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Una quasi pacifica chiacchierata su 'Radical Choc'

Di Francesco D'Isa, Gianluca Didino, Raffaele A. Ventura • settembre 29, 2020

In quello che è forse il suo miglior libro Raffaele Alberto Ventura porta a compimento la sua tesi/ossessione sulla “classe disagiata”, ampliando la sua analisi e riproponendola come “classe competente”. Nel libro ci sono tutti i tipici ingredienti venturiani: una scrittura chiara ed elegante, dei riferimenti a pensatori celebri di schieramenti politici avversi, omaggi a intellettuali dimenticati o poco noti, paralleli con la cultura pop – a mancare è un solo elemento, il gusto di triggerare determinati ambienti politici. O almeno credo, perché sebbene non condivida spesso le idee dell’autore, non ho una posizione da difendere ed è difficile stuzzicarmi in merito. Quella che doveva essere «una guerra di tutti», per dirla con l’autore, rischia dunque di diventare una pacifica chiacchierata. Confido nell’aiuto di Gianluca Didino, scrittore e giornalista culturale, ma a dire il vero anche lui mi sembra poco manesco, dunque staremo a vedere – nella speranza di interessare chi legge anche senza vistosi spargimenti di sangue. Prima di parlare con l’autore comunque, un breve riassunto dell’opera.

Ventura individua una classe di competenti – un mix di burocrati, intellettuali e politici su cui verterà la mia domanda più critica – che nella storia della modernità (per lo più occidentale, aggiungerei) ha vissuto un’ascesa altalenante e che è ora destinata a una catastrofica caduta. Per citare l’autore, «La tesi sull’ascesa e la caduta dei competenti si articola principalmente attorno a tre concetti. Il primo è quello di produzione della sicurezza, che definisce la vocazione fondamentale del progetto moderno nel duplice senso di riduzione del rischio attraverso l’intervento tecnico-normativo e di riduzione dell’incertezza attraverso il sapere scientifico. Il secondo concetto è quello di rendimenti decrescenti della competenza, che evoca la tendenza della sfera di produzione della sicurezza a espandersi al di là della sua capacità di ottenere risultati all’altezza degli investimenti collettivi, producendo cosí uno stiramento. Il terzo concetto è quello di disrupzione della ragione, che caratterizza la reazione, «populista» fin dai tempi di Erasmo e di Rabelais, allo stiramento del paradigma di produzione della sicurezza».

Vi propongo ora un patchwork riassuntivo tratto dal testo, dato che come dicevo prima Ventura scrive bene e quando vuole è molto sintetico; aggiungerò solo qualche aggiuntina tra parentesi quadre:

«La nascita dello Stato moderno tra il Cinquecento e il Seicento inaugurava una lunga fase nella quale l’espansione crescente dei poteri pubblici – incaricati appunto di produrre sicurezza – andava di pari passo con lo sviluppo economico, la prima propiziando il secondo e il secondo finanziando la prima. Questo circolo virtuoso richiedeva inoltre crescenti investimenti nella competenza, cioè nel capitale culturale e nella specializzazione professionale degli individui: la sicurezza moderna non consiste soltanto nell’essere al sicuro dai pericoli, ma nell’essere sicuri, nell’essere in grado di capire il funzionamento della natura e di prevedere il corso degli eventi [...] Il successo di questa dinamica ha permesso di legittimare la classe dei competenti presso un’ampia massa che fornisce forza-lavoro in cambio di una quota minoritaria della ricchezza generata; seguendo tale logica, il Novecento ha portato a un’estensione senza precedenti di questa classe di «produttori di sicurezza» composta da intellettuali, manager, scienziati, professori, knowledge workers. [...] Tuttavia il ciclo sicurezza-sviluppo contiene fin dal principio le ragioni del suo cedimento: la dinamica della produzione di sicurezza risponde alla legge dei rendimenti decrescenti, in quanto ogni ulteriore investimento in competenza contribuisce in maniera sempre piú marginale al benessere collettivo. [Inoltre] Di fronte all’esplosione di nuovi rischi – ecologici, epidemici, finanziari, sociali, tecnologici –, la classe competente fatica a onorare l’antica promessa di sicurezza sulla quale aveva fondato la propria legittimità [...] Costretto all’espansione dalla sua dinamica interna, il paradigma entra ben presto in una fase di stiramento, nella quale gli investimenti vengono ripagati sempre meno: questo squilibrio apre una crisi di legittimità che rimette in discussione lo scambio ineguale tra competenza e forza-lavoro [...] A questo punto, la sottoclasse «disagiata» degli esclusi dal processo di riproduzione dell’élite competente può decidere di associarsi ad altre classi per tentare di rovesciare il paradigma dominante e imporne un altro – che potrebbe mostrarsi a medio-lungo termine piú efficace. [Morale:] Il Novecento è stato, in questo senso, la grande pattumiera in cui è stata occultata la crisi dell’imperialismo occidentale [che ora è fottuto].

Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti di Raffaele Alberto Ventura

Affidando le nostre vite agli esperti, ne siamo anche diventati dipendenti. È una storia lunga, la storia di come l'umanità ha ridotto l'incertezza del mondo delegandone la comprensione e l'amministrazione a un'élite di individui considerati «migliori». Il Novecento ha segnato il trionfo di questi operatori specializzati, mostrando la loro eccezionale capacità di assicurare decenni di sicurezza e sviluppo, finché qualcosa si è inceppato.

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[Francesco D'Isa] La mia prima domanda è se ho montato un buon riassunto e se ho indovinato sulla questione “trigger warning”. Credi che questo tuo nuovo libro faccia arrabbiare più o meno dei precedenti?

[Raffaele Alberto Ventura] Innanzitutto devo insistere sul fatto che i tre libri sono tra loro coerenti, nel senso che non ho modificato né emendato le tesi che già si trovavano in Teoria della classe disagiata, ma soltanto completato il quadro generale di quello che intende essere un esame della logica culturale della crisi che stiamo vivendo. Quindi se c’è qualcosa che ha fatto “arrabbiare” qualcuno, non è assolutamente scomparso, e pretendo che il lettore sia ancora arrabbiato. Io resto convinto che la costruzione artificiale di bisogni simbolici sia una fonte di malessere e che la dinamica di espansione della domanda su cui si fonda il capitalismo sia insostenibile. Tuttavia se tu ravvisi una differenza ne sono comunque felice, perché evidentemente sono riuscito a dire più chiaramente quello che volevo dire, evitando di far arrabbiare te ed altri. Per questo ho scritto che quest’ultimo libro va considerato come il primo volume della trilogia: qui ho preso il tempo di contestualizzare (e approfondire io stesso) una serie di dibattiti interni alla sociologia o alla storia del marxismo che sono ignoti a molti lettori. Ma chiaramente è cambiato il tono perché è cambiata la mia posizione. Teoria era un libro che metteva su carta il malessere di un trentenne con aspirazioni intellettuali che si era trovato prigioniero del mondo del lavoro impiegatizio, mentre Radical choc è un vero lavoro di ricerca che ho potuto finanziare coi soldi spremuti da quel disagio, regalandomi una parentesi biografica in cui ho giocato per oltre un anno a “fare l’intellettuale”. Mi sono divertito, questa è la verità. Non so se mi ricapiterà, perché quei soldi li ho finiti.

