Chi lo ha conosciuto, come l’antropologo Franco La Cecla (Ivan Illich e l’arte di vivere) ne restituisce il ritratto di un uomo estremo e carismatico – cosa che ho capito non appena ho letto un suo discorso tenuto presso un’associazione benefica cristiana (“Yankee go home”, in Celebrare la consapevolezza). Illich, davanti a una platea di giovani attivisti cattolici americani, esordisce con parole come: «Sono rimasto colpito dall’ipocrisia della maggior parte di voi: dall’ipocrisia dell’atmosfera prevalente qui dentro», e conclude più avanti:

«Se insistete nel lavoro coi poveri, se è questa la vostra vocazione, fatelo almeno con poveri che possano mandarvi al diavolo! È incredibilmente scorretto che imponiate la vostra presenza in un villaggio in cui siete linguisticamente sordi e muti al punto da non capire neppure cosa state facendo o cosa la gente pensi di voi».

Va detto: è un adorabile punk. Illich è iconoclasta persino quando parla del simbolo cristiano per eccellenza, la croce, quando sostiene che a rappresentare al meglio il carattere paradossale della fede «è un graffito del II secolo, del quartiere a luci rosse di Roma: un corpo umano con testa di asino. Rappresentazione del paradosso, dell’assurdo. E sotto, questa iscrizione: “(tizio) saluta il suo Dio”. Non mi importa se l’intenzione dell’autore fosse blasfema; corrisponde alla realtà del mistero: il regno si compie senza realizzazione utopica e si realizzerà senza essere apocalittico». Un prete simile non poteva che attirare le ire del Vaticano e in effetti Illich arrivò a un pelo dalla scomunica. Ciononostante, se si legge con attenzione le sue tesi più note e i testi sul misticismo, si scopre un Illich molto radicato nella tradizione del suo culto – da cui la simpatia che desta anche in alcuni conservatori.

Già durante la Guerra fredda, Illich è fortemente contrario alle società tecnocratiche improntate su progresso e consumo illimitato, sia di stampo capitalista che comunista. In merito è lapidario:

«Nei tardi anni Sessanta, l’impossibilità dell’uomo di sopravvivere alla sua industria si è di colpo imposta all’attenzione di tutti. In quel momento è diventato evidente che meno del dieci per cento della razza umana consuma più del cinquanta per cento delle risorse mondiali e produce il novanta per cento dell’inquinamento ambientale che minaccia di estinguere la biosfera».

I fatti, a distanza di cinquanta anni, non possono che dargli ragione. A suo parere – e in contemporanea con Foucault – le istituzioni totali come scuola e ospedale non fanno che perpetuare questo stato di cose. È una tesi così inusitata che voglio riferirla con le sue stesse parole, peraltro chiarissime. In Descolarizzare la società scrive che:

«Ovviamente, dare a tutti eguali possibilità d’istruzione è un obiettivo auspicabile e raggiungibile, ma identificare questo obiettivo con la scolarizzazione obbligatoria è come confondere la salvezza eterna con la Chiesa. La scuola è divenuta la religione universale di un proletariato modernizzato e fa vuote promesse di salvezza ai poveri dell’era tecnologica. Lo stato nazionale ha fatto propria questa religione arruolando tutti i cittadini in un programma scolastico “graduato” che porta a una successione di diplomi e che ricorda i rituali iniziatici e le ordinazioni sacerdotali dei tempi passati. Lo stato moderno si è assunto il compito di far rispettare le decisioni dei suoi educatori per mezzo di volonterosi funzionari addetti alla lotta contro l’evasione dall’obbligo scolastico e mediante i titoli di studio richiesti per ottenere un impiego, un po’ come i re spagnoli facevano rispettare le decisioni dei loro teologi servendosi dei conquistadores e dell’Inquisizione».

E ancora:

«Il curriculum è sempre servito ad assegnare il rango sociale. In certi casi era prenatale: il karma ti ascrive a una casta, il lignaggio all’aristocrazia. […] L’istruzione universale avrebbe dovuto separare l’assegnazione del ruolo dalla storia personale; il suo scopo era di dare a ognuno eguali possibilità di accedere a qualsiasi mansione. Ancora adesso molti credono erroneamente che la pubblica fiducia poggi sui titoli di studio di cui la scuola si fa garante. Ma invece di dare a tutti le stesse opportunità, il sistema scolastico ne ha semplicemente monopolizzato la distribuzione».

