La pandemia e il futuro. La visione di Mary Shelley
La pandemia, il collasso climatico, la sorte della specie. Queste realtà si intrecciano al nostro immaginario attuale, entrano nelle nostre esistenze spingendoci a ipotizzare uno scenario di crollo e sopravvivenza, a fronteggiare il destino e le responsabilità, prima ancora che tentare parole di speranza. Ma come si può narrare questo futuro senza perdersi in teorie e speculazioni?
Pioniera della climate-fiction, ci riesce Mary Shelley, pubblicando nel 1826 un romanzo sulla fine dell’umanità a causa di una pestilenza scoppiata nel 2092, e lo fa traendo ispirazione dalle sue proprie perdite. Scrivendo del destino apocalittico dell’umano l’autrice piange i suoi morti, congedandosi da loro mentre li trasfigura nei protagonisti del libro. È la morte, vissuta come una presenza ineluttabile e individuale, a suggerirle la solitudine dell’ultimo della specie, L’ultimo uomo che intitola il libro.
Del resto Mary Shelley aveva già scritto Frankenstein, capolavoro in cui l’utopia diventa terrore nel tentativo di riportare in vita i defunti dando forma a una creatura tanto straordinaria quanto portatrice di sventura. Toccare il sublime, restituendo a corpi inerti un’identità vitale, significa infatti sostare nella traccia di ciò che è irrimediabilmente caduco. La violazione delle leggi naturali non causa punizioni divine, ma conoscenza del sentimento umano e dello stigma del diverso che, se non genera un eroe, genera un mostro. Ma in chi e dove? Nel redivivo assemblato da parti di cadaveri o in chi lo scaccia o deride, causandone l’ira omicida? Dirà la creatura:
Non c’era nessuno nella miriade di uomini esistenti al mondo che volesse aver cura o pietà di me, dunque, perché provare benevolenza nei confronti dei miei nemici?
Come il dottor Frankenstein, padre del mostro, anche Mary Shelley aveva perduto la madre, la filosofa femminista Mary Wollstonecraft, deceduta per setticemia pochi giorni dopo la nascita della figlia.
Mary Wollstonecraft muore dopo aver partorito Mary Shelley. Perché non ri-generare chi ti ha generato?
Chiede Elisa Biagini nella sua opera più recente di poesia, Filamenti, pensandone l’ultima sezione come un diario ritrovato della Shelley stessa, dove si legge:
Il cielo è un livido mentre raccolgo i pezzi per il tuo ritorno, spedizione in un paese straniero. Il tuo respiro era tenuto in un vaso, in attesa.
In quest’attesa, che è il tempo dello scrivere e dell’amare, Mary Shelley imparerà che dalla morte non si torna. Nella morte ci si può però addentrare da vivi, riportandone cicatrici: una prima che genera il mostro della natura umana; una seconda, più estesa, che iscrive l’umano nella violenza della natura tutta, contro cui è inutile combattere. Mary fu cresciuta dal padre, il filosofo radicale e libertario William Godwin, che celebrava la ragione sopra tutto, e sposò il poeta Percy Bisshe Shelley, a sua volta influenzato dalla filosofia di Godwin. Sono proprio la ragione paterna e gli ideali romantici con cui l’autrice infine è costretta a confrontarsi, delineandone la sconfitta nel disastro epidemico.
L’ultimo uomo inizia come una profezia della Sibilla Cumana di cui, nel 1818, la prima voce narrante ritrova le foglie divinatorie. Quanto leggeremo è dunque la traduzione dei messaggi sibillini: non è ancora accaduto eppure è già stato visto. Perché i poeti e compagni che animano i personaggi sono di fatto già trapassati, Percy Bisshe Shelley affogato nel golfo di Livorno nel 1822; Lord Byron morto in Grecia durante la guerra d’indipendenza nel 1824. Con uno stratagemma dantesco la Shelley racconta a se stessa il lutto e ai lettori l’estinzione.