[Francesco D'Isa] Condivido varie parti della tua analisi, ma c’è qualcosa che non mi torna nella tua definizione di “classe competente”. Dentro ci rientrano persone come un intellettuale che guadagna mille euro al mese e scrive su testate culturali online e offline, professoresse universitarie, ricercatori precari, manager di grandi aziende, importanti personalità della politica e così via. A mio parere tra i partecipanti delle tue élite c’è una forte sproporzione di potere. Certo, un’intellettuale squattrinata di oggi può in parte influenzare il proprietario di una multinazionale di domani, ma quest’ultimo ha un potere sociale incomparabile rispetto a lei. Per farla breve, credo che sopravvaluti il potere politico degli intellettuali (intesi come esponenti della scienza, dell’arte e delle lettere), rispetto al più prosaico desiderio di mantenere i privilegi delle classi dominanti. Ad esempio, tu scrivi che: «Oggi difficilmente consideriamo un quadro di medio livello come un rappresentate dell’élite in senso stretto, e di certo il suo stile di vita è assai diverso da quello di un grande borghese; eppure vi appartiene in senso piú ampio per tre ragioni [...] La prima è che la sua condizione, per quanto banale se confrontata con quella dei suoi connazionali, appare privilegiata sulla scala delle ineguaglianze globali: l’impiegato occidentale appartiene a un’élite internazionale sempre piú distante dalla sfera della produzione. Ovvero, secondo la definizione che ne abbiamo dato poco sopra, una minoranza di persone che drena la maggior parte delle risorse della società mondiale». Conosco intellettuali che drenano molte meno risorse di un idraulico o di un contadino. Inoltre non mi è chiaro chi NON appartiene alla classe competente, in un mondo iper-specializzato anche nelle sue catene più basse.

[Raffaele Alberto Ventura] Dici bene, infatti al termine della lunga carrellata delle teorie che definiscono, in vario modo e con vari nomi, la famosa “terza classe” che nel Novecento ha messo in crisi la dicotomia marxista tra produttori e consumatori, concludo che il capitalismo è un sistema che tende a renderci tutti quanti “competenti”, perché presto o tardi ogni lavoratore del “centro” dovrà passare attraverso il filtro dell’istruzione: questa è in fondo nella sua essenza la teoria della modernizzazione alla quale si rifanno gli economisti da oltre mezzo secolo. Ma dietro questo velo ideologico noi sappiamo che non è vero, nel senso che fino ad oggi il capitalismo ha sempre presentato una coesistenza tra un “centro” che rispetta queste regole e una “periferia” dove si concentra la manodopera non-qualificata a basso costo: non-competenti in questo senso dunque restano i lavoratori in nero nei campi e sui cantieri, nella logistica, e naturalmente nel settore secondario esternalizzato fuori dall’Europa. Quanto alle differenze in seno alla classe competente da noi, quella che a me interessa di più (come ormai sai) è quella tra chi è riuscito a garantirsi la permanenza in seno alla classe e chi si trova spostato, declassato, disoccupato: la famosa classe disagiata. “L’intellettuale che guadagna mille euro al mese” è proprio quello: un individuo che non è riuscito a essere assorbito nella classe competente. Lo schema è dunque triadico: competenti, non-competenti e competenti declassati. E sono proprio i vari movimenti dall’alto verso il basso, dall’alto verso il basso, gli avvicinamenti e gli allontanamenti, che danno il ritmo ai fenomeni storici che stiamo vivendo (ad esempio il populismo). Ogni fenomeno rivoluzionario è caratterizzato dall’incontro strategico tra il risentimento di classi differenti.

[Francesco D'Isa] La tua analisi sulle cause e l’iter del declino dell’occidente mi sembra plausibile, tanto che mentre leggevo ti ho soprannominato “Dark Weber” e non posso non dirtelo. Cosa possiamo fare a tuo parere per minimizzare i danni?