La soluzione per sfuggire da una falsa meritocrazia asservita al mantenimento delle differenze sociali consiste, ad esempio, nello scindere la competenza dal curriculum, facendo sì che «le informazioni sul passato scolastico delle persone diventino tabù, come quelle concernenti affiliazione politica, fede religiosa, famiglia, preferenze sessuali o razza. Bisogna emanare leggi che vietino la discriminazione basata sui titoli di studio». O ancora: «l’abolizione dell’obbligo scolastico, abolizione delle discriminazioni sul mercato del lavoro a favore di quanti abbiano acquisito istruzione a costi più alti, introduzione del credito educativo». È una critica feroce e forse eccessiva, ma non infondata, soprattutto se consideriamo che la ricchezza si tramanda prevalentemente su base ereditaria.

Sulla sanità pubblica la critica è analoga, ma a mio parere meno efficace. È un tema di ovvia attualità, tanto che la pandemia di Covid-19 ha generato una ripresa diretta o indiretta delle idee di Illich – penso ad esempio a Giorgio Agamben, suo attento lettore e recentemente criticato per le idee controverse sulle misure emergenziali attuate per limitare la diffusione del virus. Un altro pensatore critico nei confronti della gestione della pandemia, lo scrittore canadese David Cayley, ha recentemente ripreso Illich. Nel suo articolo, tradotto per L’Intellettuale dissidente, Cayley scrive che:

«All’inizio del suo studio La Convivialità (1973), Illich aveva descritto quello che riteneva essere il tipico percorso di sviluppo seguito dalle istituzioni contemporanee, usando l’istituzione medica come esempio. La medicina, disse, aveva attraversato “due spartiacque”. Il primo era stato attraversato nei primi anni del XX secolo, quando le cure mediche erano diventate sperimentalmente efficaci ed i benefici avevano generalmente iniziato a superare i danni. Per molti storici della medicina questo è l’unico vero punto di svolta – da qui in poi si ritiene che il progresso continuerà indefinitamente e, sebbene possano esserci rendimenti decrescenti, in linea di principio esso non si fermerà più. Illich però, non era di quest’avviso. Egli ipotizzò un secondo spartiacque, che riteneva essere già stato attraversato e addirittura superato nel periodo in cui scriveva. Oltre questo secondo spartiacque, pensava, sarebbe iniziata ciò che lui chiamava controproduttività: l’intervento medico avrebbe infatti iniziato a contraddire i propri obiettivi, finendo per generare nel complesso più danni che benefici. Questo, sosteneva Illich, era caratteristico di qualsiasi istituzione, bene o servizio – si poteva individuare un punto limite in cui ce ne sarebbe stato abbastanza, e oltre il quale ce ne sarebbe stato troppo. La Convivialità fu quindi un tentativo di identificare queste “scale naturali” – l’unica ricerca davvero generale e programmatica per una filosofia della tecnologia che Illich intraprese».

Questa tesi all’apparenza condivisibile si presta a interpretazioni contrastanti: quand’è, infatti, che la sanità diventa controproduttiva? Cayley arriva alla conclusione che lo è già nell’attuale pandemia, ma a suo favore sembra portare solo il fatto che non sappiamo di quanto avremmo aumentato il bilancio di morti e dolore senza l’applicazione delle misure emergenziali. È vero, non lo sappiamo con certezza, ma possiamo fare una supposizione molto affidabile basandoci su alcune statistiche – ma i numeri sono il punto debole di Illich e i suoi sodali, più vicini alla paradossale certezza della fede che alla matematica. Sempre Cayley scrive che:

«Quando intervenire su un costrutto puramente immaginario e matematico come una curva di rischio diventa l’oggetto principale delle politiche pubbliche, è certo che la società del rischio ha fatto un grande balzo in avanti. […] nel discorso della pandemia, tutti sembrano relazionarsi familiarmente con i fantasmi scientifici quasi fossero reali come rocce e alberi».

In questa affermazione si trova lo stesso errore alla radice del negazionismo – pandemico come climatico – ovvero l’idea che i modelli matematici siano un’astrazione priva di valore concreto. Lo scetticismo, sebbene necessario a chiunque faccia della buona scienza, non è un interruttore acceso/spento con cui valutare le teorie. Qualunque ipotesi – così come ogni previsione – è per sua definizione incerta, ma la statistica ci aiuta a valutarne l’efficacia. Finché non lo faccio, non posso essere assolutamente certo che se mi getto dal centesimo piano di un palazzo morirò, ma i dati in mio possesso mi portano a prevederlo con una buona sicurezza e un negazionismo basato sulla remota (ma esistente) possibilità che questo non accada mi sembrerebbe folle. Allo stesso modo, i “fantasmi scientifici” che per Cayley sono meno concreti di rocce e alberi fanno volare dei concretissimi aeroplani, tra le altre cose. Nulla è certo, ma qualcosa lo è più di altro – e tra questo anche il fatto che il Covid-19 avrebbe causato più morti senza attuare delle misure di contenimento. Sulla qualità ed efficacia delle misure invece, così come sulla valutazione di vantaggi e svantaggi delle stesse, il dibattito è molto più aperto. Non so cosa penserebbe Illich dell’attuale pandemia, ma la posizione dello scrittore canadese mi sembra trascurare un aspetto molto importante del filosofo: il suo cristianesimo.