Lionel Verney, protagonista della vicenda e trasposizione letteraria dell’autrice, ci parla dunque direttamente dalle foglie conservate per secoli in una caverna. Siamo nella seconda metà del ventunesimo secolo, l’Inghilterra è diventata una repubblica, governata da una élite di nobili: accanto a Lionel troviamo il figlio dell’ultimo re inglese, Adrian, dallo spirito umanitario e idealista, il più amato e fedele dei maestri e compagni, che riflette la figura di Percy Shelley e come lui morirà in Italia fra le onde, lasciando Lionel unico superstite al mondo; e Lord Raymond, leader anticonformista, ribelle e temerario, che morirà combattendo accanto al popolo greco, proprio come il suo ispiratore, Byron. Attorno a questi tre personaggi crescono famiglie e amicizie, che si consolidano e trovano riparo presso la tenuta di Windsor, luogo dove realmente Mary visse la felicità con Shelley. La piccola compagnia rappresenta un sogno, minacciato dalla guerra fra gli uomini e poi dall’incedere dell’epidemia.
Viviamo l’uno per l’altro e per la felicità: cerchiamo la pace nella nostra cara casa, vicino al mormorio dei ruscelli, e al grazioso ondeggiare degli alberi, alla bella vegetazione della terra e allo sfarzo sublime dei cieli. Lasciamo la “vita”, per poter vivere.
La peste appare non casualmente in Grecia, terra prima dell’identità europea e, ai tempi in cui scriveva la Shelley, di un lungo conflitto per la libertà:
Ho sentito descrivere un quadro in cui tutti gli abitanti della terra sono in preda alla paura per dover affrontare la Morte. I deboli e i decrepiti fuggivano; i guerrieri si ritiravano, anche se continuavano a lanciare minacce durante la fuga. Lupi e leoni, e vari mostri del deserto ruggivano contro di lei: mentre la cupa Irrealtà aleggiava scuotendo il suo dardo spettrale, assalitrice solitaria ma invincibile. Proprio questo accade all’esercito greco.
L’epidemia avanza assieme ad altri fenomeni come il sole nero che si alza a ovest e tramonta a est, segnando un totale sconvolgimento terrestre, alluvioni e ovviamente migrazioni di massa. I personaggi confidano nell’arrivo del freddo purificatore che plachi la virulenza della malattia, mentre l’astronomo Merrival, intrappolato nelle sue congetture sterili, resta cieco all’incedere della peste e continua a pronosticare un mondo felice, pacifico e armonioso entro… qualche migliaio di anni. La cecità umana e le speranze si infrangono contro la natura, unico volto del fato, che incede senza alcun intento giustizialista, ma perché così è e si rivela: meraviglioso mostro indifferente che ci abbraccia.
Perché ululi così, vento? Per giorni e notti, per lunghi mesi, il tuo rombo non è cessato – le rive del mare sono cosparse di relitti, la superficie del mare, che un tempo accoglieva benevola le chiglie, ora è divenuta insormontabile; la terra, obbediente al tuo comando, si è spogliata della propria bellezza; la fragile mongolfiera non osa più navigare nell’aria agitata; i tuoi ministri, le nuvole, inondano la terra di pioggia; i fiumi abbandonano le loro sponde; il torrente folle distrugge il sentiero di montagna; la pianura e il bosco e la valle verdeggiante sono privati della loro bellezza; le nostre città sono soggette alla tua devastazione. Ahimè, che ne sarà di noi? Sembra quasi che le onde giganti dell’oceano, e vaste braccia di mare stiano per strappare dal loro centro la nostra isola radicata in profondità, e gettarla, come un relitto e una rovina, sui campi dell’Atlantico.