[Raffaele Alberto Ventura] Dark Weber mi piace perché Max Weber, che pure aveva intuito il destino di burocratizzazione del mondo, è un autore irrimediabilmente “grigio”, che accetta quel destino a malincuore e soprattutto non scorge l’emergere di una irrazionalità al cuore di quella che lui crede essere una marcia verso la razionalità. La tradizione del weberismo oscuro, invece, passa dalla Scuola di Francoforte e dal socialismo libertario francese (da Castoriadis a Debord), insomma segna l’incontro tra Weber e Marx e quindi la scoperta delle contraddizioni che abitano la razionalità strumentale moderna. Per parlare di danni e soluzioni bisognerebbe innanzitutto capire chi siamo “noi”, perché è chiaro che dei danni ci saranno, ma distribuiti in maniera ineguale, e che le soluzioni sono tali per gli uni e non per gli altri. Tuttavia se proviamo a concentrarci sulle principali contraddizioni che sollevo, alcune soluzioni appaiono evidenti. Nel libro denuncio la valorizzazione ineguale delle competenze come fonte d’ineguaglianza nonché l’enorme spreco che sosteniamo per accumulare titoli di competenza, per non parlare delle volte che mobilitiamo competenze in situazioni in cui la loro utilità è complessivamente inferiore al loro costo. E se invece accettassimo che si può entrare nel mondo del lavoro senza disporre di pile di titoli? Se riconoscessimo che gran parte delle decisioni motivate da “ragioni” sono invece puramente idiosincratiche? Insomma per questi problemi c’è una soluzione culturale di ordine generale: lasciare maggior spazio al caso nella selezione e nella decisione per ridurre gli strati di mediazione tra l’individuo e il mondo, e se necessario non decidere.

[Francesco D'Isa] Anche se lo menzioni, mi pare che non affronti mai direttamente il fatto che l’ascesa dell’Occidente non è dovuta solo all’incremento produttivo ma anche allo sfruttamento delle risorse durante e dopo il colonialismo di paesi terzi, che questo incremento non l’hanno mai goduto. Questa dinamica quanto fa parte di ascesa e declino della nostra società contemporanea?

[Raffaele Alberto Ventura] La questione coloniale è strutturante nel modello che propongo fin dai tempi di Teoria della classe disagiata, dove già la classe media occidentale veniva presentata come la “borghesia mondiale” che preleva il plusvalore globale in cambio della sua capacità di manipolare simboli. Ci torno in vario modo nei due libri successivi, nell’idea che in effetti il cuore della crisi del capitalismo occidentale sia una crisi di tipo imperiale.

[Gianluca Didino] Scrivi che “in una situazione predisposta al collasso, è bastato un evento imprevisto per scatenare la reazione a catena”. Più avanti: "Ecco il paradosso fondamentale che ci pende sopra la testa come una spada di Damocle: se è vero che ci sono rischi esiziali che non possiamo permetterci di correre, c’è anche un rischio nel volerci proteggere da tutti i rischi". Definisci inoltre la pandemia come un “cigno nero”. Uno dei temi su cui si è dibattuto a lungo negli ultimi anni (penso a Brexit, a Trump e ora al Covid-19) è stato il fallimento della capacità predittiva da parte dei competenti: nessuno si aspettava le varie catastrofi che ci si sono abbattute sulla testa. Da un lato mi sembra evidente che i “cigni neri” sono la nuova normalità (effetti catastrofici del global warming, pandemie, innovazioni tecnologiche inaspettate), dall’altro, proprio per questo, non siamo più in grado di predirne l’esistenza. La complessità ha ampiamente trasceso la competenza. Non ti sembra che quello della "gestione del rischio" sia un modello che chiede di essere rivisto?