Come scrive La Cecla, per Illich:

«Il bisogno di diagnosi [mediche] poteva rivelare solo l’accrescersi di una dipendenza dai professionisti della salute e la perdita di una cultura e un’arte della salute (medicina popolare e tradizionale, ma anche capacità di interpretare e vivere il dolore e la malattia secondo categorie significative non medicalizzate), così l’incremento dell’afflusso alla scuola dell’obbligo poteva significare solo l’accesso a un sistema di classificazione ed esclusione».

Particolarmente significativi in merito sono i dialoghi che Illich ebbe con il filosofo indiano Krishnamurti (sempre in La Cecla): «per Krishnamurti nell’amore non c’è sofferenza, per Illich invece la sofferenza fa parte della natura umana. Quando Krishnamurti aveva chiesto a Ivan: “Per quale motivo l’uomo dovrebbe soffrire spiritualmente?”, la sua risposta era stata: “Perché Dio ha accettato di soffrire e i suoi figli devono prendere su se stessi la sofferenza”. All’insistenza dell’indiano, Illich concludeva dicendo: “La sofferenza è il destino dell’uomo”. A Krishnamurti non rimaneva che dire: “Ah, è così”».

Illich aderisce a una morale per cui la sofferenza è il destino dell’uomo, tanto che quando negli ultimi anni della sua vita fu colpito da un tumore sul volto decise di curarlo, senza successo, con metodi tradizionali. Per la medicina ufficiale (che comunque consultò) la rimozione del tumore avrebbe implicato la perdita della facoltà di parlare, dunque il filosofo decise di convivere con la malattia, da lui definita “la mia mortalità”. Le sue scelte sono senza dubbio rispettabili, ma, e qui sta il punto, lo sono altrettanto delle decisioni diverse e opposte. Anche io, come Illich, sono convinto che chiunque debba avere la libertà di decidere sulla propria mortalità e che la società contemporanea tenda a censurare la morte. Concordo anche sul fatto che, in certi casi, la medicalizzazione porti più danni che benefici. A differenza di Illich però, non sono cristiano e non posso ignorare come la sua proposta porti con sé il rapporto col dolore tipico del cristianesimo. «La sofferenza è il destino dell’uomo» disse Illich al mistico indiano, che non poté che prendere atto della posizione del prete. Ma davanti alla malattia (e dunque alla pandemia), lo sguardo di chi non crede che l’uomo debba soffrire è ben diverso.

Quanto detto non nega il valore della libertà individuale e collettiva né tantomeno l’importanza di limitare i danni ai lavoratori, specie più poveri, ma sottolinea la difficoltà che abbiamo nell’attribuire un peso a questi fattori. Durante una pandemia come quella da Covid-19, infatti, il peso sull’altro piatto della bilancia non è gravoso in termini utilitaristici, ma etici. Quanto dolore altrui siamo disposti a tollerare per evitare i danni di cui sopra? Dico “altrui” solo perché in pochi non vorrebbero essere curati per salvare l’economia del paese o la libertà di movimento in una limitata finestra temporale.

In un mondo notoriamente sovrappopolato in relazione alle sue risorse, un giudizio meramente utilitaristico non può che festeggiare una diminuzione della popolazione, dunque di cosa ci lamentiamo? Bé, della sofferenza. Anche se mettiamo tra parentesi il fatto che il dolore possa capitare pure a noi, i numeri di quelle curve non sono “fantasmi”, ma la concreta sofferenza di chi è ospedalizzato, malato, danneggiato, morto o in lutto.

Se accetto un codice etico in cui il dolore non ha peso o è inevitabile, allora sarò d’accordo con Illich: le cure mediche su scala globale sono uno spreco di risorse. In questo caso, anche la lettura di Agamben è corretta, perché non abbiamo alcun motivo di accettare una limitazione alle nostre libertà. Ma se non aderiamo alla morale del sacrificio né ci ostiniamo contro l’evidenza che, sebbene in misure non del tutto chiare e migliorabili, le restrizioni alla libertà diminuiscono il diffondersi del virus, non possiamo ignorare il peso dei numeri. Questa critica illichiana suona ancora più stonata se chi la assume non sposa la sua base religiosa, perché fatica a sollevarsi da un’analisi della malattia come fenomeno esclusivamente sociale; una tesi a dir poco parziale, che sprofonda in controsensi insostenibili appena si scopre che non è possibile collettivizzare le conoscenze di un cardiochirurgo o che esistono eventi che trascendono l’operato umano. Chi rifiuta il sapere medico-scientifico deve avere il coraggio di farlo anzitutto sulla propria pelle e di accettare che «la sofferenza è il destino dell’uomo». Chi invece lo accetta, al netto delle sue intrinseche fallibilità e contraddizioni, si trova ad affrontare un dilemma etico che possiamo sintetizzare con la formula: «Quando dolore altrui siamo disposti a tollerare per non soffrirne una quantità minore?».