Dice quasi in una supplica il protagonista. Ed è un passaggio commovente, per chi cerchi la storia personale dietro la trama: questo vento di devastazione è prossimo a quel vento occidentale di cui Percy Shelley veniva scrivendo presso l’Arno, annunciatore profetico della primavera. Mary, che dell’opera del marito fu curatrice, sembra sporgersi così sul fantasma del poeta, rovesciandone con pari forza visionaria le immagini. Chi si è amato non è più. Per tenerlo ancora un po’ qui occorre fare del desiderio un deserto, occorre arrendersi all’asprezza del vero.
Cosa siamo noi, abitanti di questo globo, il più piccolo tra i molti che popolano lo spazio infinito? Le nostre menti abbracciano l’infinito; il meccanismo visibile del nostro essere è soggetto al più semplice accidente. Giorno per giorno siamo costretti a crederlo. Colui che è stato distrutto da un graffio, chi scompare dalla vita visibile sotto l’influenza delle forze ostili che ci attorniano, aveva le mie stesse facoltà – anche io sono soggetto alle stesse leggi. A dispetto di tutto questo, noi ci chiamiamo padroni della creazione, dominatori degli elementi, padroni della vita e della morte, e adduciamo a scusa di questa arroganza il fatto che, anche se l’individuo viene distrutto, l’uomo può continuare per sempre.
E ancora:
Così, perdendo la nostra identità, che è quella di cui siamo maggiormente coscienti, ci gloriamo della continuità della nostra specie, e impariamo a guardare la morte senza terrore. Ma quando una qualsiasi nazione diviene la vittima dei poteri distruttivi di agenti esterni, allora invero l’uomo diventa piccolo fino ad essere insignificante, sente diventare insicura la sua permanenza in vita, e negata la sua eredità terrena.
La visione non antropocentrica di Mary Shelley ci ricorda che l’intelligenza umana non può nulla contro la natura fruttifera e mortale che ci contiene. Lette oggi queste parole hanno anche il sapore di una condanna verso l’arroganza stolta di chi innesca in loro un potenziale distruttivo inarginabile.
Chi è infine l’ultimo essere umano? Alla deriva in un mare indifferente. Qualcuno che nonostante tutto non può dimenticare la sua umanità, in nome di chi ha amato. Nella sua solitudine trasforma il futuro in memoria. L’ultimo umano è ognuno di noi davanti al lutto, che è sempre la fine di un mondo. Nella sua resa può ricordare il breve sogno sognato con altri e così ancora trarne il bene, proteggerlo.
Frankenstein
L'angosciante storia di uno studente che conduce macabri esperimenti nel tentativo di restituire la vita ai cadaveri. Una favola terribile capace di imporsi con la forza delle immagini e la sua autonomia di mito universale. L'opera più celebre della Shelley
Visualizza eBookL'ultimo uomo
Come il primo libro di questa romanziera (Frankestein), questo romanzo singolare è considerato un antesignano della letteratura fantascientifica. Pubblicato nel 1826, viene ambientato negli anni 2090, quando una vastissima epidemia stermina la razza umana, accompagnandosi a tempeste straordinarie, maree superiori ad ogni limite, esondazioni di fiumi, e altre calamità.
Visualizza eBookFrancesca Matteoni (Pistoia, 1975) conduce laboratori di tarocchi, fiaba e poesia ed è fra i redattori di Nazione Indiana. Ha pubblicato vari libri di poesia, fra cui Artico (Crocetti 2005), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Acquabuia (Aragno 2014) e il romanzo Tutti gli altri (Tunué, 2014). Ha all’attivo pubblicazioni accademiche, tra cui: Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014) e, con il professor Owen Davies, Executing Magic in the Modern Era: Criminal Bodies and the Gallows in Popular Medicine (Palgrave, 2017). I suoi ultimi libri sono il saggio Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (effequ, 2019) e il testo di poesia Libro di Hor con immagini di Ginevra Ballati (Vydia, 2019), La scommessa psichedelica (Quodlibet 2020) a cura di Federico Di Vita. Abita con il suo gatto.