[Raffaele Alberto Ventura] La pandemia è un buon esempio di evento che contemporaneamente è e non è un cigno nero. Perché bastava aprire un manuale non dico di virologia, ma semplicemente di management del rischio o di geopolitica della sicurezza per trovarvi un capitolo intero dedicato alla pandemia che colpirà il mondo, che verrà dalla Cina, che costringerà a chiudere le attività economiche… Insomma era tutto già scritto, ed erano già scritte molte delle misure che sono state prese. Dirò di più: alla luce della nostra ignoranza su molti aspetti del virus, per affrontarlo e capirlo non abbiamo fatto altro che applicare una sceneggiatura vecchia di almeno un decennio, pipistrello incluso. Mettiamola così: se disponiamo di una biblioteca abbastanza grossa, è probabile che in essa da qualche parte siano descritti tutti i futuri possibili che ci attendono. Il problema, però, è se stiamo facendo qualcosa per prevenirli. Se tutta questa conoscenza riusciamo a usarla. La risposta è che anche siamo sicuri al 100% che ognuno di noi morirà, questa consapevolezza non cambia il modo in cui comportiamo. Perché non siamo in grado di mobilitare tutte le risorse necessarie per proteggerci da tutti i rischi che abbiamo creato. Detto questo, la cosa che mi piace dei modelli di gestione del rischio, con il loro fatalismo che potrebbe dare l’idea di “giocare con la catastrofe”, è che partono da alcuni principi da tenere a mente: ricorsività del rischio, migrazione del rischio, amplificazione del rischio — insomma il rischio viene sempre spostato, mai eliminato, e talvolta spostandolo viene aumentato. Se non entriamo nella logica della gestione di rischio non faremo altro che ripetere gli errori che ci hanno portato a costruire la gigantesca torre di Babele di rischi che in ogni momento minaccia di caderci addosso.

[Gianluca Didino] A me la pandemia ha fatto pensare alla storiella raccontata da Watzlawick in cui la formica fa notare al millepiedi quanto debba essere difficile coordinare il movimento di tutte quelle zampe insieme, al che il millepiedi si paralizza. Nel 2008 con la crisi finanziaria era già successo qualcosa di simile, ora la pandemia ha aggravato la situazione. Capita anche con il salutismo: vuoi stare così bene che alla fine non mangi, non fumi, non bevi. Quando fermiamo l’attenzione sulla complessità della macchina in cui viviamo l’unica risposta possibile è la paralisi. Anche in questo caso il Covid-19 ha funzionato da acceleratore, mostrandoci come in questo avesse ragione Agamben: quello della nuda vita è un progetto sostanzialmente incentrato sulla pulsione di morte. La biopolitica concerne più la morte che la vita, come scrive Preciado è tanatopolitica. Se le cose stanno così perché stupirci poi quando il sistema collassa?

[Raffaele Alberto Ventura] In realtà le cose vanno un po’ diversamente dalla storiella proprio perché la macchina è così autonoma che fa benissimo a meno del cervello: insomma “noi” andiamo in paralisi, ma lei continua a girare, magari senza una vera direzione. È piuttosto frustrante, ma ovviamente ci sono strati di maggiore libertà apparente al di sotto delle grandi tendenze storiche. Tuttavia mi chiedo se il solo compito che spetti agli individui e agli eventi imprevisti non sia appunto altro, come dici, di “accelerare” oppure al contrario “rallentare” il ritmo della macchina. Può sembrare una sfida vana perché non cambia la destinazione finale della Storia, eppure è evidente che infinite cose cambiano semplicemente agendo su questo semplice cursore. Oggi c’è chi parla di “accelerazionismo”, secondo me sopravvalutando le capacità della tecnologia e sottovalutandone i rischi, mentre io sono tentato dal “decelerazionismo”: indietro non si torna, le pause non sono possibili, ma forse possiamo tentare di appiattire la curva dello shock del futuro. Dandoci, forse, il tempo per inventare delle soluzioni ai problemi nuovi che incessantemente emergono.

[Gianluca Didino] Bé, un tecno-ottimista potrebbe dirti che la piena automazione non è ancora economicamente sostenibile su larga scala ma lo sarà a breve. Può darsi che non lo sarà mai, ma le alternative rimangono ugualmente due: "accelerare verso la distopia", come dici altrove, o la decrescita (l'accettazione del rischio e della morte alla Illich). Parlando dell’incendio di Notre Dame, scrivi che "nessuna di queste due opzioni – piena automazione contro piena professionalizzazione – è economicamente sostenibile su larga scala". Mi sembra che non siano più tempi per giocare a tenere in piedi la baracca traballante con strategie cerchiobottiste: o si accelera o si decelera, prendendosi in carico i rischi che ognuna di queste due opzioni comporta.