Da questa formula vanno subito esclusi mistici e sante, o, per dirla con Simone Weil, chi crede che «se l’universo è per la mia anima come un altro corpo, la mia morte cessa d’avere per me più importanza di quella di uno sconosciuto, così pure le mie sofferenze». La maggior parte di noi non avrà la forza di accollarsi il dolore altrui a prezzo del proprio, ma quanto di questo dolore possiamo tollerare per evitare un minor danno a noi stessi?

Se fosse possibile dare un valore numerico da 1 a 10 alla sofferenza, diciamo che possiamo tollerare che gli altri soffrano 10 per non soffrire a nostra volta 5? O 7, 8, 3, 1? Questa formula si pone in molte situazioni, dall’acquisto di una pelliccia (nei termini del dolore dei visoni contro il nostro di optare per altri capi d’abbigliamento), il mangiare un hamburger (dolore dei vitelli contro la nostra gola), un tradimento coniugale (piacere ricevuto contro dolore imposto) o una pandemia (libertà personale o danno economico contro il dolore di chi si ammala). Come tutte le semplificazioni taglia fuori delle variabili importanti, una su tutte il fatto che la valutazione del dolore (e del piacere) è sempre soggettiva – sebbene entro certi limiti sia abbastanza ragionevole. Per tornare su uno degli esempi fatti, credo sia lecito sostenere che il dolore di non avere una pelliccia non vale la sofferenza e la morte dei visoni costretti a vivere in un allevamento intensivo. Per riprendere ancora Weil:

«Tutte le relazioni umane che contengono l’infinito sono ingiuste. Ora, sebbene tutto ciò che si riferisce all’uomo sia finito e misurabile, tuttavia, a partire da un certo grado, l’infinito entra in gioco [es. se tutto il nutrimento di due uomini è per uno di 500 g di pane al giorno, per l’altro di 550 g., la differenza è finita; se per uno è di 100 g, per l’altro di 3 kg, la differenza è infinita, perché ciò che per uno è tutto per l’altro è trascurabile]».

Mi sono un po’ allontanato da Illich ma lo ritrovo in queste parole, perché anche lui combatteva contro la tendenza a un infinito che non fosse spirituale. Il suo consiglio, infatti, era: «autolimitazione volontaria e comunitaria, ricerca di limiti massimi nella produzione istituzionale così come nel consumo di merci e servizi, secondo i bisogni che si considerano, all’interno di tale comunità, soddisfacenti per ciascun individuo». È curioso che un pensatore così estremo consigliasse in fondo di non esagerare – ma l’aurea mediocritas è forse la più estrema delle condotte, se si considera quanto sia impopolare. Come scrive lo psicologo Erich Fromm nell’introduzione delle opere complete di Illich, «de omnibus dubitandum: ogni cosa merita di esser messa in dubbio, in particolar modo quelle concezioni ideologiche che sono condivise praticamente da tutti, e sono perciò assurte al rango di assiomi indubitabili del senso comune». Penso dunque che a Illich non sarebbe dispiaciuto il partecipe scetticismo con cui ho accolto anche le sue idee.

Elogio della bicicletta di Ivan Illich

Una appassionante e convincente apologia della bicicletta: della sua bellezza e saggezza, della sua alternativa energetica alla crescente carenza di energia e al soffocante inquinamento. Illich nota acutamente che la bicicletta e il veicolo a motore sono stati inventati dalla stessa generazione. Ma sono i simboli di due opposti modi di usare il progresso moderno.

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Inizia con questo volume la pubblicazione della prima edizione mondiale delle Opere Complete di Ivan Illich, un autore la cui attualità e il cui significato, al di là della sua prima, clamorosa ricezione negli anni Settanta del Novecento, forse solo oggi sono diventate pienamente visibili.

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Descolarizzare la società di Ivan Illich

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Francesco D’Isa (Firenze, 1980), di formazione filosofo e artista visivo, dopo l’esordio con I.(Nottetempo, 2011), ha pubblicato romanzi come Anna (effequ 2014), Ultimo piano (Imprimatur 2015), La Stanza di Therese (Tunué, 2017) e saggi per Hoepli e Newton Compton. Direttore editoriale dell’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste.

Di Francesco D'Isa abbiamo pubblicato:

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