[Raffaele Alberto Ventura] Ci sono, mi pare, due errori principali nella dottrina accelerazionista. Il primo è una forma di tecno-ottimismo davvero superato: come ha mostrato benissimo Antonio Casilli, il progresso delle macchine non è spesso altro che un modo di spostare e occultare il lavoro concreto, che continua a esistere ma sempre più squalificato; come ci mostrano i collassologi, non sono sostenibili né l’apparato industriale né i consumi della classe media occidentale; e come da mezzo secolo ci mostrano i critici della tecnologia, come Illich e Ellul, molti dei presunti progressi causano più danni che vantaggi anche nell’uso quotidiano. Il secondo errore dell’accelerazionismo è di ordine politico: i rapporti di produzione capitalistici, le forme di separazione generalizzata, i circuiti del plusvalore non vengono aboliti accelerando verso l’economia pianificata, ma semplicemente “rinominati”. Il fatto che il modello spesso proposto sia il Cybersyn di Allende è rappresentativo, perché noi già viviamo nell’incubo cibernetico realizzato e il futuro che gli accelerazionisti promuovono non mi pare davvero altro che il capitalismo 2.0 già in programma: una tecnocrazia illuminata nella quale i competenti prendono finalmente il posto dei borghesi e le decisioni tecniche quelle dei segnali del mercato. Certo sarebbe il male minore, una specie di distopia buona, ma quello che ho provato a dimostrare nel mio libro, anzi nei miei tre libri, è che questo sistema è pur esso insostenibile: perché fabbrica bisogni simbolici che non è in grado di soddisfare.

[Gianluca Didino] In un capitolo in cui citi spesso Joker di Todd Phillips dici che "impazzendo, la macchina spinge alla pazzia pure noi", e fai riferimento alle teorie del complotto che circolano in questi anni. Da un certo punto di vista però a me la realtà sembra più semplice: chi pensa che questo mondo "non possa essere reale" sta percependo una discrepanza veramente esistente. La “realtà” razionale creata dai modelli matematici e dalla tecnica in tutte le sue forme (anche dalla burocrazia) non necessariamente collima con una realtà psichica più profonda. Insomma, la ragione della pazzia, esattamente come in Joker, è più che legittima. Non sarebbe più semplice dire che l'edificio della modernità occidentale semplicemente ignora delle domande essenziali, che la riduzione dell’uomo a macchina necessario per questo progetto produrrà sempre lacune di questo genere?

[Raffaele Alberto Ventura] In effetti un modo di definire la modernizzazione è che si tratta di una “tecnologia di costruzione del soggetto” per renderlo adatto al sistema produttivo, a quello consumativo o (ma in questo c’è una contraddizione fondamentale) entrambi. Non direi necessariamente che ignora le domande essenziali, perché non esistono domande essenziali fuori dal quadro culturale dal quale emergono, semmai che costruisce domande alle quali non fornisce risposta. Non esiste necessariamente, per esempio, un bisogno di spiritualità e di riconoscimento connaturato all’essere umano in quanto tale, qualsiasi cosa sia: ma nel momento in cui questi bisogni emergono storicamente essi divengono pressanti. Quindi direi che il problema della modernizzazione è davvero che costruisce più bisogni simbolici di quanti ne possa soddisfare, in una dinamica che è sempre quella dell’accelerazione e della dipendenza. Che poi è la condizione del Joker, che nel film viene reso dipendente dagli psicofarmaci fin dalla più tenera età (per curare un malessere che ha cause sociali e familiari) e al quale viene sospesa la terapia quando ormai la sua dipendenza si è cronicizzata. Questo succede continuamente a centinaia di migliaia di persone in America.

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